Vi racconto Bruxelles: ferita, divisa e indifferente9 min read

6 Aprile 2016 Politica -

Vi racconto Bruxelles: ferita, divisa e indifferente9 min read

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Potrei essere una delle vittime delle bombe del 22 marzo a Bruxelles.

Ogni settimana prendo un aereo da Zaventem, uno dei più importanti scali europei, e ogni mattina passo con la metro a Maelbeek, scendendo a quella stessa fermata o a quella successiva, Schumann, per andare in ufficio. Il caso ha voluto che non fossi in nessuno dei due posti quella mattina, poiché mi trovavo in ferie. Ma decine di altre persone a me identiche per abitudini, quella mattina sono state uccise. La prima reazione è stata dolore e smarrimento. Poi rabbia. Certo contro i vigliacchi assassini, ma anche contro qualcos’altro. Provo a spiegare di seguito quello che intendo, con un racconto personale che non pretende di essere esaustivo.

Il Belgio ti dà l’impressione di essere uno Stato che vorrebbe essere un’isoletta benestante in mezzo all’oceano, a farsi i fatti suoi con le sue simpatiche assurdità. Invece sta in mezzo all’Europa, ma non lo sa. Bruxelles, dal canto suo, è una capitale a sua insaputa, perché non sa che esiste uno Stato, il quale a sua volta non sa di esistere, di cui è la Capitale. Sempre a sua insaputa, è diventata la capitale dell’Europa. Pertanto, Bruxelles è una città che non si è accorta di sé stessa. In questo è adorabile, però anche molto belga. Hai la sensazione che i Belgi non abbiano idea di cosa sia questo luogo, della sua ricchezza e delle sue problematicità; coloro che qui sono arrivati da altrove, invece, sembrano verso questa città i più amorevoli ma anche i più critici, che poi sono due facce della stessa medaglia.

Bruxelles è per molti aspetti un luogo meraviglioso in cui vivere. È cosmopolita, vivibile, facile, trasognata, cialtrona, con la testa fra le nuvole. Non ci si sente ospiti, ma immediatamente padroni di casa in una casa condivisa. Questa è una ricchezza immensa, e forse poteva accadere solo qui. Proprio perché non sembra essere di nessuno – a differenza di Parigi che è dei francesi, o Londra che è degli inglesi – Bruxelles ha finito per essere di tutti. Che una città con queste caratteristiche sia la capitale dell’Europa, che almeno nelle intenzioni è un progetto inclusivo e di unità nelle diversità, è davvero simbolicamente e materialmente bellissimo.

Ma non è tutto oro quello che luccica. Bruxelles è infatti anche una città divisa, come il Belgio, e anche di più. C’è la Bruxelles fiamminga che ignora la Bruxelles francofona, ricambiata. Entrambe le anime belga della città ignorano poi la grande comunità internazionale che vive nelle e delle istituzioni UE. Accanto a ciò, sempre sigillata, esiste la Bruxelles degli immigrati “umili” di alcuni quartieri, dalla parte congolese alle zone nordafricane di Molenbeek e Anderlecht.

Vi racconto Bruxelles: ferita, divisa e indifferente
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Con riferimento agli attacchi di Parigi, anch’essi nati a Bruxelles, e a quelli del 22 marzo nella capitale belga, credo che i temi da isolare siano quantomeno due: da un lato gli aspetti relativi alle ragioni di questi eventi, dall’altro quelli relativi alla prevenzione, in senso di controllo, degli stessi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, non vi è dubbio che le cause profonde degli attacchi terroristici siano da ricercarsi nel pasticcio geopolitico mediorientale, dalla situazione sempre peggiore della Palestina, al disastro siriano, iracheno, libico. Come è noto, ma andrebbe sottolineato molto di più, la responsabilità della destabilizzazione di quelle aree ricade in grande parte sull’occidente. Allo stesso tempo, bisognerebbe indagare con più coraggio le connivenze di Stati finanziatori del terrorismo di Isis, quali il Qatar, e dei legami sporchi di sangue con i Paesi europei, Francia in primis. Tutto ciò premesso, però, come è possibile che la radicalizzazione di cittadini europei di origine araba o nordafricana trovi nel Belgio, e addirittura a Bruxelles, la capitale cosmopolita d’Europa, la propria culla? Sembra assurdo.

La comunità nordafricana a Bruxelles è enorme (in particolare quella di origine marocchina) rappresentando quasi il 50% della popolazione. Non vi è dubbio che in questi ampi numeri di immigrazione vi siano fasce di emarginazione sociale. Il Belgio, però, non ha un passato tale da giustificare sentimenti di rivalsa o vendetta degli immigrati provenienti da quelle zone. A questo si aggiunga che gli immigrati provenienti dall’Africa francofona, a Bruxelles non hanno nemmeno una barriera linguistica da superare, perché già parlano francese.

Bisogna allora chiedersi se e perché per certe frange di popolazione l’integrazione sia così difficile, e se sia questa una delle ragioni della radicalizzazione. La risposta non è scontata. L’esistenza stessa di questi grandi numeri di popolazioni immigrate sembrerebbe testimoniare il fatto che, in fondo, il Belgio è una terra di apertura e accoglienza. In parte è senz’altro così. A differenza di alcuni Paesi limitrofi l’immigrazione in Belgio esiste da sempre, e ha sempre trovato terreno fertile. Vivendo qui è difficile immaginare che le comunità nordafricane di Bruxelles siano considerabili come emarginate, o intenzionalmente ghettizzate. Non sembrano versare in una situazione in cui lo Stato le avversa. Piuttosto, di uno Stato che le abbandona. Tuttavia, le stesse famiglie degli attentatori erano spesso ben posizionate socialmente, senza problemi di povertà. Certo, l’assenza di miseria non significa di per sé presenza di integrazione, ma è già qualcosa. In sintesi, diciamo che non sembra potersi riscontrare a Bruxelles un livello di esclusione sociale e di malversazioni nei confronti della comunità islamica tali da lasciare immaginare un movimento di reazione. Si tratta molto più probabilmente di radicalizzazione di giovani sbandati, reclutati da un movimento a metà fra il fascismo e il fascino dei gangster, quale il Califfato, che promettendo facili guadagni convince menti deboli al mito della violenza e della lotta contro presunti oppressori.

Per altri versi, tuttavia, il Belgio è anche un Paese razzista, forse non nel senso brutalmente xenofobo, ma in un senso borghese di mal sopportazione, che si traduce nella politica dell’indifferenza. Si pensi che il partito di destra anti-immigrazione – in un Paese che ha sempre campato solo e grazie alle brutalità coloniali, all’immigrazione italiana nelle miniere della Vallonia, agli immigrati Greci, Portoghesi, nordafricani, e oggi europei che lavorano per l’UE e portano milioni di Euro nelle casse dello Stato – è arrivato al 30% nelle ultime elezioni. Ancora una volta, surreale. Non si rendono conto.

In generale, sembra potersi affermare che il Belgio non si rende conto. Che il mondo sia cambiato, che le società, quella belga compresa, anzi quella belga soprattutto, siano ormai multietniche, sembra essere un tema non rilevante. Nell’ideale borghese belga del paese isoletta felice, che attrae forza lavoro anche straniera, ma che non si cura delle problematiche e dei bisogni che l’immigrazione porta con sé, c’è molto di quell’aria distratta che si respira da queste parti. Sembra non ne siano toccati. Questo atteggiamento spesso nasconde invece molta chiusura sociale. Venite qui, lavorate, ma non rompete le scatole. Può anche funzionare, per certi versi. Ma non è integrazione, è giustapposizione di differenze. Peraltro senza controllo. Sul lungo periodo, la distrazione consente la creazione di sacche di emarginazione che, se accompagnate da non comprensione dei fenomeni e sufficienza, possono trasformarsi in situazioni capaci di sfuggire di mano. Come ad esempio Molenbeek. Questo ci porta al secondo problema.

L’atteggiamento di generale indifferenza e noncuranza si ripercuote in maniera drammatica anche dentro l’amministrazione dello Stato. Le azioni di intelligence, inesistenti, sono l’esempio più chiaro della dabbenaggine delle istituzioni. Si badi bene, il problema sarebbe uguale anche se stessimo parlando di altre forme di criminalità organizzata, invece che di terrorismo. Il concetto non cambia. C’è inadeguatezza, incapacità, quasi una sorta di indolenza. La sensazione, al netto delle difficoltà di integrazione, che tuttavia non sono più elevate che in altri Paesi limitrofi, è che qui puoi venire e fare quello che ti pare. Che tu sia mafioso o terrorista.

Vi racconto Bruxelles: ferita, divisa e indifferente

In questo senso, è opinione molto condivisa nella comunità expat brussellese, e ormai anche sulla stampa internazionale, che il Belgio sia uno stato fallito. Fallito poiché inadeguato a sé stesso, all’Europa, al mondo. Uno stato federale minuscolo, ricco, vetero-borghese, fermo nel tempo, con un sistema amministrativo gargantuesco, frammentato all’inverosimile. Bruxelles da sola conta 19 comuni con 19 sindaci. Una frammentazione dei poteri che ovviamente non produce altro che corruzione, nepotismo, baronie, inefficienza, immobilismo, incapacità. Uno Stato la cui parola d’ordine è la noncuranza, in un’accezione borghese di inizio novecento. Finché si tratta di aria naif, è anche una cosa simpatica, ma quando si traduce in incapacità e dabbenaggine in qualunque cosa, non va più bene. Però, sembra non interessi a nessuno. Non sembra esistere una coscienza critica sulla realtà, sulle mancanze di questo Paese, dall’interno, né una visione sul suo futuro. Ciò che accade nel mondo, a pochi chilometri dalla porta di casa, sembra distante e ininfluente. Gli eventi negativi, le falle, sono eventi che piovono dal cielo, senza delle cause e delle responsabilità.

Qui non hai la sensazione esistano né particolari politiche di integrazione, né controlli e regole, bensì un mero e distratto laissè paissè.

Come si pretende che un Paese di questo genere riesca a rendersi conto dei problemi che possono nascere al suo interno, in alcune fasce della popolazione? Come è possibile che il terrorista più ricercato d’Europa viva a casa sua per 4 mesi, indisturbato? Come è possibile che esista una norma che impedisce i controlli di polizia fra le 23.00 e le 05.00 e che dopo i fatti recenti nessuno proponga di modificarla? Quando mai si è visto in Europa nel dopoguerra un coprifuoco di 10 giorni come a Bruxelles il novembre scorso, che non ha portato a nessuno arresto? Come è pensabile che in una città con l’allerta al livello tre su quattro esplodano bombe all’aeroporto e in metropolitana? Come diavolo è possibile che a una manifestazione la polizia belga arresti i pacifisti pro-integrazione (si badi bene, per lo più spagnoli ed europei; i belgi, come sempre, non pervenuti) che cercavano di contrastare un gruppetto di pestilenziali ultràs di estrema destra?

Di fronte alla tragedia del 22 marzo, la reazione dell’opinione pubblica belga è, nella maggior parte, imbarazzante o, così sembra. È stato vissuto come qualcosa che doveva accadere. Non come il risultato lampante di errate politiche di integrazione, mancanze di controlli, inefficienze ad ogni livello, bensì come una calamità naturale, come un terremoto. Senza colpe né alla radice delle problematiche, né in tema di controlli e polizia. Pray for Brussels. Eh no, io non prego per Brussels, perché la amo. L’amore esige rispetto, e il rispetto esige azione, non dabbenaggine e ridicola inadeguatezza. Siccome però questo sembra impossibile, la sensazione chiara e terribile è che il 22 marzo succederà di nuovo.

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Milano, Dublino, Londra e Bruxelles. Specializzato in diritto bancario, dei mercati finanziari e dell'Unione europea, collaboro con le facoltà di Economia e Diritto di alcune università europee.
2 Commenti
  1. MDG

    Condivido al 30%, troppo facile essere esigenti in un paese che ti dà tanto e che comunque funziona. Preferisco coloro che sono positivamente critici nei confronti della madre patria .

  2. Paolo

    "La comunità nordafricana a Bruxelles è enorme (in particolare quella di origine marocchina) rappresentando quasi il 50% della popolazione." Questa é una grossa bufala. Basta controllare i dati ufficiali (e usare un po' di buon senso...) http://www.statistics.irisnet.be/files/publications/minibru/mini_bru_2015_en.pdf

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