Linee di confine | Storia di Vasyl4 min read

26 Agosto 2019 Migrazioni -

Linee di confine | Storia di Vasyl4 min read

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Questa storia è stata raccolta all’interno del progetto “Linee di Confine. Intrecci culturali e generazionali” che per mezzo di interviste a primogeniti di famiglie straniere, cene in casa loro e immagini fotografiche ha indagato la tematica delle seconde generazioni. L’obiettivo dell’Associazione Parole Nuove, promotrice del progetto, è quello di capire i sentimenti, i conflitti e gli stati d’animo che muovono le vite di genitori e figli nel sentirsi italiani e stranieri e nel percepirsi come parte di questa o quella cultura, di questa o di quella comunità.

storia di vasyl
Vasyl e la sua famiglia

Mi chiamo Vasco: Vasyl Rakovych, per l’esattezza. Ho 25 anni e sono nato in Crimea, prima territorio ucraino e poi russo, ma non parlo ucraino. A 14 anni, invece, ho imparato l’italiano.

Quando avevo cinque anni, i miei genitori si sono separati e con mia mamma, dalla Crimea, ci siamo trasferiti in Bielorussia. Della Crimea non mi manca molto, nemmeno mio padre. Lui c’era poco anche quando vivevamo insieme, mi mancava già a sei anni, quando la sera tornavo a casa con la ruota sgonfia della bicicletta e lui non c’era ad aggiustarmela. Ma sono contento che sia andata così. Non avrei questo carattere, questa capacità di arrangiarmi e di fare tutto da solo, se qualcuno lo avesse fatto per me. Della Crimea mi manca l’infanzia vissuta in strada, i danni che facevo con gli altri bambini, i più bei ricordi.

Poi un giorno mia madre è tornata dall’Italia, dove portava i bambini bielorussi in vacanza, e mi ha detto che ci saremmo trasferiti: sapevo solo che aveva un nuovo compagno e che l’Italia era a forma di stivale.

Siamo arrivati a Lido Adriano e mi sono trovato catapultato in una prima dell’Itis. Non sapevo nemmeno una parola di italiano. A un certo punto ho cominciato a fare dell’autoironia: “Sono come un cane – mi dicevo –, capisco ma non parlo”. Anche adesso non parlo molto, se dico una cosa non la ripeto. Volevo tornare a casa, ma poi mi sono abituato.

Dopo poco ho cominciato a giocare a calcio e la scuola non l’ho finita, mi sono fermato in quarta. Ho preso il patentino e sono andato a lavorare come porta pizze. A un certo punto mi hanno detto “da domani fai tutto tu: pizze, consegna, cassa”. E così è stato. Mi ricordo che dovevo chiudere per andare a consegnarle. Avevo poco più di 14 anni.

Ancora adesso faccio il pizzaiolo, ma anche il meccanico. Io ho capito che se non ti muovi non combini niente. Con alcuni miei amici sto per aprire un’associazione sportiva. Siamo patiti di guerra simulata. Quando nasci e cresci in una cultura militare, questa diventa uno stile di vita, un modo per affrontare le difficoltà: stare tranquilli senza andare in panico. Io mi muovo per obiettivi, quando ne hai uno e lo raggiungi poi la vita ti porta ad averne altri.

Se fossi rimasto in Russia adesso sarei diverso. Lì siamo indietro di trent’anni, nel bene e nel male. Gli uomini sugli autobus si alzano per far sedere le donne. I maschi grandi e forti stanno in piedi, è una questione di buon senso.

Io mi sento anche italiano. Capisco il romagnolo, faccio la pizza. Come fai a non amare la Romagna, i vecchi che al bar ti raccontano la loro storia? Sono un patriota della Russia ma anche dell’Italia. Sono un russo che fa la pizza come un napoletano.

Pure mia mamma da quando siamo in Italia è cambiata. Lei che si è trasferita in Bielorussia con 40 dollari e un bambino in braccio adesso è molto più premurosa. Lì i bambini crescono per strada, se cadono nemmeno se ne accorgono; qui ora con mio fratello piccolo è tutto diverso. È contenta della sua vita adesso ma ha dovuto faticare. In Bielorussia era vice preside e stava per diventare preside quando siamo partiti, invece qui ha dovuto ricominciare tutto da capo.

All’inizio a Lido Adriano, non so quante mattine prima di andare a scuola, l’ho accompagnata a pulire i condomini. Ora fa quello che le piace: insegna russo. Lei ha due palle quadrate. Sbaglia ancora qualche parola in italiano, ma per il resto qua ha trovato il suo mondo. Nelle sfighe io l’ho accompagnata e siamo riusciti a trasformare tutto in meglio. Siamo quasi come fratello e sorella.

Dell’Italia mi piace il suo modo di essere accogliente. In strada anche i carabinieri ti sorridono. Io non ho mai avuto grossi problemi e se mi è capitato di incontrare qualche persona razzista, non ho mai provato a farle cambiare idea. Sono persone che non hanno mai viaggiato, che non sono mai state ospiti di altre culture.

Sei anni fa è arrivato Paolo, mio fratello, figlio di mamma e Andrea. Se non lo vedo anche solo un giorno, mi manca. La notte in cui c’è stato il terremoto, pochi mesi fa, mi sono ricordato che Paolo era dai nonni che vivono all’ottavo piano e così sono volato da lui e poco dopo eravamo tutti a casa di mia madre. Con Paolo ci parlo, in russo. Ho un fratello anche in Crimea, Ivan, che ha due anni. Mio padre si è risposato. Ogni tanto vado a trovarli e quando vado via, loro piangono. Io invece, dopo tre o quattro giorni, non vedo l’ora di tornare a casa.

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Parole Nuove è un’associazione che fa del potere del racconto il proprio manifesto. L’obiettivo è stimolare l'utilizzo di parole nuove con cui riguardare la propria storia, creando punti di vista alternativi, mettendo in scena competenze e abilità essenziali per lenire il dolore e trasformare il disagio in occasione di resilienza.
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