Site icon Le Nius

Court miglior opera prima a Venezia 71

Reading Time: 2 minutes

Court è il lungometraggio d’esordio di Chaitanya Tamhane, vincitore come miglior opera prima e miglior film della sezione Orizzonti della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Ambientato nelle aule di un tribunale di Mumbai, dalle primissime battute il film sembra assumere un tono didascalico, semplicistico. All’apparente semplicità delle scene iniziali, tuttavia, si sostituisce presto una dinamica narrativa ben più articolata e profonda.

Il cantante protest folk Narayan Kamble viene arrestato con l’accusa di aver indotto al suicidio un operaio del sistema fognario, trovato morto nel quartiere dove, solo due giorni prima, si era svolto un suo concerto. Il caso viene discusso in tribunale nell’arco di numerosi mesi, sebbene l’accusa contro il cantante sia palesemente infondata. Le scene di tribunale si svolgono con noiosa e asettica tranquillità; le procedure giudiziarie non giungono ad alcun elemento di svolta nel processo.

Tamhane si serve unicamente della camera fissa che, con il passare del tempo, non segue più la trama o i suoi protagonisti, ma indugia su altri personaggi e altre udienze iniziano. Lontano dalla vicenda cardine, il regista mostra come accanto ad una storia ce ne siano mille altre, simili e al contempo differenti.

Inizialmente lo spettatore ha l’impressione che Narayan Kamble e il suo avvocato difensore siano i protagonisti del lungometraggio; ben presto, però, Court sembra dimenticarli e il focus si concentra sulla quotidianità del pubblico ministero e del giudice, al di fuori del loro lavoro in tribunale. Vengono ritratti nell’intimità domestica insieme alle loro famiglie, nelle azioni quotidiane, nella ripetitività dei gesti.

Senza drammi o colpi di scena Tamhane confeziona un film dall’alto valore politico che scardina le convenzioni di un genere cinematografico ormai codificato, il courtroom drama, e si presenta come una forte accusa, velatamente esposta, delle assurdità e delle incongruenze del sistema giuridico indiano.

Come in una perfetta fotografia, l’obiettivo non è posto sulla psicologia del personaggio, ma sullo studio d’ambiente. Con piglio quasi documentaristico, ognuno è ritratto nei suoi luoghi, al di fuori dell’aula di tribunale e con vesti non ufficiali, nei panni di uomo o di donna comune, di un qualunque essere umano.

Nelle scene – piani di ampio respiro, in cui molteplici punti di fuga e nuclei d’azione trovano spazio all’interno della stessa inquadratura – un personaggio si uniforma all’altro, ne diviene una ‘copia conforme’, ridicola e inerme di fronte all’incomprensibilità di un surreale sistema giudiziario e sociale.

CONDIVIDI
Exit mobile version