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Italia anni dieci

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Il teatro è noioso.
Il teatro parla un linguaggio più morto del latino.
Il teatro contemporaneo… mah, io esco dalla sala che non ho capito il senso dello spettacolo…

Se fate parte di quella categoria di persone che almeno una volta nella vita hanno pronunciato una di queste frasi… no, non vi sto giudicando. Vi consiglio solo di andare a vedere Italia anni dieci: questo è uno di quegli spettacoli che vi farà cambiare idea, ne sono certa.

In scena al Teatro Ringhiera fino al 2 febbraio, Italia anni dieci è il frutto della collaborazione tra Serena Sinigaglia, pluripremiata regista stabile della compagnia Atir, ed Edoardo Erba, drammaturgo e regista, autore, tra gli altri, del celeberrimo Maratona a New York. Un lavoro attento che, guarda caso, non avrebbe potuto essere più attuale di così.

Tema: la crisi. Un argomento caro alla Sinigaglia, che nel 2012 aveva già lavorato sul testo di un autore spagnolo portando a teatro con Ribellioni Possibili la storia degli “indignados”, niente popodimenoche il primo grande movimento di protesta dal basso che si è affacciato in Europa pochi anni fa. Un tema che ora affronta in tutta la sua grottesca italianità.

Su un palco che sembra quasi concavo, come a voler inghiottire i poveri protagonisti nel baratro della realtà in cui tutti oggi siamo imprigionati, tra cinematografici flashback – che rendono incalzante il ritmo dello spettacolo e fanno letteralmente volare i 100 minuti della rappresentazione – si alternano le vicende di alcuni personaggi fortemente stereotipati e per noi simbolo di quel che siamo diventati.

Un industriale sull’orlo del suicidio (che per scappare dai propri debiti si approfitterà della bontà di una donna ingenua, ma verrà severamente punito dalla natura in persona) e la sua signora (la bravissima Maria Pilar Pèrez Aspa, che ci regala un monologo divino, recitando con passione vera e a tratti ridicola una sorta di apologia dei prodotti di lusso, dalle creme per il viso alle borse originali Louis Vuitton, passando per i rossetti Chanel, gli unici capaci davvero di prendersi cura di una donna e di farla sentire tale).

Una madre sin troppo protettiva – nonché l’ingenua di cui sopra – e una figlia ingrata, eterna disoccupata; un insegnante di salsa, la versione decisamente tamarra di Garrison di Amici, che invece di regalarci un elegante accento americano ci propina un colorito dialetto barese muovendosi nella sua palestra vestito con una tuta bianca aderente e sculettando ammiccante da un’allieva all’altra; un intellettuale allo sbando e una badante albanese, che pur di mantenere la famiglia nel suo paese d’origine è disposta a prostituirsi.

Ed ecco che, mentre la crisi economica li denuda, tutti in modo diverso ma ugualmente tragico, i loro destini si intrecciano con un epilogo che non ha nulla di lieto. A poco a poco infatti dal soffitto inizia a cadere una fitta pioggerellina che si trasformerà in un vero e proprio acquazzone: a nulla servirà l’affanno della madre, che correrà da una parte all’altra del palco con dei secchi per arginare il disastro. L’acqua (perché in fondo, dalla natura non possiamo difenderci) spazzerà via tutto, compresa probabilmente la sua dignità.

“Questo è lo scopo del teatro, quello di porgere uno specchio alla natura, di mostrare alla virtù il suo volto, al vizio la sua immagine, e all’epoca stessa, alla sostanza del tempo, la loro forma e impronta” diceva Amleto.

Serena Sinigaglia ci dimostra, ancora una volta, di aver fatto tesoro di queste parole trasformandole nel manifesto della sua poetica e del gruppo artistico da lei creato che, da ormai vent’anni, condivide il progetto appassionato di un teatro civile e politico PER il popolo (alla faccia di chi il teatro lo considera un linguaggio d’élite).

Ed ora che davanti allo specchio abbiamo visto la nostra crisi riflessa, prima con Ribellioni possibili e poi con Italia anni dieci (di fatto due capitoli di uno stesso romanzo) sentiamo davvero la necessità del finale di questa storia, sperando quasi che il teatro, l’arte, ci aiutino a trovare una soluzione.

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