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Eusebio e i sogni di un tifoso

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@ncorreia

“Fece il suo ingresso sui campi correndo come può correre solo chi fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i talloni. […] Nel mondiale del 1966, le sue zampate lasciarono un mucchio di avversari a terra e i suoi gol da angolazioni impossibili suscitarono ovazioni che sembravano non finire mai”.

Eduardo Galeano, Splendori e miseria del gioco del calcio

Mi perdoneranno i tifosi della Juve se per una volta mi lascio andare a fatti calcistici legati alla mia storia personale e a quella collettiva del calcio.

Lo scorso 5 gennaio è infatti scomparso a 71 anni Eusebio Da Silva Ferreira, noto a tutti semplicemente come Eusebio. I miei natali lisboeti e la mia infantile passione per il Benfica mi obbligano a dedicare a lui il lunedì del tifoso di oggi.

Bello, malinconico, imprendibile, Eusebio nasce a Maputo (Mozambico) nel 1942 e sbarca a Lisbona nel 1960, in piena dittatura Salazar.

Eusebio. Che nome. Che carriera. Che palmares. Nei suoi 15 anni al Benfica la “Pantera Nera” (questo il suo soprannome) vince 11 campionati, 5 coppe del Portogallo e la Coppa dei Campioni nel 1962, segnando due reti nel 5-3 inflitto in finale al Real Madrid.

Il suo capolavoro calcistico lo compie ai mondiali inglesi del 1966, segnando 9 reti di cui le due che eliminano il Brasile ai gironi, quattro alla Corea del Nord ai quarti (consentendo al Portogallo di rimontare da 0-3 a 5-3) e uno nella semifinale persa con l’Inghilterra.

Stencil di Eusebio a Lisbona @Graffiti Land

Ma Eusebio non è solo calcio. È, senza mai volerlo, un’involontaria icona. Un uomo delle colonie diventato Re della madrepatria.

Mi piace pensare che se Sostiene Pereira, l’indimenticato romanzo del compianto Antonio Tabucchi, fosse ambientato in quegli anni, Eusebio vi sarebbe in qualche modo entrato.

Magari anche solo in un necrologio anticipato preparato dal giovane rivoluzionario Monteiro Rossi, collaboratore di Pereira al “Lisboa”.

Chissà cosa avrebbe scritto Francesco Monteiro Rossi su Eusebio. Chissà cosa avrebbe sostenuto Pereira su quest’uomo così denso di contraddizioni (mai realmente espresse) per una dittatura la cui spiccata retorica colonialista portava a definire il Mozambico e le altre colonie africane province del Portogallo.

Ma Eusebio è anche un precursore. Nel 1975, ormai sul viale del tramonto calcistico, si trasferisce in America, dove gioca a Boston, Toronto, Las Vegas e Monterrey. Strade globali che ripercorreranno poi in epoche recenti i vari Beckham, Del Piero, Drogba, Cannavaro.

È inoltre il primo calciatore a pubblicare un’autobiografia (Il mio nome è Eusebio), anticipando di almeno trent’anni una tendenza oggi ormai consolidata.

Insomma, nato all’estrema periferia del mondo diventerà prima un idolo di una potenza colonialista europea e poi un fenomeno globale, pur non avendo per natura l’indole da star.

Ma è riprendendo Galeano che voglio, umilmente, salutare Eusebio. Uno che, pur non avendo mai avuto idea che io esisto sulla faccia della terra, è stato in grado di regalarmi una sensazione come di sogno, come di chi lasciando una terra e trovandone un’altra diventa doppio eppure unico.

“Fu un africano del Mozambico il migliore giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste”.

Addio, pantera nera che aggrovigli i miei sogni.

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