Italiani senza cittadinanza | La storia di Nebat10 min read

30 Settembre 2019 Cittadinanza -

Italiani senza cittadinanza | La storia di Nebat10 min read

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Negli ultimi anni si è parlato molto di riforma della cittadinanza. Migliaia di ragazzi e ragazze nati/e in Italia, o in Italia fin da piccoli/e, non possono infatti con le norme attuali diventare italiani/e. Ma cosa comporta vivere in Italia senza avere la cittadinanza italiana? Che impatto ha questa condizione sulla vita di chi la vive? Lo stiamo chiedendo proprio a loro, italiani e italiane senza cittadinanza. Qui tutte le storie.

Sono Saida, sono nata in Marocco e cresciuta in Italia, dove ho frequentato tutte le scuole, mi sono laureata e lavoro. Vi risiedo da tanti anni ormai, ma ancora non ho la cittadinanza. Condivido questo destino con migliaia di ragazzi e ragazze, che per qualche cavillo burocratico non sono formalmente riconosciuti come cittadini italiani.

Noi però ci sentiamo italiani, la nostra cultura ibrida è il frutto dell’incontro tra l’eredità della cultura dei nostri genitori e quella della società in cui siamo cresciuti. Ma cosa comporta vivere in Italia senza avere la cittadinanza italiana? Che impatto ha questa condizione sulla vita di chi la vive?

Per rispondere a queste domande possiamo fare dei ragionamenti di tipo giuridico, sociale, filosofico, politico, statistico. Li abbiamo fatti, e li trovate qui. Possiamo però anche entrare nella vita vera, ed è quello che facciamo ora raccontando le storie di chi, come me, vive in questo paese e magari ci è pure nato/a, ma per un motivo o per un altro non ne ha la cittadinanza.

Cominciamo con Nebat. Nebat è nata ad Addis Abeba, in Etiopia, ed è arrivata in Italia all’età di 10 anni; ha vissuto a Roma e poi si è trasferita nel mantovano. Studia giurisprudenza a Bologna e ci racconta la sua storia, in particolare cosa significa per lei la questione della cittadinanza.

storie seconde generazioni
Nebat

Nebat, raccontaci come sei venuta in Italia e come è stato il primo impatto.

Mio papà vive in Italia dal 1998, dove era stato riconosciuto come rifugiato, perché, a seguito della sua origine eritrea da parte del nonno, aveva molti problemi. Io non lo vedevo da tre anni, poi sono venuta a seguito del ricongiungimento familiare con la mamma e i miei fratelli.

Il primo impatto è stato con l’aeroporto di Roma, personalmente molto bello perché era un luogo di cui avevo sempre sentito parlare e volevo vedere com’era, mi piacevano i colori belli accesi delle case che somigliavano ai film che guardavo da piccola in Etiopia. Poi ero felice di rivedere papà.

Che aspettative avevi?

Non avevo aspettative perché ero piccola, ma ero molto curiosa e felice di partire per vedere papà e un nuovo paese. Mi ricordo il giorno in cui eravamo in aeroporto e salutavamo i parenti. Nella mia famiglia molti sono andati via, chi in America, chi in Inghilterra, Canada, Australia, quindi mi ero abituata all’idea di dover cambiare paese e non vivere in Etiopia. Non è stata una tragedia. Anzi sentivo sempre parlare di Roma, Italy, ed ero curiosa di vederla.

Nella tua esperienza a scuola in Italia senti di aver subito discriminazioni per la tua origine?

No, non ho mai subito atti di discriminazione a scuola né per il colore della mia pelle né per il velo, né a Roma né al nord.

Non mi sono mai sentita diversa nel senso negativo del termine, mi sono sentita diversa perché provenivo da un paese diverso.

Io sono Nebat e basta, tutti mi conoscono così, con le mie caratteristiche, pregi e difetti, senza connotati come “Nebat l’etiope”, “Nebat la nera” ecc. Anzi appena arrivata al nord mi prendevano in giro solo per il mio forte accento romano. A Roma ero l’unica straniera della classe, avevo una maestra di sostegno e tutti i bambini mi aiutavano per capire e integrarmi meglio. Mentre alle scuole medie metà alunni era di origine straniera, lì c’era il mondo e non sapevo nemmeno cosa significasse la parola “straniero”.

E la cittadinanza italiana? Per quale motivo ancora non ce l’hai?

Il fatto che io non abbia ancora la cittadinanza è un fatto puramente istituzionale, perché gli altri mi percepiscono come italiana e io mi percepisco tale. Negli ultimi anni sento proprio un rifiuto istituzionale ad accettare le seconde generazioni. Non ho ancora la cittadinanza dopo 18 anni di residenza perché quando mio papà l’aveva chiesta e l’ha ottenuta, in automatico anche i miei fratelli minori sono diventati cittadini italiani. Nel frattempo però io ero diventata maggiorenne e perciò non avevo più diritto a ottenerla. Questo non sarebbe dovuto accadere se l’iter avesse seguito i tempi previsti dalla legge: l’esito della domanda è arrivato dopo tre anni e mezzo, invece dei due anni previsti dalla precedente norma del 1992. Se si fossero rispettate le tempistiche io sarei diventata cittadina italiana. All’epoca non potevo fare domanda col reddito di famiglia perché mio papà aveva perso il lavoro.

Visto che la legge si basa sul requisito economico e non è previsto uno status diverso per lo studente in Italia, come invece si era intravisto qualche anno fa col miraggio dello ius culturae, devo aspettare di avere un lavoro che mi permetta di raggiungere il reddito richiesto per tre anni consecutivi, fare domanda e aspettare altri quattro anni prima di ricevere una risposta.

A casa tuo padre e i tuoi fratelli hanno la cittadinanza italiana, mentre tu e tua madre no. Come vivi questa situazione?

È una condizione che mi permette di vedere molto da vicino le differenze che si presentano quando si ha la cittadinanza o meno. Per esempio, quando i miei fratelli vanno a votare io non posso farlo; se decidiamo di andare in Inghilterra io devo chiedere il visto mentre loro non ne hanno bisogno. Siccome il mio paese di origine non concede la doppia cittadinanza loro sono soltanto italiani e non hanno il passaporto etiope, dunque anche in Etiopia entriamo da due ingressi diversi.

La cosa assurda è che ho anche il cognome diverso da quello dei miei fratelli perché qualche anno fa l’ambasciata etiope decise di cambiare i cognomi a tutti i cittadini che vivono all’estero: in passato gli etiopi avevano il doppio cognome, formato dal nome del padre e da quello del nonno. Con la riforma i due nomi sono stati uniti per formare un unico cognome. Di fronte a queste esperienze capisco più chiaramente come situazioni assolutamente identiche vengano trattate in maniera diversa, senza una logica valida.

E in che cos’altro ti senti svantaggiata?

Nel mio percorso formativo e di crescita, e per il futuro lavoro. Quando avevo 18 anni non era possibile fare servizio civile senza cittadinanza. Poi negli ultimi anni lo hanno reso possibile e l’ho fatto. Volevo anche fare esperienze all’estero, per esempio la ragazza alla pari, ma era richiesta la cittadinanza. Anche adesso, se volessi fare un corso di studi all’estero, per esempio in Canada o Australia, senza cittadinanza avrei più difficoltà di chi ce l’ha. E poiché studio giurisprudenza, una volta laureata in teoria avrei la possibilità di partecipare a concorsi e bandi, ma ce ne saranno alcuni a cui non potrò partecipare. Quindi sì, avrò molti svantaggi. Per non parlare della vita politica, avrei potuto votare per esempio, oppure entrare in politica nel paesino dove vivo.

A proposito di politica, ti senti rappresentata nella situazione politica attuale?

No, non mi sento assolutamente rappresentata, perché non si parla quasi mai di noi, almeno in senso positivo. Si parla di immigrazione, clandestini, rifugiati, ma si fa fatica a parlare di seconde generazioni. L’ultima volta che era stato fatto un discorso sensato era durante il governo Renzi, quando si voleva modificare la legge sulla cittadinanza, tenendo in considerazione finalmente chi è cresciuto in Italia e ha completato almeno un ciclo scolastico. Quella è stata l’unica volta che si è parlato di noi, mentre ora o non si parla affatto di noi, o veniamo inglobati in discorsi che non ci riguardano. Devo dire però che nonostante le negligenze della politica, dall’altra parte ci sono tanti ragazzi di seconda generazione molto attivi nel sociale che tentano di far sentire la propria voce.

Inoltre, trovo la politica italiana vecchia, anacronistica, per niente concentrata sul presente né tanto meno lungimirante. Reputo questo atteggiamento chiuso, miope e irresponsabile. Per esempio, non riesco a concepire come un ragazzo nato o cresciuto in Italia e formatosi attraverso la scuola italiana, ma con problemi economici, non abbia diritto di diventare cittadino in egual maniera di chi ha lavorato qui per dieci anni. Come se, dopo tutti gli anni e i fondi pubblici investiti nella nostra formazione, di fatto lo stato ci comunicasse che i nostri studi non sono requisiti sufficienti per essere ritenuti cittadini a tutti gli effetti. Per essere tali infatti è più importante il requisito economico della formazione italiana.

Come auspichi che cambi l’atteggiamento della politica verso le seconde generazioni?

Spero che cambi il clima negativo che c’è attorno all’argomento immigrazione in generale, iniziato a mio parere col decreto Minniti-Orlando (disposizioni per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e misure per il contrasto dell’immigrazione illegale, ndr) e con gli ultimi decreti sulla sicurezza del governo Conte. Spero che si possa finalmente parlare di immigrazione in maniera obiettiva, trattandosi di un tema molto importante per l’Italia come paese di primo approdo.

Per quanto riguarda le seconde generazioni, mi auguro che si smetta di inglobarci in argomenti che non ci riguardano e si inizi a prenderci in considerazione per quello che siamo, senza fingere che non esistiamo, perché siamo studenti, lavoratori, padri/madri di famiglia, facciamo parte del tessuto sociale e siamo riconosciuti come italiani dalle persone che ci circondano. Quindi spero che ci sia il coraggio, fino all’ultimo, di dare finalmente una svolta a questa situazione per riconoscere una parte del paese che è già di fatto italiana ma che aspetta un segnale coraggioso da parte della politica. Auspico questo per tutti i ragazzi cresciuti in Italia senza cittadinanza.

In concreto, spero che si riprenda in mano il discorso dello ius culturae. Penso che sia una delle riforme migliori possibili rispetto alla problematica dei ragazzi che non hanno il requisito economico e avrebbe potuto risolvere un grande problema. Perché di fatto tanti ragazzi che studiano diventeranno dentisti, medici, avvocati ecc., e dovranno lavorare in Italia senza essere cittadini. Trovo che sia una vera ingiustizia.

Nebat, e al di là dei discorsi politici, tu dove senti le tue radici? Quali appartenenze senti?

Se per radici intendiamo dove sono nata, ovviamente sono etiope perché sono nata in Etiopia, così come sono cresciuta qui quindi tutte le cose che io conosco, i ragionamenti che faccio sono in base al posto in cui sono cresciuta, ossia l’Italia. Inoltre, sono contaminata da altri modi di pensare e di concepire, perché negli anni ho avuto amici di ogni parte del mondo con cui ho scambiato opinioni e percorsi. Più che radici io mi sento una foresta con tanti alberi, alcuni di questi sono italiani, altri etiopi, altri ancora misti.

Una cosa che non mi piace quando mi si pongono domande simili è che sembra che io non abbia il diritto di fare una critica all’Italia, dovrei dire che sono al 100% italiana o che mi piace tutto dell’Italia, perché altrimenti come seconda generazione mi viene ribadito che se non mi piace qualcosa posso tornarmene al mio paese. Come ci sono alcune cose che mi piacciono dell’Etiopia e altre che non mi piacciono, così penso di avere il diritto, come un italiano autoctono, di dire cosa mi piace e cosa no del paese in cui sono cresciuta. Io mi sento un mix incredibile di paesi, esperienze, culture, e ciò mi fa sentire ricca, non zoppa o caotica.

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Nata in Marocco e cresciuta in Italia, è laureata in Lingue e Letterature Straniere e in Relazioni Internazionali a Bologna. Dopo un tirocinio al Nuovo Diario Messaggero, si è riaccesa la passione per il giornalismo. Adora leggere e scrivere, e si diletta a comporre poesie e a fotografare qualsiasi cosa la incuriosisca.
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