Numeri e profili del volontariato in Italia e in Europa9 min read
Reading Time: 7 minutesVolontari e volontarie sono una risorsa chiave nella società contemporanea. Sono la prima risposta in caso di disastri ed emergenze ed hanno un ruolo fondamentale per la vita e il sostentamento di attività centrali per le comunità, tra cui educazione, sanità e cura, protezione dell’ambiente. Ma chi sono? Quanti sono? Che attività svolgono? Lo approfondiamo in questo articolo dedicato al volontariato in Italia e in Europa.
Per definizione è volontario/a chiunque svolga a titolo gratuito e spontaneamente attività a favore dell’interesse pubblico e in particolare delle categorie più fragili e svantaggiate.
Le attività di volontariato possono essere locali, regionali, nazionali o internazionali; svolte sul posto o online; erogate in modo formale, cioè attraverso gli enti del terzo settore (o altre strutture organizzate) o informale, direttamente nella propria comunità, ad amici, familiari o conoscenti.
Le istituzioni nazionali e internazionali hanno recentemente iniziato a misurare la portata del volontariato in Italia e in Europa, cercando di determinare qualità e quantità del contributo dell’attività volontaria alla vita sociale. Si tratta di rendere giustizia a una forza sociale essenziale, ma anche di quantificare quanto gli Stati possano contare su di essa.
In questo articolo abbiamo cercato di raccogliere i dati ad oggi disponibili su questo tema e di restituire una fotografia del ricco e variegato panorama del volontariato in Italia e in Europa. Chi e quanti sono volontari e volontarie? Che cosa li e le spinge all’azione e quale tipo di impatto hanno sulle comunità?
I numeri del volontariato in Italia e in Europa
Volontariato in Europa: dati a confronto
In Europa, così come in Italia, il settore non profit è una forza economica in crescita. Secondo i dati riportati da Salamon e Sokolowski nella loro ricerca sul terzo settore europeo, sono 29,1 milioni le persone che operano nel settore, il 55% a titolo gratuito: oltre 16 milioni di volontari in tutta Europa (considerando oltre ai Paesi UE anche Gran Bretagna e Norvegia) che, senza una ricompensa in denaro, portano avanti attività di sostegno a favore della comunità.
Di questi, 7 milioni danno il proprio contributo attraverso le attività organizzate da enti del terzo settore, mentre i restanti 9 milioni sostengono comunità, amici o familiari in modo diretto e informale.
Gli stessi dati raccontano innanzitutto quanto l’attività di volontariato sia presente e diffusa, sebbene con delle differenze, su tutto il territorio europeo.
In generale, dice Eurostat con dati che risalgono ormai al 2015, si fa più volontariato nel Nord Europa che nel Sud e nell’Est. In testa alla classifica ci sono infatti Paesi Bassi, Norvegia, Finlandia e Svezia. Agli ultimi posti, invece, troviamo Malta e Cipro e poco più su, i paesi dell’Est Europa (Romania, Bulgaria e Ungheria).
I paesi mostrano differenze sia nella quantità di volontari sia nella proporzione tra il volontariato organizzato e quello informale e non organizzato, sebbene quasi ovunque vi sia una prevalenza di quest’ultimo (pari quasi al doppio di quello formale).
Così nei Paesi Bassi, per esempio, l’82,5% dei cittadini è coinvolto in attività di volontariato informale e il 40,3% formale, in Finlandia abbiamo il 74,2% contro il 34,1%; in Svezia il 70,4% contro il 35,5%. Nei tre paesi in cui si svolge meno volontariato il risultato è l’opposto: a Cipro il 2,6% fa volontariato informale e il 7,2% formale, a Malta lo 0,9% di informale e 8,8% di formale. In Romania, invece, le due tipologie si equivalgono, attestandosi al 3,2%.
La differenza tra le queste due tipologie di volontariato non riguarda solo l’attività svolta, ma anche gli obiettivi che si raggiungono. Il volontariato formale, infatti, facilita le connessioni e le partnership, apre la comunità a stakeholder esterni e facilita i gruppi più marginalizzati. Quello informale, invece, è più efficace nell’aiutare le comunità ad auto-organizzarsi e ad essere più coese, soprattutto di fronte alle difficoltà.
Perché queste differenze tra paesi?
Sociologi e scienziati politici hanno cercato di capire perché in alcuni paesi la propensione al volontariato sia più alta che in altri.
Un’ipotesi è che la propensione al volontariato sia collegata ai valori e alle norme di comportamento tradizionalmente presenti nelle comunità e principalmente legate a convinzioni religiose. I dettami morali hanno infatti un impatto sia sull’attività di volontariato che su come esso viene percepito all’interno della società. Questa ipotesi però non giustifica differenze tanto nette tra le nazioni europee. Italia, Polonia e Irlanda, per esempio, hanno una comune tradizione religiosa, quella cattolica, ma mostrano grandi differenze sia nei numeri che nella tipologia di volontariato.
Una seconda ipotesi, ispirata dal sociologo danese Gosta Esping Andersen, ha messo al centro i diversi tipi di economia e forma statale, proponendo che, quando mercato e governo non riescono a sviluppare un welfare sufficiente, il terzo settore sia più attivo per compensazione. Una teoria valida anche a buon senso, ma che non spiega quel che succede, per esempio, nei paesi scandinavi. Qui, nonostante solidi sistemi di welfare, terzo settore e volontariato sono infatti molto sviluppati.
Una terza ipotesi, formulata recentemente da Lester Salamon, professore alla John Hopkins University e direttore del Center for Civil Society Studies, ha invece proposto un’origine sociale del terzo settore, che sarebbe configurato in base alle relazioni di potere tra gruppi sociali e istituzioni nel periodo dell’industrializzazione e modernizzazione.
Per esempio, nel modello liberale di sviluppo britannico, i grandi proprietari industriali hanno imposto politiche governative favorevoli ai propri interessi, limitando il coinvolgimento dello Stato e relegando all’iniziativa privata la soluzione di molti problemi di welfare. In Germania invece la classe operaia è riuscita a bilanciare i propri interessi con quelli dell’industria e della grande proprietà e lo Stato ha erogato servizi di protezione sociale attraverso le associazioni religiose e del volontariato organizzato. In Scandinavia, infine, la forza della classe operaia e dei piccoli proprietari terrieri ha permesso la nascita di un welfare statale forte e bene organizzato che copriva i bisogni primari, permettendo alla popolazione di dedicarsi al volontariato in settori come la cultura, lo sport ed altre attività ricreative.
Nei paesi europei arrivati in ritardo alla modernizzazione, infine, alcuni gruppi di potere (leader militari, dirigenti o nuovi professionisti urbani) hanno spinto per programmi di rapida industrializzazione riducendo le libertà personali (tra cui anche quella di associazione). Questo modello ha relegato il volontariato alla sfera privata ed informale. Un tale processo ha interessato anche l’Italia, che però si è equilibrato con la veloce democratizzazione e l’entrata nella Comunità Europea subito dopo la guerra.
Chi fa volontariato: età, genere ed istruzione
Il volontariato è un comportamento sociale influenzato dall’area geografica in cui si sviluppa, dal genere, l’età e da molti altri fattori sociali, economici e politici che determinano la possibilità per le persone di portare avanti una tale attività gratuita e dedicata agli altri.
Lo studio Eurostat ha messo in rilievo come la propensione a fare volontariato sia strettamente legata al livello di istruzione: più è alto e più forte è la tendenza a svolgere attività di volontariato formale. Per esempio, tra i cittadini con istruzione secondaria o universitaria il 28,4% fa volontariato, mentre solo l’11,5% tra chi ha un’istruzione primaria.
Anche l’età determina la quantità di volontariato svolto: nella fascia dai 65 ai 74 anni, ci sono molte più persone che svolgono attività di volontariato sia formale (21,3%) che informale (23,9%). A seguire, tra i più giovani, dai 16 ai 24 anni, si impegnano rispettivamente il 20,6% in volontariato formale e per il 22,5% in volontariato informale, mentre nella fascia di età adulta tra i 25 e i 64 anni, il 19,5% è impegnato nel formale e il 23,3% nell’informale.
A fare volontariato sono soprattutto le donne (55,4%) impegnate maggiormente in attività di volontariato informale (spesso con la famiglia), mentre gli uomini (44,6%) sono più attivi nel volontariato formale e organizzato.
Il volontariato in Italia, qualche numero
Gli ultimi dati ISTAT disponibili sono relativi al 2014, quindi a molto tempo fa, e riportano 7 milioni di persone che in Italia prestano il proprio servizio a favore degli altri. Una cifra importante, ma che in realtà rileva come il nostro paese abbia ancora molta strada da fare: in Europa l’Italia si posiziona soltanto al 22esimo posto per quantità di lavoro volontario svolto.
Dall’osservatorio permanente sul settore no profit, che ha iniziato da pochi anni un’attività di censimento del settore sappiamo che sono circa 5,5 milioni le persone che partecipano in maniera formale alle attività di volontariato.
La maggior parte di volontari e volontarie, circa il 56%, è occupata nel settore della cultura, dello sport e delle attività ricreative e di socializzazione, il 16% nell’ambito dell’assistenza sociale e della protezione civile mentre il 7,8% in servizi legati alla sanità (ospedalieri e non, riabilitativi e psichiatrici). Seguono volontari e volontarie impegnati/e nella protezione dell’ambiente e degli animali (3,25%), nell’ambito religioso (3,08%), nell’istruzione e nelle rappresentanze sindacali (2,9% e 3%).
Nelle regioni del Sud associazionismo e volontariato sono meno presenti, nonostante i bisogni siano più diffusi. Anche se le istituzioni non profit sono in aumento proprio nel Sud d’Italia (+4%) e nelle isole (+4,5%) la maggior parte dell’attività non profit e di volontariato rimangono concentrate al Nord.
In Lombardia, che è anche la regione più popolosa d’Italia, sono attivi più di 1 milione di volontari. Seguono Lazio (486 mila) e Toscana (470 mila). Tra le regioni del Sud, invece, quelle con numero più alto di volontari ci sono la Campania (239 mila) e la Puglia (219 mila). In generale al Nord svolge attività di volontariato il 12,2% della popolazione, mentre la media del Sud si attesta al 6,3%. In Sicilia troviamo uno dei numeri più bassi con il 4,2% della popolazione che partecipa ad attività di volontariato organizzato.
Tra i più attivi (1 su 10) ci sono sia i giovani tra i 18 e i 24 anni che gli adulti tra i 45 e i 74. Le differenze si amplificano invece a seconda del livello di istruzione. Anche nel nostro paese, come in Europa, sono maggiormente coinvolti nelle attività di volontariato i laureati (15,5%) rispetto a chi possiede soltanto una licenza media (6,2%).
Il volontariato come strumento di integrazione
Secondo le Nazioni Unite il principale beneficio che porta il volontariato, al di là delle attività svolte, è quello di contribuire alla resilienza delle comunità. In tempi difficili, esso unisce le persone, rafforza le relazioni e permette di ampliare il network di attori che intervengono per il benessere della comunità.
Unica pecca del volontariato locale, in questo contesto, è quella di dare preferenza, nei momenti in cui le risorse sono scarse, alla propria cerchia e a soddisfare i bisogni più immediati. Tale comportamento rischia di allontanare le comunità da soluzioni più strategiche e a lungo termine.
I volontari e le volontarie beneficiano anche a livello individuale della loro attività. Fare volontariato permette alle persone di fare nuove amicizie e di sfuggire ad alienazione e isolamento. Obbliga all’interazione con gli altri e aumenta il sentimento di appartenenza, fondamentale per comunità resilienti.
Le relazioni che nascono durante l’attività di volontariato, inoltre, ampliano il network sociale di riferimento dei singoli, che possono così aumentare l’accesso a risorse o conoscenze solitamente non raggiungibili. Spesso il contatto con altri/e volontari e volontarie espande gli orizzonti e può fornire le connessioni necessarie, per esempio, a trovare un impiego lavorativo.