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Masterpiece, scrivere è Disagio

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Masterpiece ha cominciato a far parlare di sé – non solo in Italia – ben prima del suo esordio sul palinsesto serale di RaiTre di ieri, domenica 17 novembre. Su Twitter è diventato subito argomento di discussione, tra curiosità e sdegno. Il perché di questo clamore è presto detto: l’idea di accostare il mondo della scrittura al format tv del talent show è parso a chi ardito, a chi sacrilego. Di sicuro, trattandosi del primo esperimento a livello mondiale in questo senso, il tentativo non è passato inosservato.

Di mio, ho accolto questo esperimento della Rai con fiducia, convinto della necessità che la letteratura si sporchi un po’ le mani. Lasciando da parte gli snobismi, insomma, ritengo che un tentativo di spettacolarizzare la scrittura possa anche portare i suoi frutti. O, comunque, non possa fare danni, perché già adesso il mercato editoriale è fortemente interconnesso con la televisione e con i personaggi di spettacolo. Le mie speranze, purtroppo, sono state deluse.

L’impressione emersa dai minuti iniziali di Masterpiece, in cui i concorrenti della prima puntata venivano accolti prima dal conduttore Massimo Coppola, poi dalla giuria composta dagli scrittori Andrea De Carlo, Giancarlo De Cataldo e Taiye Selasi, è stata di Disagio. Con la D maiuscola. L’ex detenuto palermitano, l’operaia sognatrice, il caso clinico, il vagabondo: l’idea che emerge dai casting (troppo condizionati dalla ricerca a ogni costo di un personaggio) è che per fare lo scrittore sia necessario aver sofferto, oppure essere degli strambi.

Ma più che nelle scelte dei protagonisti, i problemi risiedono nel format nel suo complesso. Innanzitutto, si scrive poco. L’unica prova in tal senso affrontata dai concorrenti è di una pochezza disarmante e assomiglia più che altro a un temino delle medie. Il fatto che poi tutti i concorrenti (tranne in parte il vincitore della puntata, Lilith Di Rosa, che ha dato quantomeno prova di una certa autonomia) ne siano usciti in maniera imbarazzante, tra banalità e luoghi comuni che nemmeno quando avevo dodici anni, non è che la riconferma del lavoro discutibile in fase di casting.

L’altro grande problema è che la struttura dello show è risultata poco chiara. Per la maggior parte di Masterpiece non si è capito esattamente cosa stesse succedendo, se ci si trovasse davanti a una prova oppure a una semplice chiacchierata. Le stesse “gite fuori porta” dei protagonisti hanno assunto un senso solo dopo un po’ e l’impacciato confronto tra i concorrenti e il direttore editoriale di Bompiani, Elisabetta Sgarbi, è apparso inutile ai fini della gara.

Sul fronte giuria, l’unico ad avere un po’ di mordente è stato Andrea De Carlo, che in alcune occasioni ha tirato fuori la cattiveria e ha messo i partecipanti di fronte alla loro pochezza. Taiye Selasi è sembrata invece del tutto fuori contesto. Ma i problemi di Masterpiece non finiscono qui. O meglio, tutto quanto è un problema: la regia svogliata, i ritmi slabbrati, la mancanza di un climax e di un vero e proprio conflitto. L’impressione globale è stata di povertà, come se la scrittura fosse superiore rispetto alla necessità di fronzoli e di una presentazione adeguata che il mezzo televisivo invece impone.

Il risultato finale è stato quindi di riconfermare il pregiudizio che vuole la scrittura noiosa e la lettura poco accattivante. Non che fossero necessari nani, ballerine e suonatori di liuto, intendiamoci. Ma un po’ più di cura e di rifinitura nell’adattare un format difficile ai tempi e alle necessità della tv, quello sì. Le uniche note positive di Masterpiece sono derivate dai momenti di comicità involontaria e dal commento in tempo reale su Twitter.

E proprio su Twitter Beppe Severgnini ha tentato una difesa del programma scrivendo: “#masterpiece è televisione che prova a fare qualcosa di diverso. Evitare snobismi paraintellettuali, please”. Il problema, però, è che qui non si tratta di snobismo. Magari lo show fosse riuscito nel suo intento. Anche se fai tv diversa, se la fai male non basta. L’originalità da sola non è sinonimo di qualità. Anzi, facendo brutta tv sperimentale, fai solo un torto a chi cerca di cambiare questo mezzo ormai obsoleto, perché dai ragione a chi continua a fare sempre la solita roba.

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