Transizione giusta in Italia: a che punto siamo7 min read
Reading Time: 6 minutesIn Italia la transizione giusta, il processo per decarbonizzare l’economia in modo equo e inclusivo per tutte le parti interessate, è un obiettivo ancora marginale. Manca un approccio di sistema, sia in termini di pianificazione delle misure, sia a livello culturale.
Vi ricordate le proteste dei trattori?
Da dicembre 2023 gli agricoltori di tutta Europa sono scesi in piazza contro le politiche ambientali dell’Unione Europea, accusate di affossare un settore già in forte difficoltà, tra le oscillazioni di prezzo delle materie prime e i crescenti impatti del cambiamento climatico. Secondo buona parte del settore, Bruxelles starebbe attuando il Green Deal, l’ambizioso pacchetto di politiche adottato nel 2020 per portare l’UE alla neutralità climatica entro il 2050, senza preoccuparsi a sufficienza dei suoi impatti sociali ed economici. Il costo della transizione ecologica starebbe ricadendo sulle spalle delle persone più vulnerabili. Analizzare in modo puntuale le ragioni e le richieste degli agricoltori ci porterebbe lontano, ma un dato è certo: alle loro proteste va riconosciuto il merito di aver portato la dimensione sociale al centro del dibattito sulla transizione.
La questione della giustizia sociale e della transizione giusta è tornata prepotentemente di attualità. Anche in Italia. Un passo importante, se consideriamo che l’Italia è un Paese ad alta intensità di carbonio – per ogni unità di energia consumata produciamo molta CO2 – e che i cosiddetti settori hard to abate come l’acciaio, la chimica, la ceramica, la carta, il vetro, il cemento e le fonderie garantiscono ad oggi oltre 700.000 posti di lavoro. Senza considerare il settore automobilistico, che conta circa 250.000 lavoratori, di cui 168.000 impegnati in linee di produzione che stanno affrontando importanti cambiamenti, tra cui il passaggio dai motori endotermici a motori a basse emissioni di carbonio, elettrici e ibridi.
Che cosa sta facendo l’Italia per tutelare non solo agricoltori e operai, ma anche le comunità e i territori più esposti agli impatti negativi della transizione?
Nel piano per la transizione energetica si parla poco di giustizia sociale
Il Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) è lo strumento con cui il nostro Paese attua gli impegni per la riduzione delle emissioni sottoscritti nell’Accordo di Parigi del 2015. Il PNIEC traccia la strada che l’Italia intende seguire nella transizione e rappresenta quindi un’opportunità per coniugare gli impegni sul clima con gli obiettivi della sostenibilità sociale. La versione definitiva del Piano è stata inviata a Bruxelles il 1° luglio 2024, dopo essere stata integrata e ampliata alla luce della valutazione data dalla Commissione europea a dicembre 2023. Anche nella versione aggiornata, però, la transizione giusta, seppur menzionata, non rientra in modo specifico tra gli obiettivi del Piano. Manca una strategia complessiva per garantire la sostenibilità sociale di fronte ai grandi cambiamenti tecnologici e di mercato che investiranno le persone e le imprese. Come ha evidenziato il think tank indipendente ECCO, il Piano dovrebbe invece assicurare che le politiche e le misure per il clima siano in grado di indirizzare le risorse sulla base di criteri di sostenibilità sociale, tenendo conto di indicatori come il costo sociale del carbonio o di benefici più ampi dell’investimento pubblico. Approcci come lo SROI, acronimo di Social Return On Investment, provano per esempio a misurare il valore creato da aziende e organizzazioni non solo in termini finanziari, ma anche di riduzione delle diseguaglianze e della degradazione ambientale, integrando nell’analisi i costi e i benefici sociali, economici e ambientali. Infine, come denunciano i sindacati, nel PNIEC manca qualsiasi tentativo di costruire una seria politica industriale per la transizione, con l’obiettivo di accompagnare le imprese nel processo di decarbonizzazione e rilanciare la competitività del sistema Paese.
I piani di transizione giusta per Taranto e il Sulcis sono in stallo
Oltre ai Piani Nazionali Energia e Clima, l’Unione Europea prevede un altro strumento per accompagnare i Paesi membri nella transizione: il Just Transition Fund, un fondo appositamente creato per sostenere la trasformazione dell’economia nelle aree più colpite dalla transizione, con un budget di 17,5 miliardi di euro da spendere tra il 2021 e il 2027. Con il cofinanziamento nazionale, all’Italia sono riservati 1,211 miliardi di euro, che il governo ha destinato alle aree della Provincia di Taranto e del Sulcis Iglesiente.
La provincia pugliese si trova ad affrontare il difficile processo di riconversione dell’ex Ilva, una delle acciaierie più grandi d’Europa, capace di garantire in anni di attività a pieno regime più di 40 mila posti di lavoro tra diretti e indotto. Oggi le amministrazioni locali devono provare a mitigare le forti perdite occupazionali legate alla transizione ecologica e al cambiamento del modello energetico. Il piano predisposto dal governo prova a puntare sull’ampliamento della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e sulla diversificazione del tessuto produttivo locale, oltre a prevedere una serie di misure per mitigare gli effetti sociali e occupazionali della transizione.
Anche nel Sulcis Iglesiente i fondi europei e nazionali dovranno dare nuove prospettive a un territorio in profonda crisi occupazionale e demografica, a seguito delle progressive chiusure di miniere di carbone – l’ultima è stata chiusa nel 201 – raffinerie e fonderie. Anche in questo caso, il piano territoriale intende investire sulle fonti rinnovabili e sulla realizzazione di comunità energetiche.
Per il momento, però, complici la complessità d’intervento, i ritardi della programmazione regionale e nazionale e una serie di sovrapposizioni di competenze e titolarità, nulla è stato speso delle risorse previste dal Just Transition Fund. Gli amministratori locali guardano alla finestra di ottobre 2024 per ottenere una proroga, visto il rischio di non riuscire a spendere in tempo le risorse già allocate, ma anche per rimodulare i piani. Allo stato attuale, infatti, gli aspetti sociali e culturali della transizione sono largamente ignorati: come hanno evidenziato i risultati del progetto europeo ENTRANCES – Energy Transitions from Coal and Carbon: Effects on Societies, nel caso studio del Sulcis “la transizione verso l’energia pulita non sta producendo una nuova visione per il territorio, ma piuttosto sta producendo un effetto divisivo sulla comunità locale e sta ulteriormente diminuendo l’autonomia del territorio”.
Se governo centrale e Regioni riusciranno a migliorare la governance del Just Transition Fund, definendo innanzitutto l’autorità di gestione, come richiesto dalla Commissione europea, Taranto e il Sulcis potrebbero diventare importanti laboratori di innovazione in cui elaborare una via italiana alla transizione giusta. Gli esempi virtuosi in questa direzione non mancano: regioni come il Saarland in Germania e le Asturie in Spagna, ma anche interi Paesi come la Scozia, hanno fatto storia e sono diventati modelli per altri territori, mettendo a punto un mix di politiche economiche, sociali, ambientali e di governance per garantire una equa distribuzione dei costi e dei benefici della transizione verde.
Contrastare la povertà energetica
A fare i conti con la transizione, però, non ci sono solo i settori hard to abate e i territori storicamente più dipendenti da questo tipo di filiere. La decarbonizzazione cambierà in modo radicale il nostro rapporto con l’energia, a partire dai costi che dovremo sostenere per accedervi. Secondo recenti studi, un aumento dei prezzi dell’elettricità potrebbe essere inevitabile, al di là di tutte le misure preventive adottate: i governi dovranno quindi mettere in atto schemi fiscali sociali per proteggere i consumatori, in particolare le fasce più vulnerabili della popolazione. Considerando che già oggi in Italia oltre 2 milioni di famiglie vivono in povertà energetica, serviranno misure progressive, che offrano maggiori incentivi alle persone a basso reddito per investire in tecnologie sostenibili – dall’auto elettrica, ai pannelli fotovoltaici, alle pompe di calore – e che garantiscano una qualità e una quantità dignitosa di elettricità a famiglie e imprese.
Un nuovo patto sociale per la transizione ecologica?
Come ha evidenziato una recente indagine, il 62% degli italiani auspica una transizione ecologica rapida e incisiva. Se l’obiettivo della decarbonizzazione è solido, l’ondata di resistenza alle politiche climatiche che sta attraversando l’Europa impone però di ripensare le modalità della transizione, affinché sia davvero equa e inclusiva per tutti. Serve un nuovo patto sociale, tanto a livello europeo che nazionale, che ricostruisca la fiducia tra le parti sociali sulla base dei principi di responsabilità e giustizia. Partendo da quattro spunti operativi:
1) coinvolgere maggiormente le parti interessate, riattivando e sperimentando vecchie e nuove forme di partecipazione;
2) creare alleanze di scopo tra le parti, affinché il settore pubblico e quello privato, i sindacati e la società civile, attivismo incluso, possano agire in maniera più sinergica e coordinata;
3) redistribuire i costi e le opportunità della transizione investendo in educazione e formazione, per evitare che la crescita dei green jobs continui a essere trainata solo da alcune regioni;
4) includere di più e meglio la dimensione sociale in tutti i framework di sostenibilità.
I lavori avviati della Commissione europea per sviluppare una tassonomia sociale, accanto a quella verde, sono un passo importante in questa direzione. Sarà compito della nuova Commissione riaprire la discussione.
Immagine in evidenza: Foto di Abdul Basit su Unsplash