Manchester City-Gillingham, il play-off più bello di sempre9 min read

18 Febbraio 2015 Uncategorized -

Manchester City-Gillingham, il play-off più bello di sempre9 min read

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Manchester City-Gillingham
@mcfc

Il 15 aprile 1989, giorno di Blackburn Rovers-Manchester City 4-0, Sean Riley non era allo stadio. Quel pomeriggio, mentre a Sheffield si consumava la tragedia di Hillsborough, Sean Riley doveva fare da testimone di nozze al cognato, ma dalla settimana dopo non avrebbe saltato una partita del Manchester City per nessun motivo fino al 21 ottobre 2014, quando la Uefa, spesso più importuna dei parenti, avrebbe obbligato il CSKA Mosca a giocare a porte chiuse. Il signor Riley si è fermato così a 1258 partite consecutive: un quarto di secolo in cui ha visto la sua squadra vincere il campionato nei minuti di recupero dell’ultimo turno, infliggere ad Alex Ferguson la sconfitta più umiliante della sua vita, rimontare una partita di FA Cup col Tottenham da 3-0 a 3-4 in inferiorità numerica, ma anche retrocedere tre volte, passare mesi senza segnare un gol in casa e toccare il punto più basso della sua storia mentre, dall’altra parte della strada, lo United lambiva forse il più alto della sua.

Il 30 maggio 1999 Sean Riley è a Wembley per la finale dei play-off della Second Division, che poi sarebbe la terza serie. Due settimane prima il Manchester United ha vinto il campionato. Otto giorni prima il Manchester United ha vinto anche la FA Cup. Quattro giorni prima, ribaltando il risultato nei minuti di recupero, il Manchester United ha vinto addirittura la Champions League. Quando, sei minuti dopo il primo gol del Gillingham, un tale Robert Taylor segna la rete del 2-0, mancano tre minuti alla fine: il Manchester City sta perdendo 2-0 e Riley, evidentemente capace di vedere il bicchiere pieno fino all’orlo anche quando è già andato in mille pezzi, pensa che comunque la stagione successiva sarà l’occasione giusta per andare in trasferta nella ridente Scunthorpe, in uno stadio mai visitato prima. Un altro giro nell’Inghilterra più esotica. Lo stesso pensiero attraversa la mente dell’allenatore Joe Royle (“Looks Like Scunny Next Season”), e quella di un altro tifoso, seduto vicino al giornalista David Conn, che anni più tardi riporterà le sue parole nel libro Richer than God: “Scunny! Fucking Scunny! Scunthorpe fucking United. That’s who you’re fucking playing next year, stuck in this division. Fucking Scunny”.

Il pessimismo è giustificabile. Dopo due quinti e un nono posto a inizio anni novanta, tutto è andato come peggio non si poteva immaginare. Francis Lee, insediato come presidente nel 1994 sull’onda dell’entusiasmo popolare, dichiara che il Manchester City sarà presto il club più felice della terra, con i giocatori più pagati: “Berremo un sacco di champagne, festeggeremo e canteremo fino a perdere la voce”. La squadra arriva sedicesima e poi diciassettesima, quindi in panchina arriva Alan Ball, che parla di Europa e acquista dall’Exeter un certo Martin Phillips, destinato secondo lui a diventare il primo giocatore inglese da 10 milioni di sterline (è andata diversamente), e retrocede all’ultima giornata, per differenza reti, pareggiando contro un Liverpool che non ha più nulla da chiedere: i giocatori perdono tempo su un calcio d’angolo perché da qualcuno è arrivata la notizia, falsa, che il Coventry sta pareggiando.

Arrivati in fondo si può risalire, ma si può soprattutto continuare a scavare: invece di lottare per la promozione, il City arriva quattordicesimo. Il vero capolavoro al contrario è la stagione 1997-98: a guidare una rosa di quaranta giocatori si avvicendano ben sei allenatori diversi, uno dei quali, Steve Coppel, lascia la squadra dopo soli 35 giorni, senza addurre motivazioni plausibili al di fuori della pressione (e venendo subito bersagliato di illazioni più o meno gravi). Quando a Lee, in dicembre, viene chiesto delle conseguenze di un’eventuale retrocessione, la risposta è: “Non lo so, perché in quel caso mi butterò giù da questa tribuna”. Il suicidio gli sarà risparmiato dal passaggio di consegne a un nuovo presidente, ma intanto il Manchester City, dopo aver messo a segno uno dei più spettacolari autogol di sempre alla penultima giornata, è la prima squadra con un trofeo Uefa in bacheca a retrocedere nella terza serie: in futuro capiterà anche a Leeds United, Nottingham Forest, Fiorentina e Napoli, ma nel 1998 è un primato.

Manchester City-Gillingham, il play off più bello di sempre

A Wembley, quel pomeriggio di tarda primavera, piove. Le due tifoserie arrivate a Londra per la gran finale non potrebbero essere più diverse. Da una parte quelli del Gillingham: nonne, bambini con gli album da colorare, studenti francesi in soggiorno studio nel Kent, un popolo festoso e ben vestito giunto nella capitale per un gigantesco picnic; dall’altra gente venuta anche da New York e Hong Kong, che magari ricorda l’ultima occasione in cui è stata qui, la finale persa di FA Cup del 1981, e ha già fatto l’abbonamento per la prossima stagione, pur sospettando che un altro anno nella terza serie, con tutti quei debiti, potrebbe essere fatale.

Per le agenzie di scommesse il Manchester City non avrebbe neanche dovuto essere a Wembley quel giorno, viste le quote bassissime offerte per la vittoria del campionato e la promozione diretta. Una squadra del genere, con quelle risorse, con quella base di tifosi, dovrebbe vincere solo per il nome che porta, anche se Giorgi Kinkladze non c’è più, ceduto con tutto il suo talento all’Ajax, e, mentre si tenta di ridimensionare una folle rosa composta da 53 giocatori, arriva gente come l’australiano ex Salernitana Danny Tiatto e il connazionale Danny Alsopp. I “fine settimana in località costiere come Bournemouth e Blackpool”, i “derby del Lancashire contro grandi nomi del calcio inglese come Burnley e Preston North-End”, elencati dal magazine ufficiale del club come lati positivi di una stagione all’inferno, possono essere più insidiosi di quel che pensi, soprattutto quando tutti ti cantano “You’re not famous anymore” e vogliono batterti, perché chissà quando ricapiterà di incontrarti. A York, il 18 dicembre 1998, i tifosi del City vedono spalancarsi il baratro: i padroni di casa vincono 2-1 e i blues si ritrovano dodicesimi, a quindici lunghezze da Fulham e Walsall. Quando le due squadre si ritrovano, il 4 maggio, sono i giocatori a ringraziare il loro pubblico con uno striscione: “You’re the best and you know you are! Thanks for your support!”. La media degli spettatori delle partite casalinghe, 32471, è superiore a quella di undici squadre di Premier League e di tutte le squadre di First Division tranne una. Il Manchester City arriva terzo.

Il Gillingham, guidato da un giovane Tony Pulis già con cappellino, si presenta con la classica divisa nerazzurra; il Manchester City, invece, veste una maglia a righe gialle e blu firmata Kappa, una combinazione insolita per il club, in pieno stile fine millennio. 76935 spettatori aspettano ottanta minuti prima di vedere un gol e quando ne vedono due del Gillingham pensano che sia finita. Le testimonianze di chi c’era, raccolte dal sito Manchester City Via The Alps, raccontano storie simili: bambini che piangono allo stadio, lacrime in un pub di Cheetham Hill o sotto il sole di Zante. In 5000 lasciano Wembley. Perché mi hai fatto tifare questa squadra, papà? Fucking Scunthorpe.

Kevin Horlock, centrocampista, quella mattina ha sfidato il compagno di squadra Jeff Whitley per vedere chi avrebbe resistito di più sotto la pioggia londinese, fuori dall’albergo. Piove ancora, 89 minuti e 44 secondi dopo il calcio d’inizio, quando Horlock, che oggi vive nel Suffolk e organizza scuole calcio estive per ragazzi, segna il 2-1.

L’arbitro che concede cinque minuti di recupero, facendo infuriare Tony Pulis, si chiama Mark Halsey. Nei giorni successivi ci saranno polemiche: qualcuno sostiene di averlo visto bere con i giocatori del City dopo la gara, al Wembley Hilton. Per le strane coincidenze del calcio l’ultima partita della carriera di Halsey, tre anni dopo aver sconfitto il linfoma non Hodgkin, sarà proprio un Manchester City-Norwich del 2013, con tanto di ovazione dei tifosi di casa, che non dimenticano nessuno, neppure l’arbitro di quei cinque minuti che hanno cambiato la loro storia per sempre.


Al quarto minuto di recupero una palla lunga dalla difesa trova una testa, poi altri due tocchi, prima di finire tra i piedi del numero 9: “It’s Dickov again!” urla il telecronista di Sky e prima che riesca a dire il più scontato dei “can-you-believe-it?” il centravanti scozzese è già in ginocchio, sommerso dai compagni, mentre sugli spalti si esulta come solo chi ha visto la morte (calcistica) in faccia può fare. Paul Dickov ha segnato il gol più importante della sua carriera, il gol più importante della storia del Manchester City, senza il quale forse le cose sarebbero andate in tutt’altro modo, forse Aguero non sarebbe mai esistito, e lo ha segnato a Vince Bartram, suo ex compagno di squadra all’Arsenal e suo testimone di nozze. Chi già è uscito dallo stadio scambia insulti con gli steward e tenta di rientrare, chi è arrivato fino alla metropolitana torna indietro di corsa; qualcun altro si limita a entrare in un pub per verificare il miracolo.

Le statistiche dicono che, nel 61,1% dei casi, chi ha segnato per ultimo durante la partita vince la lotteria dei calci di rigore. Nessuno dei presenti a Wembley quel giorno ha letto il libro da cui è tratto questo dato (B.Littleton, Twelve yards), ma non bisogna essere degli scienziati per capire che il Gillingham è ormai una comparsa a una festa che non gli appartiene.


Nicky Weaver all’epoca è un portiere di vent’anni, reduce dalla sua prima stagione da titolare. Respinge il primo rigore con i piedi, sul secondo non deve neanche intervenire, subisce gol in occasione del terzo; al momento del quarto chiede al guardalinee se in caso di parata la partita sarebbe finita e, dopo essersi correttamente tuffato alla sua sinistra ed essere entrato di diritto nel folklore azzurro City, comincia a correre muovendo le braccia, saltando i cartelloni pubblicitari, poi ritornando verso il campo, inseguito dall’intera squadra. Alla fine lo atterra Andy Morrison, il capitano, un uomo che, secondo la definizione del giornalista Mark Hodkinson, sembra “assemblato a partire dai residui di un cantiere edile, cosce come barili di petrolio, il petto costruito con blocchi di calcestruzzo, il collo largo come uno scarico industriale”. Uno che vorreste avere con voi, se un giorno vi ritrovaste a combattere nella terza serie, tra Wycombe Wanderers e Wrexham: a lui l’onore di alzare la coppa, ma non quello di portarla sul bus scoperto per le vie di Manchester, perché per certe cose è meglio aspettare qualche trofeo più importante.

Tra i quattordici giocatori in campo quel giorno in maglia gialloblu c’è chi è entrato nelle unità di fanteria della RAF, chi vende auto a Stockport o a Lincoln, chi vive negli Stati Uniti; qualcuno, ovviamente, è rimasto nel mondo del calcio. Un anno dopo quella vittoria, il 7 maggio 2000, un Manchester City in maglia rossonera festeggiava a Blackburn, con meno drammi e più spensieratezza, il ritorno nella massima serie; tredici anni e diversi petrodollari dopo, altri giocatori, meglio pagati e un po’ più raffinati, tentavano di reinterpretare l’impresa di Wembley, riuscendoci, soltanto con un obiettivo un po’ più prestigioso. Sean Riley, come al solito, era presente.

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Classe 1988, appassionato di campionati di dubbio gusto. Scrive su Calcio Sudamericano, Canale Milan e Fantagazzetta. Venera Ibrahim Ba.
2 Commenti
  1. Fabio Colombo

    c'era anche un rigore solare per il Gillingham nei tempi supplementari

  2. Piero Pelizzaro

    Da tifoso mi sono emozionato a leggere quest'articolo! Bello bello!

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