Sport e razzismo | Le proteste di ieri e di oggi degli atleti afroamericani10 min read

15 Giugno 2020 Politica Società -

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Sociologo

Sport e razzismo | Le proteste di ieri e di oggi degli atleti afroamericani10 min read

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Nei giorni in cui divampano le proteste negli Stati Uniti e in tutto il mondo per l’uccisione di George Floyd da parte di un agente di polizia, il gesto di genuflettersi su un ginocchio (kneeling) è diventato il simbolo della lotta al razzismo e alle brutalità dalle forze dell’ordine nei confronti della comunità afroamericana.

Il primo a compiere quest’azione è stato uno sportivo, Colin Kaepernick, giocatore di football americano della NFL, quarterback dei San Francisco 49ers, che il 26 agosto del 2016, in un’amichevole estiva, durante l’esecuzione dell’inno nazionale si piegò su un ginocchio, invece di stare in piedi, come il protocollo richiede.

I media non prestarono inizialmente particolare attenzione a questo gesto simbolico, che però Kaepernick ripeté con il compagno di squadra Eric Reid il 12 settembre 2016, questa volta in diretta televisiva durante una partita ufficiale.

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Colin Kaepernick e Eric Reid, 12 settembre 2016 – Foto di Marcio Jose Sanchez/Associated Press

A quel punto, l’opinione pubblica cominciò a domandarsi la ragione e fu lo stesso Kaepernick a spiegarne la motivazione:

Non starò in piedi durante l’inno per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca.

Questo gesto, peraltro avviato sotto la presidenza Obama, è stato duramente criticato da Trump, che lo ritenne altamente immorale e antipatriottico. Trump ha anche invitato il giocatore a cambiare paese e i fan a boicottare i giocatori che lo avessero imitato. Addirittura – prima volta nella storia – nel 2018 il presidente ha annullato l’invito alla Casa Bianca solitamente riservato ai vincitori del Super Bowl, perché alcuni giocatori della squadra vincitrice avevano iniziato la stessa protesta.

In questi giorni tuttavia, anche lo stesso commissario della NFL Roger Goodell, che aveva vietato questo tipo di gesti nelle partite di football, ha ammesso in un’intervista di aver sbagliato: “Senza i giocatori neri non ci sarebbe la National Football League, e le proteste in tutto il paese sono emblematiche dei secoli di silenzio, disuguaglianza e oppressione di giocatori, allenatori, tifosi e staff neri”.

Sport e razzismo: le azioni politiche degli atleti afroamericani

Quanto successo con il gesto di Kaepernick non è una novità. Soprattutto negli Stati Uniti, sport e razzismo hanno sempre avuto un legame molto stretto. Lo sport ha sempre rappresentato per gli atleti afroamericani sia un’occasione per emergere da una condizione di marginalità, sia una straordinaria cassa di risonanza per portare all’attenzione del pubblico mondiale questioni legate al razzismo.

Un primo clamoroso episodio avvenne nell’agosto del 1936. Per la prima volta nella storia un atleta nero occupa la ribalta internazionale vincendo 4 medaglie d’oro nell’atletica alle Olimpiadi di Berlino, sotto gli occhi di Hitler. Il suo nome è Jesse Owens, e le sue imprese sportive furono uno schiaffo morale per il regime nazista, impegnato nella fervida propaganda della superiorità della razza ariana.

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Jesse Owens a Berlino sul podio per la premiazione del salto in lungo

Eppure, l’impresa di Owens fu accolta molto tiepidamente anche negli Stati Uniti, la sua patria. Il presidente F. D. Roosevelt, impegnato nella corsa alle elezioni per la ricandidatura, decise di non invitare Owens alla Casa Bianca per il giusto omaggio, per paura di offendere gli elettori degli Stati segregazionisti del sud.

Altro famosissimo gesto di protesta in ambiente sportivo è il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. I due velocisti statunitensi, vincitori rispettivamente della medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri, durante l’esecuzione dell’inno nazionale abbassarono la testa e alzarono al cielo un pugno chiuso con guanto nero, appunto in segno di protesta e di vicinanza al movimento dei diritti civili degli afroamericani.

sport e razzismo
La famosissima foto di John Dominis

Smith e Carlos furono immediatamente espulsi dal villaggio olimpico con l’accusa di aver fatto una manifestazione politica e sospesi dalla squadra americana. Hanno sempre negato di far parte dell’organizzazione delle Pantere Nere, spiegando invece che si era trattata di una scelta personale per portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il tema del razzismo.

Eravamo all’apice della lotta dei movimenti afroamericani dei diritti civili; solo sei mesi prima era stato ucciso Martin Luther King, e la guerra in Vietnam si consumava con grande sacrificio di vite umane afroamericane: nel 1967, il 64% dei neri eleggibili per il Vietnam veniva sorteggiato per andare al fronte, mentre tra i ragazzi bianchi – che spesso rinviavano la leva per motivi di studio – questa percentuale scendeva al 31%.

In questo contesto, clamorosa per l’epoca fu anche la decisione dello sportivo nero più famoso del pianeta insieme a Pelè: il pugile Muhammed Ali rifiutò di arruolarsi per il Vietnam, mettendo in evidenza il tema del razzismo: “La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre”.

mohammed ali vietnam

Ancora una volta la risposta delle autorità fu molto dura: Alì fu arrestato per renitenza alla leva, privato del titolo di Campione del Mondo dei pesi massimi di boxe e della licenza per combattere sul ring. Solo nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti decise con verdetto unanime che l’arruolamento poteva essere rifiutato per motivi religiosi e di obiezione di coscienza.

Il caso NBA: dal Dream Team al razzismo

In questo scenario la NBA, la lega di basket più famosa al mondo e seguita da appassionati di tutto il pianeta, è sempre sembrata meno toccata da questioni razziali, nonostante la risonanza mondiale acquisita negli ultimi decenni e il fatto che i suoi campioni – quasi tutti neri – siano delle superstar globali.

In questo senso nel 1992 ci fu un passaggio storico. Alcuni mesi prima, il 3 marzo 1991, un videoamatore riprese il pestaggio di un afroamericano, Rodney King, da parte della polizia di Los Angeles.

Un mese dopo la squadra di basket dei Chicago Bulls, vincitrice l’anno precedente del titolo di basket della NBA, fu invitata come da tradizione alla Casa Bianca, e il giocatore nero Craig Hodges, unico a non indossare giacca e cravatta ma un Dhasiki, abito maschile tipico dell’Africa occidentale, consegnò una lettera al presidente Bush in cui chiedeva di migliorare le condizioni di vita dei neri, in particolare scrisse:

Come discendente di schiavi, sento la responsabilità di parlare per conto di quelli che non riescono a farsi sentire. Negli Stati Uniti c’è una parte della popolazione che è una specie in via di estinzione. Sono i giovani maschi neri. I quartieri neri sono in uno stato d’emergenza a causa della violenza, le droghe e la mancanza di lavoro.

La successiva assoluzione degli agenti coinvolti nell’aggressione a Rodney King scatenò le proteste della comunità afroamericana, che tra la fine di aprile e il maggio del 1992 diedero vita alla rivolta di Los Angeles. Bush non esitò a inviare l’esercito per contrastare i manifestanti: il bilancio finale fu di 53 morti, duemila feriti e 12 mila arresti.

Proprio in quell’anno la NBA faceva il salto definitivo da fenomeno nazionale a prodotto globale: alle Olimpiadi di Barcellona del 1992, gli Stati Uniti schierarono per la prima volta una squadra composta da atleti professionisti, che i media ribattezzarono il Dream Team. 8 giocatori su 12 di quella squadra erano afroamericani.

Come afferma Obama nel documentario The Last Dance, quello fu un momento storico, in cui l’NBA divenne un “marchio di fabbrica della cultura urbana americana” nel mondo.

Eppure anche l’NBA, per certi versi isola felice per gli afroamericani (ingaggi miliardari, fama planetaria, un campionato composto per il 75% da atleti neri, veri dominatori del gioco), non è stata esente nel passato molto recente da gravi episodi di razzismo; ne citiamo due per tutti.

Il primo accade il 25 aprile 2014. Il presidente della squadra dei Los Angeles Clippers, Donald Sterling, viene intercettato al telefono mentre ordina alla sua compagna, co-proprietaria della squadra, di non invitare più ex-cestisti afroamericani ad assistere alle partite a bordocampo, perché non era una bella immagine da vedersi.

Il giorno seguente, i giocatori della squadra prima tentano di boicottare la partita in programma, poi decidono di giocarla ma in segno di protesta indossano le magliette al contrario per non mostrare il logo del team. Quattro giorni dopo la diffusione della telefonata, il commissario della NBA multa per 2,5 milioni di dollari Sterling, espellendolo a vita dalla Lega e obbligandolo a vendere la squadra.

Il secondo eclatante episodio risale al marzo 2019, durante il match tra Utah Jazz e Oklahoma Thunder, quando il cestita Russell Westbrook subì degli insulti razzisti da uno spettatore in prima fila, che gli urlò la seguente frase: “Mettiti inginocchiato come sei abituato a fare!”, con l’intento provocatorio di richiamare la condizione di povertà e schiavitù di molti afroamericani.

westbrook razzismo
Un fotogramma del momento in cui Westbrook riceve insulti razzisti

Anche in questo caso la risposta istituzionale fu durissima: la società degli Utah Jazz bandì a vita il proprio tifoso dal poter entrare nel palasport per vedere le partite.

Sport e razzismo: la forza degli atleti

Oggi gli atleti afroamericani rappresentano a tutti gli effetti il “carburante” dello sport americano: alcuni commentatori hanno rilevato che, se volessero, potrebbero mettere fine agli sport più seguiti – e più redditizi – data la loro elevata presenza in termini numerici nei tre principali campionati professionisti di basket (NBA), baseball (MLB) e football americano (NFL).

In questi giorni la protesta seguita all’uccisione di George Floyd ha coinvolto anche loro. Kareem Abdul Jabbar, ex stella NBA dei Los Angeles Lakers, ha parlato esplicitamente del fatto che “gli atleti neri hanno sempre avuto un ruolo centrale nella lotta per i diritti civili. Guardate Jackie Robinson (interbase dei Dodgers, primo afroamericano a giocare nelle leghe bianche di baseball, ndr). Gli sportivi afroamericani hanno sempre lottato in prima linea. A volte con successo, altri sacrificando tutto. Ma continuiamo. Adesso improvvisamente la gente capisce il senso della protesta silenziosa di Kaepernick proprio contro la brutalità omicida della polizia. Vediamo se sapremo dare un senso al suo sacrificio”.

Oltre a Kaepernick, in questi giorni anche altri atleti afroamericani stanno sfruttando la propria popolarità per dare appoggio al movimento del Black Lives Matter. La schermista Ibtihaj Muhammad, in nazionale Usa alle Olimpiadi 2016, ha definito sui suoi social la supremazia bianca come “piaga che ancora flagella gli Stati Uniti”, denunciando anche il razzismo di un importante coach di scherma statunitense, che è stato licenziato.

Ibtihaj Muhammad
Ibtihaj Muhammad. Foto: US Embassy London

Coco Gauff, giovanissima campionessa del tennis mondiale, ha lanciato un forte appello durante un comizio nella sua città, affermando: “Non state in silenzio. Se scegliete di stare in silenzio, scegliete di stare con chi vi opprime. Ho sentito qualcuno dire nei giorni scorsi ‘non è un mio problema’. Allora voglio dirvi questo: se ascoltate la musica afroamericana, vi piace la cultura afroamericana e avete amici neri è anche la vostra lotta!”.

La stella NBA dei Los Angeles Lakers, LeBron James, ha invece spostato il tiro sulla possibilità di incidere nella prossima campagna elettorale, lanciando l’iniziativa “More than a Vote”, gruppo che riunisce diversi atleti e celebrità nere con l’obiettivo di aumentare la partecipazione elettorale dei cittadini afroamericani.

Vogliamo che la gente vada a votare, ma vogliamo anche farvi capire perché. Mostreremo come votare e cosa stanno facendo dall’altra parte per evitare che voi lo facciate.

Probabilmente nel prossimo futuro, data anche la loro forza contrattuale, non è da escludere che gli atleti afroamericani organizzeranno nuove forme di protesta – individuali e collettive – per scuotere ulteriormente le coscienze del popolo statunitense.

E in Europa? Pur non essendo così estrema come negli Stati Uniti, la questione razziale è ben presente anche nella società europea, e nel mondo dello sport. In diversi paesi europei, tra cui l’Italia, abbiamo assistito a molti episodi di razzismo contro i calciatori neri, ma anche contro altri sportivi. A questo punto sarà interessante vedere come reagirà il mondo dello sport e della politica, nonché la società, in Europa di fronte a gesti o proteste così altisonanti degli atleti neri.

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Nato a Trastevere, Roma, sociologo con un master in sistemi urbani multietnici, è studioso dei flussi migratori, ed è convinto che numeri e tabelle possano aiutare l'opinione pubblica a comprendere fenomeni complessi.
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