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Dentro Jackson Pollock

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Se dico Pollock ad alcuni verranno in mente schizzi di colore in libertà. Io immagino un tormentato andare avanti e indietro, alternato a momenti di paralisi, lacrime che cadono a terra rotolando fino a formare debordanti gorghi scuri e grovigli inestricabili.

E poi ancora… puzza di alcol, urla di rabbia, estasi mistica, ritualità nevrotica e musica jazz.

Altri penseranno all’espressionismo astratto americano di fine anni ‘40 e in particolare all’Action Painting. Si tratta di quella “pittura d’azione”, tutta gestuale e astratta, realizzata da Pollock attraverso la tecnica del “dripping”: lo sgocciolamento del colore da grossi pennelli (o direttamente dal barattolo) attuato attraverso un movimento ritmico e rotatorio del braccio, mentre il corpo del pittore si muove sui quattro lati di una grande tela disposta a terra.

Facciamo per un attimo finta di essere sofferenti, ribelli, fragili, insopportabili, in cerca di guarigione e di una voce. Tutti abbiamo qualcosa di questo dentro, cioè tutti siamo un po’ Jackson. In più però lui soffriva di povertà e di alcolismo. Ma qui non parleremo della sua tormentata vita o del suo rapporto con la collezionista Peggy Guggenheim (che ne ha decretato la fortuna), bensì della sua arte: perché chiudersi in un granaio di Long Island a produrre enormi tele con questo dripping?

Dopo essersi formato sulla pittura del Rinascimento (che contiene rimandi all’alchimia mischiati alla simbologia cristiana), Pollock ripudia il realismo dei particolari per cercare una sua linea che esprima una turbinosa energia. Trae ispirazione dai corpi di Michelangelo, come da Picasso e da Mirò, e inizia a creare teste e pezzi di natura scomposti.

L’artista fa proprio il concetto surrealista dell’inconscio come forma d’arte, che correla a sua volta all’idea di inconscio collettivo e agli archetipi di Jung, che vede come delle forme primarie, dei simboli provenienti da culture diverse ma universali.

Inoltre, il pittore rimane colpito dall’arte murale latino-americana (e dagli schizzi di pittura colati sul pavimento dai muri) e dalle pitture di sabbia degli indiani Navajo. Per costoro le pitture sono un mezzo di guarigione, parte di un percorso sciamanico. La guarigione avviene quando il malato si siede sul suo disegno, distruggendolo.

Nel ‘43 Pollock espone all’Art of This Century di New York opere dai colori espressionisti, ancora figurative, di stile tardo cubista, con elementi ideografici surrealisti. Vi si scorgono dee minoiche della luna, simboli magici e sessuali influenzati dalle maschere e dai totem indiani come dai miti esoterici. Tutti questi simboli riguardano l’unione degli opposti, rappresentata dall’androgino alchemico, che per Pollock è l’artista.

Quindi si tratta di una riflessione sul potere di guarigione dell’arte stessa. Dal ’47 Pollock inizia a dipingere i grandi quadri che l’hanno reso famoso come iniziatore dell’Action Painting: del segno-gesto, della pittura come performance, aggiungerei, della pittura quasi come secrezione organica.

La svolta verso l’astrattismo avviene quando Pollock decide di compiere l’azione rituale suprema: entrare metaforicamente dentro il quadro, nella grande tela disposta a terra, rilasciando il suo dripping intorno ai quattro lati. Pratica che lo porterà a distruggere le figure, proprio come avviene nel rituale Navajo, e a rappresentare, senza ansia di traduzione, il moto dell’inconscio stesso: il gesto taumaturgico. Atto che gli sorge spontaneo ogni qualvolta una percezione sollecita la memoria di qualcosa che vive nel suo inconscio.

Pollock è morto anzitempo schiantandosi contro un albero, ma in pochi come lui ci hanno fatto entrare tanto profondamente dentro il proprio anelito alla vita.

Immagini / Jackson Pollock, Alchimia (Alchemy), 1947 – Jackson Pollock, La donna luna (The Moon Woman), 1943

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