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La Grande Bellezza sotto il chiacchiericcio e il rumore

il chiacchiericcio e il rumore
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Quando l’agosto scorso m’intrufolai in un cinema di Kreuzberg, La Grande Bellezza era uscito da poco. Ebbi la fortuna di vedere il film in lingua originale con sottotitoli in inglese, in una sala composta in maggioranza da cittadini tedeschi di ogni età e, sicuramente, da non pochi connazionali domiciliati o residenti nella capitale.

In tale contesto, l’impostazione tecnica della proiezione mi fece riflettere sulle dinamiche possibili di un nomadismo di significati, come un margine considerevole di giochi di traduzione, all’interno sia di un’alterità-identità linguistica che storica e culturale. Insomma, se v’è critico che recentemente ha proposto “un plauso alla squadra nazionale”, in quel caso, mi sarei trovato ad assistere all’ennesimo Italia-Germania, ma non capendo bene se la partita si giocasse nella Città Eterna o nella capitale tedesca.

Cosa comunica ad un tedesco o ad un italiano generico una falce e martello usata come decorazione pubica durante la performance di un (‘) artista trans-gender fuori Roma?

Il film di Sorrentino è ricco di dettagli di questo tipo, che sicuramente è inutile portare ad un eccesso di ermeneutica antropologica (o di geopolitica della ricezione artistica), ma che in un mondo cinematografico globalizzato è utile tenere a mente. Non solo per i processi di consacrazione o per le processioni di celebrazione.

La critica nostrana – specialmente in ambienti popolati da residui e trasformazioni della diaspora culturale della sinistra – ha accolto la pellicola vertendo sui suoi latenti o manifesti connotati identitari: quanto di (positivamente) italiano v’è nel successo de La Grande Bellezza e quanto (negativamente) c’è di italiano che possa piacere ad una giuria (gringa o yankee, a seconda del repertorio) come i Golden Globe?

La Grande Bellezza permette l’ennesima autoanalisi collettiva di una nazione. Nemmeno stavolta infatti la critica si è risparmiata narrazioni e rappresentazioni di sé attraverso l’opera, connotate da cinismo e polemizzazione spontanea, tipica espressione del patrimonio genetico italico, come suggerì qualche anno fa persino qualche acuto storico revisionista (S.Romano, Finis Italie. Perché gli italiani si disprezzano).

Ovviamente il film di Sorrentino è qualitativamente molto di più del dilettevole esercizio della critica. È tuttavia grottesco che in tempi di multipolarismo politico e neoliberale, il fantasma dell’imperialismo culturale statunitense venga velatamente rievocato, come un sottofondo di celato revanchisme, in paralleli longitudinali con La Dolce Vita di Fellini, pellicola forgiata in piena Ricostruzione e Piano Marshall.

C’è chi vede nell’apprezzamento internazionale una rappresentazione godereccia ed invidiata (ma superficiale) della Penisola. C’è chi invece trova come comune denominatore del film un recondito senso di decadenza collettiva che s’affaccia su di una terrazza romana, panorama di uno splendido e profondamente narcotizzato regno fastoso ma musealizzato, che schiaccia l’individuo tra il proprio passato, il nulla del feticcio culturale reso oggetto del rituale decorativismo mondano e il presente, eterno ritorno scandaloso delle multiformi vesti della corruzione collettiva.

Il successo del film di Sorrentino sta invece nella complessità che non cede al ricatto della banalità e dello snobismo – due tendenze complementari nelle affluent societies e ugualmente fini a sé stesse – ma anzi sa comunicare stati d’animo e culturali nella forma di un’intrigante commedia e storia di vita.

Si tratta così di un film capace di colpire le forme di vita singolari attraverso le quali cercano di estrinsecarsi le passioni universali (tristi o euforiche) di ognuno di noi, non eccedendo nei simbolismi e negli autismi avanguardisti, né nella spirale della commedia spicciola.

Ne sono esempi i numerosi passaggi che colgono il rapporto tra retorica politica e incoerenza quotidiana, tra evocazioni della spiritualità e compromesso mondano, tra le illusioni dell’estetismo e il disagio della sua insensatezza, tra la cupidigia della sessualità e il realizzarsi del suo rovescio, la noia.

In fondo, Jep Gambardella siamo tutti noi, un’idea di giovinezza, l’esperienza di un volto allegoria della comunità emozionale a due, la promessa che abbiamo dovuto accantonare o che ancora rivendica ardentemente il diritto a manifestarsi, i compromessi e le maschere del teatro del mondo, di cui vorremmo essere al centro della scena.

Il resto… è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi, lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile.

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