Eldorado Argentina | La storia di Gina7 min read

16 Marzo 2020 Emigrazione -

Eldorado Argentina | La storia di Gina7 min read

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Tra fine Ottocento e inizio Novecento milioni di italiani sono emigrati all’estero, molti in Argentina. Prima che le loro storie finiscano per essere dimenticate, sono andato dall’altra parte dell’oceano e ne ho raccolte alcune. Qualcuno leggerà delle storie di vita intense, qualcuno ci troverà dei collegamenti alle migrazioni di oggi, altri ci troveranno delle differenze, altri ancora apprezzeranno i valori del nostro paese. Qui tutti gli articoli.

storia di gina
Gina Malossini

Chiudiamo il ciclo Eldorado Argentina con una storia che in realtà viene dall’Uruguay. È quella di Gina Malossini, 89 anni, che vive a Montevideo, capitale dell’Uruguay, e racconta la sua storia in una lettera scritta di suo pugno. Quando sono andato a trovarla, abbiamo lavorato insieme per due giorni per tradurre e sistemare la lettera. Gina piangeva spesso, ma al tempo stesso era molto felice di poter far arrivare la lettera ai suoi concittadini trentini e italiani.

Cari Lettori,

mi chiamo Gina Malossini, ho 89 anni e sono nata in un piccolo paese di montagna che si chiama Pranzo, in Provincia di Trento. La mia infanzia fu priva di tutto. Siccome la casa dei miei genitori era molto piccola, crebbi con mamma, zii e cugini nella casa dei nonni materni.

Mio padre lo conoscevo solo dalle fotografie: dovette emigrare molto prima di noi alla ricerca di nuovi orizzonti e di una vita migliore. Io avevo appena quattro mesi quando partì per l’Uruguay per raggiungere un amico di Pranzo che faceva il carpentiere. Ho ancora un ricordo impresso nella mente e cioè quando il suo amico morì, perché io ero lì a tenergli la mano. Fu una forma di ringraziamento per l’aiuto che aveva dato a mio padre.

Mia madre in casa aveva il ruolo di uomo e donna, faceva tutto.

Portava a pascolare le capre e le vacche, tagliava l’erba, raccoglieva i funghi e la legna per riscaldare, cucinava, piantava e raccoglieva grano e mais e faceva la farina, che era il nostro ingrediente principale: mangiavamo sempre polenta e a merenda qualche volta farina con latte. Quando potevamo permetterci la carne, che era molto cara, era solo per gli uomini perché loro lavoravano: i bambini e le donne non la dovevano mangiare.

Non toccai mai giocattoli, ma che dico: nemmeno li vidi. Una sola cosa avevo sempre con me, una bambola di pezza fatta da mia madre. Il giorno che partimmo però mia nonna, che non voleva che ce ne andassimo, mi fermò, mi prese la bambola e mi disse: «La bambola resta qui aspettando che tu ritorni». Non vidi mai più né la nonna né la bambola.

Ero al terzo anno di scuola quando partimmo e a Pranzo dovetti salutare i miei amici. Le uniche occasioni di svago nella mia infanzia le ebbi con loro quando giocavamo a “ce l’hai”, o quando correvamo e cantavamo e giocavamo coi bottoni a “testa o dorso”.

Molte volte nei giorni di pioggia i nostri genitori ci mandavano nei campi a raccogliere le lumache e chi ne raccoglieva di più vinceva un premio. Mi ricordo che quando tiravano fuori le piccole corna, noi le colpivamo con un bastone e loro le abbassavano rapidamente. Mia madre e un’altra signora le cucinavano, era un alimento che piaceva a tutti ma a me no perché mi dava il vomito vedere come le pulivano, bollivano, poi come con la forchetta toglievano loro gli occhi, le corna, la lingua e infine schiacciavano l’intestino.

Il momento più duro arrivò con la Seconda guerra mondiale. Mio padre da Montevideo, la capitale dell’Uruguay, pensava a che cosa fare: se fosse tornato gli sarebbe toccato il fronte, quindi decise di trasferirci da lui ma non aveva soldi, era agricoltore e lavorava in un terreno dove gli davano solo da mangiare e a volte un paio di scarpe, però mai soldi. La situazione era un’emergenza perché Mussolini voleva chiudere le frontiere, così che gli italiani sembrava che non avrebbero più potuto lasciare il paese per migrare. Allora papà parlò con un amico carpentiere che aveva un bar in piazza Indipendenza, la piazza principale di Montevideo e lui lo aiutò con i soldi.

L’8 aprile del 1938 mamma mi fece fare la prima comunione con il parroco Don Eusebio Corradi: se fosse successo qualcosa sulla barca e fossi morta, almeno ero battezzata e sarei andata in Paradiso. Ce ne andammo il primo maggio dello stesso anno. Viaggiammo tre giorni in treno perché sbagliammo strada e finimmo a Trieste invece che a Genova, dove riuscimmo a prendere la barca e arrivammo a Montevideo il 27 maggio a mezzanotte.

La traversata durò ventiquattro giorni e facemmo vari scali. Ricordo che passammo per lo Stretto di Gibilterra di notte perché era pericoloso ed era meglio che la gente dormisse e non si interessasse di nulla. Fecero anche una festa molto grande dove travestirono un uomo da diavolo e fecero finta che avesse due figli, una di loro ero io e mi dette il nome di un pesce che non ricordo. Partecipammo anche a una prova di salvataggio: prima si dovevano salvare i bambini e le donne, io fui salvata da un marinaio che mi prese da sotto il braccio.

Una mattina arrivammo in Brasile e quel giorno caricarono sulla barca cesti di banane. Era la prima volta in vita mia che le vedevo e non volli mangiarle perché non le conoscevo.

Capimmo che stavamo per arrivare quando scorgemmo all’orizzonte delle luci molto piccole e tutti cominciarono a gridare “Mon-te-vi-deo”, ad applaudire, cantare e scoppiare in pianti di allegria. Anche mia madre piangeva, credo che pensasse a quello che aveva lasciato in Italia e a quello che avrebbe dovuto vivere in Uruguay. Tutto era un’incognita, povera, aveva solo ventisette anni e pure io a vederla piangere piangevo.

Prima di scendere al porto ci fecero dei controlli sanitari sulla nave perché capitava frequente che malati di difterite o tubercolosi contaminassero il paese. Terminati i controlli proseguimmo fino al porto e trovammo mio padre. Io non capivo niente, perché adesso all’improvviso avevo anche un papà.

Gina Malossini
Gina Malossini al circolo trentino di Montevideo

Quando iniziammo a vivere tutti insieme mi sembrava che dalla miseria fossimo approdati alla doppia miseria. Siccome in casa non ci stavamo, mi mandarono in un convento chiamato Clara Jackson e, siccome non sapevo lo spagnolo, a scuola mi fecero iniziare dal primo anno così che ero la più grande di tutti.

Iniziò un vero e proprio inferno. Io timida, vergognosa, non parlavo con nessuno, la maestra mi parlava e poi ripeteva due o tre volte ma io non capivo. Piangevo. Ero sola. Non c’era mamma, non c’era papà, non c’era nemmeno la mia bambola di pezza e avevo tantissima nostalgia. In classe mi deridevano e nonostante fossi più grande non sapevo difendermi. In coro mi cantavano “Mu-so-li-ni” perché il mio cognome era simile e anche la maestra se la rideva.

Da quel momento sono passati 80 anni e anche oggi a ricordare questi passaggi della mia vita mi viene da piangere. Ricordo ogni dettaglio come fosse ieri. Oggi quando vedo la bandiera italiana o sento qualcuno parlare italiano, anche se io non lo parlo bene, mi viene la pelle d’oca.

Ho la fortuna di aver lavorato per molti anni e quindi di vivere, oggi, con una buona pensione. Ma a volte mi fermo e mi chiedo: «Cosa me ne faccio di quei soldi?». Sapete che cosa ne ho fatto? Viaggiare oggi non posso più, ora con tristezza devo dire «Ciao Italia, addio». Un po’ ne ho spesi per una psicologa perché mi aiutasse ad affrontare con più forza questa vita difficile.

Una cosa rimprovero a mio padre: di essersene andato, di aver preso quella maledetta barca per l’Uruguay. Però poi mi fermo e rifletto, perché non è colpa dei miei genitori se vivemmo tutto questo, anzi furono vittime pure loro. Sapete di chi fu colpa? Fu colpa delle guerre che misero in ginocchio il nostro paese, fu colpa dell’egoismo dei politici che ci costrinsero a fuggire, fu colpa di quegli anni così duri e mi auguro con tutto il cuore che nessuno di voi debba tornare a viverli.

Passai una vita con il desiderio di tornare indietro alla mia Italia, perché il mio posto del mondo ho sempre pensato che fosse lì. Ma in realtà a pensarci bene non so se mi sentirei davvero a casa, in questo momento. E allora mi chiedo: dov’è casa mia? La verità è che non lo so.

Gina Malossini

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Nordico con le radici nel Sud, studia critica letteraria a Trento, insegna tedesco e italiano in Alto Adige e scrive per alcuni giornali locali. Ha lavorato per alcuni anni con persone di strada e migranti e vorrebbe scrivere di professione, perché pensa che siano le storie a dare senso al mondo. Il sogno? L'Africa.
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