Linee di confine | Storia di Roberta4 min read

29 Ottobre 2019 Migrazioni -

Linee di confine | Storia di Roberta4 min read

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Questa storia è stata raccolta all’interno del progetto “Linee di Confine. Intrecci culturali e generazionali” che per mezzo di interviste a primogeniti di famiglie straniere, cene in casa loro e immagini fotografiche ha indagato la tematica delle seconde generazioni. L’obiettivo dell’Associazione Parole Nuove, promotrice del progetto, è quello di capire i sentimenti, i conflitti e gli stati d’animo che muovono le vite di genitori e figli nel sentirsi italiani e stranieri e nel percepirsi come parte di questa o quella cultura, di questa o di quella comunità. Qui tutte le storie.

storia di roberta
Roberta e la sua famiglia

La tua cultura è dentro di te. Io ho preso il meglio da entrambe: la tranquillità africana e l’educazione occidentale. Mi chiamo Roberta, Roberta Gueye e ho 28 anni. Sono nata in Italia, ma spesso mi sento dire:

Però parli bene l’italiano!

E a me viene da ridere, perché io sono italiana. Sono anche senegalese. Sono figlia di Modou che è arrivato in Italia negli anni ottanta. Diceva di voler fare il commerciante, poi in realtà ha fatto l’ambulante. Sulla spiaggia conobbe una famiglia e lo portarono a lavorare in una falegnameria. Ancora oggi fa il falegname.

Non so dire se si sia mai integrato. Forse non ne ha bisogno, lui sa stare ovunque. Il suo sogno era ‘farcela’ e poi tornare a casa. Sono passati tanti anni e, pur stando qua, continua a comprare terreni in Africa. Io con mio padre non ci ho mai vissuto, solo nei weekend e d’estate. Sono cresciuta con mia mamma alla maniera occidentale. Mio padre si è risposato e ha avuto altri figli.

Quando vado a casa da Modou, sono l’unica che non parla wolof. Anche i miei fratelli, credo, vivano un dualismo. Tutto parte dalla religione che detta regole e stili di vita. Loro sono musulmani, io cattolica, come mia madre. Per me il Ramadan è come una festa. Il frigo è sempre pieno.

So vedere il lato bello delle cose. Non ho mai un problema, tutto è risolvibile, ma più cresco e più cambio. Cresce l’ansia, il volere sempre di più, questa è la parte occidentale. In Africa l’ambizione maggiore è stare bene. Star bene a livello fisico. Sono come lui. A mio padre è così difficile esporre un problema. La sua frase finale è sempre: “Ma tu stai bene?”

Per me, lui è una contraddizione vivente. Ogni volta che compie gli anni ci dice un’età diversa. Non so se non se la ricorda oppure se se l’abbassa. Ci racconta che in Africa quando nascevi, ti andavano a registrare all’anagrafe settimane dopo. Quando vado da lui e lo chiamo da sotto casa, quando si affaccia, mi dice: “Tu sei peggio degli africani, che ti strilli?”. A casa c’è proprio aria africana, un andirivieni, è tutto molto divertente.

Mia madre che si chiama Daniela viene spesso a casa da mio padre e da Awa, la sua nuova moglie. Mia mamma ha praticamente cresciuto mia sorella Khadi. E poi ci sono Anta, Fallou e Diarra che vive a Londra. Diarra dice che qua si sentiva gli occhi addosso. Io, invece, non ho mai avuto problemi. Anche se da piccola in classe ero l’unica bambina di colore. Vivevo felice con mia madre, lei che aveva fatto scandalo: aveva avuto la prima figlia, mia sorella Jenny, a 17 anni, e poi me da un uomo nero.

Awa è arrivata qui da più di una decina di anni. Fa la stagione al mare e ogni estate, fino all’ultimo, non si sa se lavorerà oppure no. D’inverno assiste gli anziani, ma non la pagano mai. Lei ha imparato l’italiano e ha preso la patente. La vedo come un esempio, come una sorella maggiore, ha la stessa età di Jenny. Awa di mio padre dice che non si possono domare tutti gli uomini, lui, mio padre, ce lo dobbiamo tenere così.

Mio padre vorrebbe che diventassimo tutti degli Obama, ma noi abbiamo i nostri tempi. Ci diplomiamo dopo, prendiamo la patente dopo. Io studio per diventare educatrice socio-culturale e lavoro per una cooperativa.

Una difficoltà che lui ha avuto e che ha ancora è la lingua. Lui parla finché la gente capisce, ma non si impegna. Non si capisce mai un tubo con mio papà. E poi “passo, non passo”, tu lo aspetti, ma lui magari non arriva. Questa è la cultura africana o è proprio lui che è così? Anche io sono così. In me, dall’unione Italia-Senegal è nata una bella commistione: il pollo con il riso.

Io a Toubab Jalau, in Senegal non ci sono mai andata. Perché non vado? C’è qualcosa che mi ferma, forse la paura di non voler più tornare. E se dovessi scoprire che quello è il mio posto? Sarebbe un casino!

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Parole Nuove è un’associazione che fa del potere del racconto il proprio manifesto. L’obiettivo è stimolare l'utilizzo di parole nuove con cui riguardare la propria storia, creando punti di vista alternativi, mettendo in scena competenze e abilità essenziali per lenire il dolore e trasformare il disagio in occasione di resilienza.
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