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I distinguo su Pietro Ingrao, simbolo di una sinistra che non c’è più

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@ilmanifesto

Pietro Ingrao, resistente, deputato e leader della compagine parlamentare del Partito Comunista Italiano, vice e poi primo presidente comunista della Camera, rifondatore dell’Unità ed ispiratore del Manifesto. Basterebbe questo a farne un monumento di lealtà alla repubblica, un’icona della generazione che ha fatto risorgere questo Paese dalle macerie della guerra.

Eppure fioccano i distinguo. C’è chi ne ricorda l’adesione al Partito Nazionale Fascista (come se De Felice non avesse spiegato con dovizia di particolari cosa fossero gli anni Trenta in Italia), chi gli articoli in difesa dei carri armati sovietici su Budapest nel 1956. Perfino il suo giornale (cosa che risulterebbe quantomeno eccentrica su qualunque altra testata), la resuscitata Unità dell’era Renzi, lo liquida con due articoli a firma Rondolino e Lavia, come un velleitario sognatore, sottolineandone le contraddizioni e condannando senza appello il cosiddetto “ingraismo”.

È vero, Ingrao è sempre stato contraddittorio, “a sinistra” in un partito “di sinistra” ha condannato chi gli stava vicino (gli eretici del Manifesto) assecondando la loro espulsione. Lui, aspirante riformatore del PCI, ha osteggiato la svolta della bolognina, intravedendo forse, la direzione quel cambiamento, orientato più verso il migliorismo dei suoi acerrimi nemici Amendola e Napolitano che sulle aperture alla società e ai movimenti da sempre invocate dal nostro.

Per quanto contraddittorio, però, Ingrao era anche, soprattutto per gli under trentacinque, un simbolo, in parte suo malgrado. Era facile, infatti, incontrarlo seduto ad un caffè di via Cavour mentre si passava in corteo, o sotto ad un palco al Circo Massimo o a Piazza del Popolo, ed indicarselo l’un l’altro facendo, i più coraggiosi, un pugno chiuso per saluto o una foto accanto al veterano di mille battaglie.

Era, per noi figli del relativismo, cresciuti dopo la caduta del muro, uno dei nostri nonni comunisti in via di estinzione, membri di una generazione per la quale la ragione stava tutta da una parte, ed il torto dall’altra, una generazione che sapeva quali libri leggere, quali film vedere, quali compagnie, luoghi, scuole frequentare, quale telegiornali guardare, quale quotidiano comprare.

Lui, campione del dubbio e del dissenso era diventato paradossalmente, nell’immaginario di tutti, l’ultimo rappresentante di un mondo fatto di certezze. La sua sola presenza serviva a certificare la giustezza di una manifestazione, il collegamento della nostra causa a quella di allora, e a volte, purtroppo, a legittimare uno dei tanti e sempre fallimentari tentativi di ricostruire, se non quella casa, almeno una che ci somigliasse. Scrive Tommaso Di Francesco sul Manifesto:

«Acchiap­pa­nu­vole», «a cac­cia della luna», così i gior­na­li­sti main­stream hanno pre­fe­rito affron­tare in que­sti giorni l’argomento dell’eredità di Pie­tro Ingrao. Ma solo chi si espone al dub­bio cam­mina sul ter­reno delle verità. Soprat­tutto se parte da sé. Nella ten­sione ai con­te­nuti comu­ni­sti e alla demo­cra­zia, alla classe ope­raia «costi­tuente», il dub­bio di Pie­tro era la sua scrittura.

Rondolino, più renziano di Renzi, conclude invece accusando Ingrao di essere colui che aveva legittimato un modo un po’ romantico e adolescenziale di stare dentro il partito, fatto di “fuga in avanti intellettuale e sentimentale, di un estenuato ripiegamento crepuscolare”. Peccato però che oggi non ci sia altro modo, se non quello renziano, di stare dentro il partito che dovrebbe essere l’erede del PCI.

PCI che, malgrado le accuse che lo avrebbero voluto centralista e monolitico, di sicuro non avrebbe mai permesso, nemmeno al suo segretario, di paragonare Ingrao ad un gufo.

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