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Il corpo del danzatore è parabola di felicità

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Londra è grande, immensa. Talmente immensa che puoi avere un amico che vive dall’altra parte e non vederlo mai. Talmente enorme che ti ci vogliono ore per attraversarla, gigantesca che ci vive tutto il mondo. Tanto più grande è Londra, tanto più piccoli siamo noi omuncoli comuni e soprattutto i nostri spazi.

Viviamo in casette che paiono scatolette, con quadratini di giardinetti. Ci strizziamo per entrare in metro e spesso anche solo per camminare per strada. Il nostro spazio di respiro si restringe sempre di più, ci urtiamo tra di noi, timorosi di invadere il cerchietto altrui. Le spallucce sempre accartocciate, un po’ per il freddo e un po’ per ficcarci in qualche buco, dopo aver fatto la fila trattenendo il fiato.

Angusto è pure questo loggione dal quale sto guardando lo spettacolo, l’unico posto che mi posso permettere. La mia posizione inquina il mio pensiero e mentre lo spettacolo va avanti io cerco solo un posto dove mettere i piedi. Davanti a me, o meglio sotto di me, qui al Barbican va in scena la Phaedra della Richard Alston Dance Company.

Mi ci ha trascinato Beatriz, la mia amica danzatrice che sogna di lavorare in questa compagnia. Io mi lego le gambe al collo e lei invece sta tutto il tempo a pensare che i danzatori non fanno nulla che lei non sarebbe in grado di fare, allora perché non l’hanno presa a quel maledetto provino? Quelli qui sotto stanno facendo una versione danzata della tragedia greca, in scena c’è anche un’orchestra vera, la Britten Sinfonia e Fedra canta, stridula da tapparsi le orecchie.

Mentre la tragedia degli assassini e dei miei muscoli atrofizzati si consuma, penso che il corpo del danzatore è una parabola di felicità. Quanto spazio occupano le sue gambe e le sue braccia per fare un gesto, che estensione estrema la schiena, persino il collo. Ci sono questi duetti in cui per dirsi ciao i due si dilatano, si estendono e occupano tutto quello spazio che a un corpo comune non è concesso. Aprire le braccia è un’azione di apertura al mondo così naturale eppure impossibile, a meno che al mondo tu non voglia ficcare un dito in un occhio.

Poi penso che quella degli spazi oggettivi forse è solo una scusa, che se vogliamo veramente espanderci possiamo farlo. In realtà raggomitolarci su noi stessi ci fa comodo e ci protegge, che non si sa mai.
Non bisogna mica sognare di danzare in una compagnia che non ci prenderà mai per alzare un braccio! Né tantomeno rinchiuderci in una palestra per stiracchiarci o salutare il sole.
Ce la possiamo fare, la strada è nostra amica.

Così, all’uscita dal teatro faccio questo atto di coraggio, e nel camminare allungo le gambe al massimo e mi accorgo che persino Bea mi guarda malissimo, ma che respiro decisamente meglio. Urto una tizia aggrappata al suo omone. Sorry.

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