Una finestra sulla Palestina. Parole chiave6 min read

19 Giugno 2014 Mondo Politica -

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Una finestra sulla Palestina. Parole chiave6 min read

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(Una finestra sulla Palestina è la testimonianza diretta di Anna, ricercatrice che risiede nei Territori Occupati e da quelle terre cercherà di inviarci notizie non filtrate su quello che realmente accade.)

Anna, hanno rapito 3 ragazzi israeliani!

Mi trovo nella West Bank, dall’altra parte del Muro che separa la Palestina da Israele. È il Muro di separazione o Muro d’Apartheid come viene comunemente chiamato qui, nei Territori Occupati Palestinesi. Costruito nel 2002, dallo stato israeliano.

Gerusalemme è a solo mezz’ora da dove abito, ma è più facile che riesca ad andare in Europa

Una finestra sulla Palestina

È venerdì, giorno di festa per i musulmani, ovvero giorno di riposo. Ma questo venerdì si va al Mar Morto e sono stata invitata. Io, alcuni volontari europei e un gruppo di ragazzi (rifugiati palestinesi) del campo profughi di New Askar, vicino Nablus. New Askar è uno dei 19 campi profughi palestinesi della West Bank (o Cisgiordania).

Ti rendi conto? Io sono un palestinese e sono un rifugiato nel mio stesso paese!

Quel paese è la Palestina e la parte che oggi viene dal mondo chiamata Israele, per i palestinesi, sono invece i territori del 1948. Data in cui ha luogo la Nakba (parola araba che significa catastrofe), ovvero l’esodo forzato di circa 700.000 residenti palestinesi, e l’inizio della sovranità israeliana.

Sono di Haifa. Adesso però vivo nel campo di New Askar. Ma io sono di Haifa

I rifugiati palestinesi sono quei palestinesi che sono stati dislocati dalle terre in cui vivevano originariamente in seguito alla Nakba, perdendo le loro case, le loro proprietà, i loro lavori. Sono stati accolti in campi gestiti dalle Nazioni Unite, nella West Bank, a Gaza e in vari stati arabi. In totale si contano più di 750.000 rifugiati palestinesi.

I campi profughi palestinesi sono stati costruiti su terre che l’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di fornire assistenza ai rifugiati palestinesi) ha preso in affitto dal governo della Giordania. Sovraffollamento, disoccupazione, sistema fognario talvolta assente, reti idriche non adeguate, sono solo alcuni dei problemi di questi campi.

Una finestra sulla Palestina. Parole chiave

Cui si aggiunge la particolarità di New Askar. New Askar non nasce come campo UNRWA ma come estensione, a causa del sovraffollamento, del campo profughi di Askar. La problematica maggiore è che l’area sulla quale si è esteso il campo, ricade sotto completo controllo israeliano, ovvero area C. L’UNRWA non è quindi autorizzata, come da legislazione, alla costruzione di proprie strutture (scuole, ospedali, ad esempio) in quell’area, aggravando ancor di più le condizioni di vita dei rifugiati che vivono nel campo di New Askar.

La restante parte dei campi, così come le altre città palestinesi, si collocano in area A, area sotto l’Autorità Palestinese. L’area B è invece sotto controllo congiunto dell’autorità israeliana e palestinese. È in seguito agli accordi di Oslo II, nel 1995, che la West Bank viene infatti divisa in tre zone.

Cosa vogliono i rifugiati palestinesi? Ritornare alle proprie terre, alle proprie case. Avvalersi del loro Diritto al Ritorno (il simbolo è la chiave), sancito dalle Nazioni Unite. Diritto però non riconosciuto da Israele.

Inizia il viaggio verso il Mar Morto, su un pulmino noleggiato qualche giorno prima. Sembra una normale gita fatta di racconti, musica e gelato. Fino a quando l’autista rallenta, ferma il pulmino e uno dei soldati israeliani sale a bordo. Prima fermata: primo checkpoint volante. Osserva tutti, chiede il passaporto all’autista, fa qualche domanda, scende. Più in là altre auto ferme, in attesa che il soldato le lasci passare. Anche noi rimaniamo fermi per un po’. Poi l’autista viene invitato a scendere. Viene perquisito. Risale. Aspettiamo. Poi l’ok. Bene, non siamo stati rispediti indietro. Sì, puo’ succedere.

Sai, mi sono alzato presto quel giorno, volevo andare a vedere il mare. Ma al checkpoint non mi hanno fatto proseguire, mi hanno detto di tornarmene a casa. Non ho insistito, è pericoloso. Loro aspettano una reazione

I checkpoint israeliani nella West Bank sono posti di blocco militari. Se ne contano circa 630. Ci sono checkpoint fissi (ciascuno con un proprio nome) e quelli volanti (di cui non è possibile prevedere la presenza in anticipo). Ma in Palestina sono anche uno dei mezzi che Israele usa per ostacolare il libero movimento dei palestinesi nel loro stesso territorio. Che sia per studio, per lavoro, per essere presente al proprio appuntamento al consolato, per raggiungere l’ospedale, per incontrare un amico, per vedere il mare.

Una finestra sulla Palestina

Sospiro di sollievo e via. Proseguiamo. Alt! Seconda fermata: secondo checkpoint volante. Stavolta vogliono i passaporti, ma solo quelli dei palestinesi. In segno di solidarietà, tiriamo fuori anche i nostri. Non li vogliono. Rimaniamo fermi per un bel po’. Uno dei ragazzi palestinesi che è con noi inizia ad ironizzare:

Però, questo soldato israeliano lo parla bene l’arabo! Speriamo che non arrestano l’autista altrimenti come facciamo…

Mentre inevitabilmente mi scappa un sorriso, non posso fare a meno di pormi delle domande su questa ironia.

Ciascuno di loro ha una storia alle spalle fatta di sofferenze: arresti ingiustificati (detenzione amministrativa), uccisioni o arresti di persone care, l’aver vissuto la seconda intifada (parola araba che significa rivolta; la prima 1987-1993, la seconda 2000-2005).

Finito il controllo passaporti, inizia quello del pulmino. Freni, gomme, luci, ecc. Qualcosa non deve aver risposto ai loro canoni, ma dopo una multa decidono comunque di farci passare.

Finalmente arriviamo.

Se voi stranieri non foste stati con noi, oggi non saremmo giunti fin qui. Anche solo la vostra presenza, anche per il solo fatto di essere qui con noi. Questo ci rende più forti

I soldati israeliani al checkpoint non riservano a tutti lo stesso trattamento. In presenza di foreigners ci tengono a fare bella figura: passaporto e visto in regola, e nella quasi totalità dei casi si passa senza problemi, noi e i palestinesi che sono con noi.

Alt! I palestinesi possono entrare, ma devono consegnare i loro passaporti all’ingresso e ritirarli prima di andar via.

Ho dovuto lasciare il passaporto perché sono palestinese, qui è normale

Mentre tutti, finalmente, si divertono in acqua, io rimango da sola a guardare. Ci sono palestinesi, ci sono israeliani, ci sono turisti. Ci sono musulmani, ci sono ebrei, ci sono cristiani. C’è chi fa il bagno in bikini, c’è chi lo fa con l’hijab e i vestiti. Che rarità! Come a Gerusalemme. Però qui avverto tensione.

L’ultima volta che siamo venuti qui non abbiamo considerato che era un giorno di festa per gli ebrei ed eravamo gli unici palestinesi in mezzo a tanti israeliani. Non parlavamo per non far loro capire che eravamo palestinesi

In particolare, i palestinesi temono i settlers, ovvero i coloni israeliani. Nel 1993 Israele comincia a riempire la West Bank d’insediamenti: colonie. Nascono in prossimità dei campi profughi, delle città palestinesi, dei villaggi beduini. Lo scopo è colonizzare la West Bank, proseguendo la politica di occupazione. I coloni sono quindi israeliani che accettano di occupare la West Bank. Illegalmente, si tratta infatti di una violazione del diritto internazionale.

È l’ora del ritorno. Vengo fermata da un ragazzo israeliano:

Mi è sembrato di sentirti parlare in arabo. Parli l’arabo?

Ci sono le spie. Israeliane e palestinesi. Lavorano per Israele, spesso in cambio di denaro o favori. Bisogna mantenere un basso profilo. Non si può dire a chiunque che si è un volontario, uno studente, un turista se lo si sta facendo in Palestina. Israele non gradisce.

Ci fermiamo in un parco, a Jericho.

Anna, hanno rapito tre ragazzi israeliani! Israeliani! Adesso Israele sarà molto arrabbiata

Vedere quello che sta succedendo in questo momento per capire. #Ticket to Palestine

Una finestra sulla Palestina

Immagini| WashingtonPost| AlJaazera

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Ricercatrice presso l'Istituto di Studi Internazionali dell’Università Birzeit, in Palestina. Convinta sostenitrice del potenziale rivestito dalle politiche EuroMed; ha un marcato senso di appartenenza alla Regione Mediterranea.
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