Site icon Le Nius

Lou Reed: we had a real good time together!

lou reed
Reading Time: 4 minutes

Come tante altre domeniche mattina, anche domenica 27 ottobre 2013 al risveglio ascoltai Sunday Morning. Mentre il suono avvolgente e soffice si diffondeva per casa, sorseggiando un tè caldo pensavo a quanto fosse perfetta quella canzone e alla voce incredibile che Lou Reed ci aveva messo dentro.

Lasciai proseguire l’intero album, e poi ne selezionai un altro ancora, sempre Velvet Underground, mentre facevo dell’altro. Era da mesi che non mi prendevo il tempo per ascoltare due album di fila, con i brani nella giusta sequenza, quella ideata dagli autori e non quella decisa casualmente dal lettore mp3.

Verso metà pomeriggio andai sul sito del Corriere, e rimasi bloccato a fissare lo schermo, incredulo. “è morto Lou Reed, signore del rock”. Cercai di capire come, dove, perché e mi assalì un’ansia incredibile, quell’ansia che provi quando ti accorgi che qualcosa attorno a te sta cambiando e sta sfuggendo dal tuo controllo.

Fu una brutta sensazione e mi sentii immediatamente un po’ più solo. Conoscevo Lou Reed attraverso la sua produzione da circa quindici anni, dapprima avvicinandomi ai brani-totem e poi, sempre più incuriosito, recuperando i vari album e le storie che ci stavano dietro.

Scoprii un mondo, e cominciai a sognare l’America. Un’altra America. Non quella dei film di Hollywood, naturalmente, ma nemmeno quella dei grandi romanzi novecenteschi che pure mi avevano elettrizzato.

L’America che conobbi grazie a Lou, ai suoi testi e alle sue suggestioni era un’America a tratti disperata e vitale, perversa e fragile. Per me, poco più che diciottenne cresciuto nel mezzo delle Alpi, le immagini evocate dai Velvet Underground e dal suo cantante e co-fondatore erano cariche di mistero e di cupezza, allo stesso tempo fascinose e malate.

Canzoni come All Tomorrow’s Parties o Venus in Furs o Heroin e poi Walk on the Wild Side, Vicious, Dirty blvd, Baby Face, Berlin furono come una calamita. La mia tranquilla vita di studente mi pareva anni luce distante dalla vita descritta in quei frammenti musicali, fatta di eccessi, trasgressioni, droghe pesanti, perversioni e miserie quotidiane, eppure provavo un’irresistibile attrazione per quegli squarci di vita tratteggiati con poesia e crudezza nelle sue canzoni.

La voce roca e suadente di Lou mi accompagnava nei meandri più sudici di New York dove una carrellata di personaggi colorati e ormai famigliari si dibatteva con disperata vitalità tra le mille difficoltà della metropoli. E della vita.

Senza emettere giudizi o condanne, ma descrivendo in maniera disincantata ciò che, in parte, lui stesso aveva vissuto: incomprensione, dolore, conforti temporanei e illusori, cadute agli inferi e sorprendenti rinascite. Con anche punte di presunzione (“My week beats your year” scrisse nelle note interne di un suo album). Ma senza mai cedere alla tentazione di lanciare ipocriti messaggi salvifici e altisonanti; dopotutto “there are problems in these times, but none of them are mine”.

Mentre sulla West Coast era il periodo dei figli dei fiori e le canzoni più gettonate raccontavano di amori estivi, surf, trip psichedelici e non-violenza a New York Lou e i Velvet Underground si fecero cantori dei bassifondi e di una società che l’America della fine degli anni Sessanta non conosceva ancora, o non voleva vedere.

Una società dimenticata, sporca, sconfitta, disillusa e lontana dai sogni americani di gloria, sebbene pronta a riscattarsi con l’orgoglio degli ultimi. Quella stessa reietta società che Lou continuò a frequentare e a fare oggetto delle sue canzoni nei decenni a seguire, attraverso album che, anche nei peggiori casi, contenevano almeno un brano, un ritornello, un verso o un riff degni di essere ascoltati e ricordati.

Custodivo e custodisco tuttora gelosamente la mia passione per Lou Reed, pur non avendo mai visto un suo concerto e pur non avendo ascoltato mai alcuni suoi album, che pure possiedo. La mia passione non è idolatria, e penso che i suoi modi spesso bruschi e riservati abbiano impedito la nascita di schiere di fan acritici e faziosi. Penso che nessuno, ad eccezione dei titoli sensazionalistici dopo la sua morte, lo abbia mai definito o considerato “il più grande” chitarrista, “il più grande” cantautore o “il più grande” rocker della storia americana.

La sua è una sincera e passionale avventura musicale e poetica dentro la vita e la morte, la disperazione e la droga, il sesso e il sentimento, che si è dipanata, costante e vibrante, per quasi cinquant’anni, con picchi altissimi e sconvolgenti e con tonfi rumorosi. Ma sempre coniugando le storie di personaggi singolari con basi musicali di altissimo impatto emotivo.

Un percorso artistico costruito in maniera anarchica, spesso in polemica con le proprie etichette e sempre attento a riconoscere e rispettare le proprie fonti di ispirazione (la strada, la città, gli amici) più che il pubblico o i suoi colleghi (“la mia merda è molto meglio dei diamanti degli altri” dichiarò in un’intervista del 1973).

Chi altri, se non Lou, avrebbe potuto mettere in musica e raccontare con candore e semplicità la grottesca vicenda del giovane ed innamorato Waldo Jeffers e della sua Marsha Bronson (The Gift, magistrale esempio della capacità narrativa di Reed e dell’abilità nel rendere leggendarie delle storie bizzarre)?

Chi altri avrebbe potuto incentrare un intero album sulle vicende di una coppia di tossici americani trapiantati a Berlino, tra violenze domestiche, depressioni, droghe e suicidi?

Chi altri, se non Lou, avrebbe potuto scrivere una canzone sulla domenica mattina dal suono tanto dolce e dal testo così gonfio d’angoscia e di inquietudine, e poi scegliere proprio una domenica mattina per andarsene definitivamente?

Leggi tutti i nostri Racconti in Musica

CONDIVIDI
Exit mobile version