Storie di badanti | Anna7 min read

28 Settembre 2021 Società -

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Psicologa e giornalista

Storie di badanti | Anna7 min read

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Il lavoro domestico in Italia impiega 850 mila lavoratori e lavoratrici, per il 70% stranieri/e e per l’89% donne. Contando anche il lavoro sommerso, il numero sale a due milioni. Tra le righe di questi numeri vivono le persone, e le loro storie. Ne abbiamo raccolte alcune.

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Immagine di fantasia che non ritrae la protagonista della storia | Photo by Harli Marten on Unsplash

Luci e rumori aggrediscono i sensi. La visuale è confusa, la realtà ovattata. I pensieri angoscianti diventano sempre più distorti: uno di questi emerge in maniera travolgente rompendo gli argini della lucidità: il suicidio, l’istinto di farla finita, il desiderio di liberarsi di tutto.

Ma all’improvviso si fa strada un nuovo sentire, più caldo e accomodante. E Anna torna sui suoi passi, torna a sua figlia Grazia, ritrova i ricordi di quando era bambina. All’improvviso ritorna in sé. Si chiede che cosa accadrebbe alle persone che per sventura dovessero incrociarla, scontrarsi con la sua macchina. Così il guardrail contro il quale va a sbattere si trasforma in uno spartiacque tra la vita e la morte. E Anna, senza ombra di dubbio, fa un balzo dalla parte della vita.

In quel momento capii che più in basso di così non potevo andare. Avevo toccato il fondo. L’unica cosa che potevo fare era ricominciare.

Anna – nome di fantasia, storia reale – comincia a fare la badante poco dopo essere andata in pensione, dopo una vita trascorsa a lavorare. La sua è una necessità economica: deve ripulirsi da debiti, dalle finanziarie accumulate, deve riconsegnare ad amici e parenti i soldi presi in prestito. Denaro che ha sperperato nel giro di poco tempo giocando d’azzardo.

Anna ha più di 60 anni quando comincia a prendersi cura di una signora anziana; lei che aveva sempre lavorato in un’azienda e che voleva godersi la pensione insieme al nuovo compagno. In realtà è il compagno di una vita, o almeno degli ultimi 20 anni, ma quando l’amore è forte e si rinnova ogni giorno, il tempo sembra non passare mai: «Ci stavamo costruendo una casa insieme, avevamo comprato un terreno in campagna. Anche lui sarebbe andato in pensione da lì a poco. Eravamo sereni, eravamo felici».

Ma Paolo, la nuova casa non la vedrà, non andrà mai in pensione, perché muore di infarto: «In un attimo mi è caduto il mondo addosso. La sua morte mi ha disintegrata. Sono crollata in mille pezzi. Frantumata. Nemmeno la scomparsa di mio marito mi aveva ridotto così. Anche lui era morto di infarto. All’epoca avevo poco più di 30 anni. Ci sono stata male, certo, soprattutto perché pensavo a mia figlia che aveva 15 anni. Ma non lo avevo mai amato di un amore così intenso e profondo come ho amato Paolo».

Anna, di origini rumene, cresce in un paese dell’Emilia Romagna. Del paese di suo padre non sa nulla, anche la lingua l’ha imparata da grande: «Non conservo nulla di quella cultura. Fino ai 10-12 anni l’estate andavo a trovare i miei nonni. Ora uno dei miei fratelli vive a Bucarest e ogni tanto lo vado a trovare. Con il rumeno mi faccio capire, ma tutti si accorgono che non sono di là».

L’infanzia di Anna trascorre serena e semplice come quella di tante sue coetanee: la scuola, le amicizie, i primi amori. Poi suo padre muore di infarto quando lei è ancora un’adolescente: «Gli uomini più importanti della mia vita sono andati via tutti allo stesso modo: sono morti di infarto. Una fine improvvisa, che non lascia spazio a interpretazioni, che devasta e atterrisce chi rimane, non lasciando altro che rabbia e disperazione. Io amavo mio padre. Era tutto per me. Un po’ anche una madre, perché quella vera è sempre stata un po’ fredda e distaccata. Mai una carezza, mai un bacio, né a me, né a mio fratello».

È quando muore Paolo che inizia il calvario di Anna: «Ogni tanto a Paolo e a me piaceva andare a giocare al casinò. Ma si era sempre trattato di pochi spiccioli. Era un divertimento innocuo all’interno di un fine settimana di svago e di leggerezza».

Inizialmente, dopo la morte di Paolo, Anna non vuole vedere nessuno, non vuole fare niente. Si rinchiude in casa: «Anche i rapporti con mia figlia Grazia non andavano bene. Non sono mai andati bene dopo la morte di suo padre. Quando accadde si chiuse in sé stessa. Non ha mai voluto parlare di quanto è successo, né con me, né con nessun altro. Abbiamo cominciato a riavvicinarci intorno ai suoi 18 anni. Ora Grazia ne ha più di 40. Ogni volta che può parte e va in giro per il mondo. Non ce la fa a stare qui, a rimanere. Entrambi abbiamo perso il padre da piccole. Abbiamo vissuto la stessa tragedia, ma forse il dolore quando è così lacerante ti fa sentire irrimediabilmente sola e la distanza dagli altri può diventare siderale anche se continui ad averli accanto».

Anche Anna, quando perde il suo compagno Paolo, si chiude in se stessa. «La prima volta che ho rimesso il naso fuori di casa è stato per andare a una Sala Bingo con una vicina di casa. Quel giorno, mentre stavo giocando mi accorsi che stavo bene, che non pensavo più a nulla. Ed è così che poi ci sono ritornata una volta, un’altra ancora e poi ancora fino a che quell’abitudine è diventata una dipendenza e si è portata via quel poco che rimaneva di me».

Anna, in breve tempo, comincia a giocare anche alle slot machines, 7 giorni su 7: «Mi accorgevo che non ero più triste. I miei pensieri erano tutti focalizzati a trovare tempo, a trovare soldi, a trovare scuse da dire a tutti pur di continuare a giocare. La sera dell’incidente, avevo vinto 1.500 euro e li avevo rigiocati tutti in una volta sola. Quando sono andata via di lì non avevo neanche i soldi per la benzina. L’angoscia e il dolore mi erano ripiombati addosso. Le sofferenze di una vita, i sacrifici fatti, i sogni disillusi, era riemerso tutto».

Sono salita in macchina alle tre del mattino. Mi trovavo in autostrada. Ho pensato che se fossi andata forte e mi fossi lasciata andare, sarebbe presto finito tutto.

«Poi ho pensato a quanta altra sofferenza avrei creato. Ho pensato a Grazia che, in un modo o nell’altro, ha ancora bisogno di me. Da quella notte è cominciata la mia risalita. Ho chiesto immediatamente aiuto e ho trovato uno psicologo che mi ha salvata. È incredibile quanto una persona possa influire sulla vita di un altro».

E poi il lavoro di badante. Non il suo lavoro, non quello che desiderava, eppure anche il lavoro di badante ha avuto un ruolo. «L’altra parte l’hanno fatta gli anziani. Prendermi cura degli altri mi viene naturale, spontaneo, ma con loro è stato molto bello ed arricchente. L’ho fatto con amore e dedizione. Mi hanno insegnato ad apprezzare la quotidianità, a dilatare i tempi delle mie giornate, anche i miei pensieri, a godere delle piccole cose».

Anna oggi non ha più bisogno di fare la badante. Ha pagato tutti i suoi debiti e vive della sua pensione. Continua, però, ad aiutare gli anziani del suo paese. Fa loro la spesa, li aiuta ad alzarsi dal letto, semplicemente gli tiene compagnia, anche stando in silenzio, seduti fuori la porta di casa a guardare le persone che passano mentre i ricordi del passato riemergono tra un commento e l’altro.

«Ho molti progetti per il futuro. Prima di tutto voglio stare bene. Finalmente il gioco per me non esiste più. Quando passo davanti a una sala giochi, mi devo girare dall’altra parte, perché mi danno fastidio. In questi anni ho riscoperto la capacità di accudire. La sera, a letto, quando chiudo gli occhi, ripercorro gli ultimi anni della mia vita. E sono felice di quello che sono diventata».

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Giornalista pubblicista e psicologa, ha unito la sua capacità di ascolto e empatia alla sua passione per la scrittura, cominciando a raccogliere storie di vita. Scrive per testate locali romagnole e per blog su immigrazione, sociale, arte e benessere.
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