La situazione in Niger, un paese ad alta instabilità9 min read
Reading Time: 7 minutesIl Niger è un vasto paese situato nel cuore del Sahel. Il paese si situa al fondo della classifica mondiale in accordo con l’Indice di Sviluppo Umano (189esimo su 189 paesi). Negli ultimi anni, la situazione in Niger si è fatta più complicata; tra le altre cose, il paese ha affrontato un grande afflusso di rifugiati in fuga dai conflitti nella regione, provenienti in particolare dalla Nigeria e dal Mali. Ad aprile 2019, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) contava 221.671 rifugiati e 196.717 sfollati interni, principalmente a Diffa e Maradi.
Dal 2020 la situazione della sicurezza in Niger è ulteriormente peggiorata, in particolare nelle zone di confine con la Nigeria, il Burkina Faso e il Mali, dove gruppi armati hanno stabilito basi, perpetuando ripetuti attacchi contro le forze di sicurezza e civili. In seguito all’uccisione di sei cooperanti francesi della ONG ACTED e di due guide turistiche nigerine, dal 12 agosto 2020 il Ministero degli Affari Esteri francese ha dichiarato che tutto il Niger è zona rossa (i viaggi sono formalmente sconsigliati) ad eccezione della capitale Niamey che non è raccomandata a meno che non vi siano motivi imperativi (zona arancione).
Nel 2020 gli incidenti nel mondo legati alle ONG sono stati più di 1.500, i rapimenti 215, gli operatori che hanno subito lesioni 150 e i morti 75 (INSO key data dashboard).
Per conoscere più da vicino la situazione in Niger, paese che in Europa si sente nominare solo per il suo essere crocevia delle rotte che dall’Africa occidentale e centrale portano i migranti in Libia, abbiamo raggiunto Marta Carminati, veterinaria che da più di un anno è basata in Niger dove, come coordinatrice – paese per la Fondazione italiana ACRA, segue un progetto di rafforzamento e valorizzazione delle filiere locali del latte e del miele.
Povertà e analfabetismo: alle radici dell’instabilità in Niger
L’aggravarsi della situazione in Niger è data da un insieme di fattori, ci dice Marta Carminati: “da un lato abbiamo un alto tasso di povertà con un reddito nazionale lordo pro capite che si attesta a 912 USD ed è tra i più bassi del mondo, dall’altro abbiamo l’assenza di istruzione e di alfabetizzazione della popolazione”.
Il tasso di alfabetizzazione degli adulti nel paese è del 28,7%, con significative variazioni per genere ed età: per i giovani uomini (15-24 anni) è del 52,4% mentre per le donne è del 23,2%. “Questi due fattori portano a una sostanziale insicurezza economica dovuta alla scarsità di posti di lavoro”, ci spiega Marta. “Questo contesto socio economico, che offre pochissime opportunità lavorative e formative per i giovani, fa sì che i preesistenti nuclei terroristici di tutta la regione vengano alimentati da questa situazione di insicurezza globale”.
In Niger, infatti, già negli anni novanta si parlava di terrorismo, a volte legato ad etnie specifiche. Un esempio in questo senso, ma non il solo, sono i tuareg – popolazione nomade presente nel deserto del Sahara – per secoli vissuti in queste aree, esercitando l’allevamento, il commercio transahariano e che a volte sono anche stati responsabili di razzie.
In seguito alla decolonizzazione e la creazione di nazioni moderne (Niger, Mali, Algeria, Libia e Burkina Faso), con la conseguente creazione di frontiere e restrizioni nella circolazione, è diventato molto difficile per i Tuareg esercitare il modo di vita tradizionale basato sul nomadismo. L’attrito con i governi al potere sfociò, negli anni novanta, in aperti scontri tra tuareg e i governi di Mali e Niger, nonché lo sfruttamento delle conoscenze del deserto da parte dei Tuareg per favorire i traffici di droga e migranti.
Il ruolo sociale del terrorismo in Niger
“In generale”, continua Marta, “l’assenza di un’economia solida nel paese favorisce l’instabilità dei nuclei familiari, che trovano nelle cellule terroristiche fonti di sostentamento economico come la distribuzione di beni di prima necessità, la possibilità di avere lavoro attraverso l’arruolamento nelle milizie, l’offerta educativa gratuita e accessibile attraverso le reti di imam radicali (che portano all’acutizzarsi del fenomeno)”.
Sono state circa 4.000 le persone uccise nel corso del 2019 tra Niger, Burkina Faso e Mali (contro le 770 nel 2016), a causa della violenza jihadista e dei conflitti etnici provocati dagli islamisti (Nazioni Unite).
Per chi decide di arruolarsi o fiancheggiare i terroristi, è previsto un contributo monetario, anche a sostegno della famiglia di origine, che può arrivare fino a 10.000 dollari. “Tale processo non è sempre volontario da parte della vittima ma è spesso indotto con la forza; ne è la prova l’attentato del 2 gennaio 2021 in due villaggi della regione di Tillabéry che ha causato 105 vittime (73 a Tchombangou e 32 a Zaroumadareye) più di 75 feriti e circa 10.000 sfollati interni che hanno trovato rifugio nel villaggio di Mangaize presso famiglie che già vivono in condizioni precarie”.
Questo vero e proprio sistema assistenzialista organizzato delle organizzazioni terroristiche è finanziato dalla tassazione diretta delle attività lavorative (allevamento, agricoltura, pesca, commercio), dal controllo delle risorse naturali (pascoli e fonti d’acqua) o dei meccanismi di accesso ad esse e dalla cooperazione con i network di trafficanti di droga, armi ed esseri umani. Un sistema che ha un impatto nefasto sulla situazione in Niger.
“Le cellule terroristiche si annidano sempre più ad esempio tra la vegetazione del Parco W, una riserva importante per la fauna e la flora di questa regione”, dice Marta. “Attorno a questo parco sono presenti dei villaggi che beneficiano del miele prodotto grazie alle essenze vegetali tipiche dell’area protetta”.
Questi stessi villaggi sono i primi però ad essere attaccati vista la contiguità con le aree di protezione dei terroristi e della piccola criminalità che vi ruota attorno. Non mancano inoltre furti di bestiame, che costituisce la base dell’alimentazione della popolazione nigerina di queste aree come in tutto il Sahel.
L’impatto della pandemia sulla situazione in Niger
Già da gennaio 2020, a causa dell’aumento degli attacchi terroristici, il governo aveva imposto dei limiti al movimento delle persone. Per esempio, oltre alle zone rosse, era stato decretato il divieto di circolare con le motociclette (ancora in vigore). Tale interdizione ha causato ulteriori problemi alle piccole attività economiche e agli scambi che avvenivano tra i villaggi, quasi esclusivamente grazie ai mezzi su due ruote.
La presenza di questi fenomeni legati all’insicurezza della situazione in Niger rende quindi anche molto difficile il potersi spostare tra le aree di intervento degli operatori umanitari, riducendo ulteriormente le possibilità di sviluppo di un paese già così precario, come conferma Marta:
Questo rende difficile anche il nostro lavoro, in quanto non possiamo uscire dalla capitale Niamey e non riusciamo quindi a seguire le attività sul terreno come vorremmo.
La chiusura delle frontiere terrestri, oltre che far fronte all’emergenza Covid-19, era già stata messa in atto mesi prima per cercare di limitare il contrabbando di merci, i furti di bestiame e le lotte interne conseguenti che avvengono al passaggio delle transumanze. In particolare, il 19 agosto 2019 erano state chiuse le frontiere terrestri con la Nigeria per evitare il contrabbando di merci (soprattutto riso) e bestiame. Secondo una dichiarazione del ministero delle finanze nigerino (novembre 2019), la chiusura delle frontiere con la Nigeria ha ridotto le entrate doganali di circa 40 miliardi di franchi CFA (60 milioni di euro).
“Le restrizioni dovute al propagarsi del Covid hanno inasprito ulteriormente le condizioni già in atto, limitando dal 27 marzo 2020 il passaggio di persone e quindi di merci legate al commercio informale, tra le diverse regioni ma anche dalla capitale verso le regioni”, ci spiega Marta. “Questa situazione ha reso difficile l’approvvigionamento e quindi la disponibilità di materie prime alimentari, sempre più scarse, con un conseguente innalzamento dei prezzi”.
Ricordiamo infatti che il Niger ha vaste aree desertiche e che, durante la stagione secca (giugno-settembre) gli allevatori sono annualmente costretti a portare i propri animali al pascolo per garantirne la sopravvivenza; mancando i punti di transito (tra Niger, Mali, Burkina e Benin) anche gli animali hanno subito un duro colpo, con una maggiore insorgenza di patologie dovute alla scarsa alimentazione.
Una scarsa produzione animale, legata ad una già insufficiente sussistenza economica e all’impossibilità di coltivazioni foraggere estensive dovuta alla povertà dei terreni, non fanno altro quindi che alimentare la situazione di incertezza e disperazione in cui si trova questa popolazione. In Niger, infatti, i settori di produzione agro-silvo-pastorale rappresentano la principale fonte di attività economica e impiegano più dell’80% della popolazione attiva.
Dal 1 agosto 2020 sono state riaperte le frontiere aeree mentre restano ancora ufficialmente chiuse quelle terrestri con i paesi confinanti. Ci dice Marta: “le misure di contenimento e la chiusura di attività e di alcune imprese hanno provocato sia la perdita di posti di lavoro che la diminuzione dei consumi: questo è tanto più importante in quanto molti nigerini lavorano nel settore informale e hanno beneficiato di scarsi aiuti per mitigare la loro perdita di reddito”.
Come nel resto del mondo, le misure di contenimento della pandemia di Covid-19 hanno avuto un impatto negativo sull’economia del Niger e hanno portato un brusco stop a tre anni di crescita sostenuta. Mentre i tassi di crescita economica registrati nel 2019 erano del 5,8%, grazie alle buone prestazioni dei settori dei servizi, estrattivo e industriale e a una buona stagione agricola, secondo l’ultima analisi economica della Banca Mondiale, la crescita è scesa all’1% nel 2020 e, per la prima volta da anni, è salita l’inflazione al 4,5%, superando la soglia del 3% fissata dall’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale. Il rischio di una congiuntura economica così sfavorevole è che si continuerà ad alimentare il circolo vizioso povertà-terrorismo.
Oltre alla fragilità economica e della sicurezza, il Niger sta attraversando in questo inizio 2021 anche una crisi politica. Il 21 febbraio sono stati comunicati risultati provvisori del secondo turno delle elezioni presidenziali: Mohamed Bazoum, del partito di governo, è stato dichiarato vincitore delle elezioni contro il candidato dell’opposizione Mahamane Ousmane. Quest’ultimo però ha contestato i risultati e si è dichiarato vincitore dello scrutino. Dal 23 febbraio sono scoppiate nella capitale Niamey e in diverse altre città molte manifestazioni di protesta e dal 24 febbraio l’accesso a internet è stato interrotto in tutto il paese (nonostante le autorità e le compagnie di telecomunicazioni non abbiano comunicato pubblicamente l’interruzione dei servizi Internet).
All’indomani delle manifestazioni, più di 470 persone tra oppositori e sostenitori sono state arrestate e il Ministero della Sicurezza Pubblica ha dichiarato 2 morti. Il 4 marzo Amnesty International ha chiesto al governo di aprire un’inchiesta sulle due morti, rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutte le persone sottoposte ad arresto arbitrario e ripristinare l’accesso a Internet.
Questa ulteriore crisi politica, che si inserisce in un contesto già fragile e instabile, non può che peggiorare l’equilibrio geopolitico del paese.