La Grande Bellezza e Sacro Gra: il cinema italiano riprende a raccontare la città7 min read

20 Novembre 2013 Cultura -

La Grande Bellezza e Sacro Gra: il cinema italiano riprende a raccontare la città7 min read

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Sacro Gra

La Grande Bellezza e Sacro Gra sono due pellicole uscite a distanza di qualche mese l’una dall’altra e curiosamente hanno lo stesso tema: Roma.

I due film, infatti, pur appartenendo a generi totalmente diversi, hanno raccontato i particolari, gli odori, i sapori, il clima e soprattutto l’umanità che si muove all’interno di uno spazio urbano.

Il confronto tra i due lavori è d’obbligo e vale la pena soffermarsi sugli aspetti più rilevanti delle due pellicole.

Intanto, può essere d’aiuto in questa analisi una frase del regista de La Grande Bellezza, Paolo Sorrentino. Durante il programma televisivo Che Tempo che fa condotto da Fabio Fazio, Sorrentino dichiarò di non aver voluto dipingere un quadro troppo realistico di Roma, anzi di aver voluto immaginare in modo a volte fantastico e onirico la città.

E il film si apre proprio con una scena sensazionalista: un turista giapponese muore folgorato per la troppa emozione e per il forte e assordante stupore scaturito dalla vista di Roma dal terrazzo del Gianicolo. Il film di Sorrentino si snoda così tra sogno e realtà, tra stupendi scorci notturni e albeggianti del centro storico di Roma e voli di fenicotteri.

Una città decadente così come decadenti sono i suoi personaggi: intellettuali da salotto si mischiano a giovani attrici che cercano ribalta; nobili decaduti intrecciano le loro serate estive con potenti prelati preoccupati più dei gusti e delle prelibatezze del palato che della salvezza e della cura dell’anima.

Un’umanità variegata che si muove nel nulla, nella totale indifferenza verso l’altro. Un’aristocrazia intellettuale priva di qualsiasi aderenza con la realtà. Con La Grande Bellezza sembra quasi di rileggere Il giorno di Giuseppe Parini: l’immobile nobiltà italiana di fine settecento capace solo di pensare all’ozio e al soddisfacimento dei propri vizi somiglia terribilmente all’intellighenzia da salotto romana.

Quell’intellighenzia che è tutt’altro che irreale, anzi è parte di un sistema economico e politico e trae origini dagli anni ’60, dal boom economico e dalle notti della dolce vita dei caffè e dei locali di via Veneto. Roma, per vocazione e contingenza, più di altre città ha accolto questo tipo di intellettualismo aristocratico spesso intrecciato con la politica e gli affari, capace di creare un gioco di potere molto ramificato e influente nei palazzi della capitale.

In mezzo a tutto questo scenario si muove Jep Gambardella, il vero protagonista oltre a Roma del film di Sorrentino. Jep è un giornalista di costume e scrittore intrappolato nella mondanità romana da più di quarant’anni. Conosciuto da tutti, da destra a sinistra, dalla nobiltà decaduta e dall’aristocrazia intellettuale, è un punto di riferimento delle serate e dei salotti romani. Jep ha una qualità in più rispetto agli altri: la sensibilità. Lo ammette lui stesso nelle prime battute del film e così riesce a guardare la società in cui è immerso con distacco e anche disprezzo. Lentamente nel film emerge una sua inquieta solitudine e un riconoscimento di un fallimento della società del nulla in cui vive.

Il suo tentativo di inversione di rotta inizia allo scoccare dei suoi sessantacinque anni, quando comincia a stancarsi di questa vita e, dopo l’ennesima notte passata a disquisire del nulla con la sua cerchia di adepti monchi della sua sensibilità, pronuncia una battuta tanto scontata quanto dirompente: “La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”.

Non ha soltanto albe e nottate da raccontare il regista di Sacro Gra, Gianfranco Rosi. Non ci sono intellettuali da salotto nel suo documentario. Non c’è neanche posto per la sensibilità di Jep Gambardella. La macchina da presa di Gianfranco Rosi si muove in un arco di tempo che copre tutta la giornata. Emerge ciò che sta fuori dal centro storico di Roma, quell’umanità sfiorata e attraversata dal Grande Raccordo Anulare.

Il regista porta lo spettatore fuori dalle bellezze architettoniche rinascimentali catapultandolo nella realtà periferica. I grandi palazzi di cemento che spuntano in mezzo alla campagna contrastano sia emotivamente che fisicamente con le architetture lussureggianti e barocche; le ambulanze che sfrecciano sugli stradoni notturni sempre un po’ viscidi per la pioggia e per l’umidità sono lontane anni luce dal senso di pace e tranquillità trasmesso dallo scorrere lento del Tevere all’alba; le vecchie prostitute che vivono in roulotte fatiscenti parcheggiate in grandi e anonime piazzole di sosta, le ballerine di lap-dance con le calze bucherellate che si muovono sopra il bancone di un “baraccio” di borgata non sarebbero mai ammesse ai festini dei vip.

E poi Gianfranco Rosi posa l’attenzione su un’umanità così quotidiana e nascosta da sembrare surreale e inventata: pescatori di anguille, finti nobili rozzi e trash, botanici per passione.

È una Roma popolare, viva e vivace. Ricca di umanità e non necessariamente squallida. È il volto nascosto di una città, di qualsiasi grande città. La parte nascosta a ogni turista, anche a quello più attento.

Le periferie di una metropoli sono un intreccio di strade e palazzi, umanità varia, difficoltà e necessità, ma anche riscatto sociale e buone pratiche. Bisogna viverle e così ha fatto il regista. Sacro Gra ha meritato, per essere realizzato, tre anni di riprese. Un’esplorazione continua, fatta di momenti inaspettati come la nevicata che paralizzò Roma e il GRA nel febbraio del 2012. Tre anni di riprese e non solo.

Gianfranco Rosi sceglie e seleziona i suoi personaggi senza la pretesa di fornire un’indagine sociologica. I suoi personaggi non sono rappresentativi di un’intera periferia romana e dire ciò sarebbe riduttivo e qualunquista. Essi sono semplicemente parte di un mondo variegato e pieno di sfaccettature.

Non possiamo pensare che una periferia sia fatta solo di prostitute anziane e falsi nobili trash, pescatori di anguille e ballerine di lap-dance. Allo stesso modo non possiamo pensare che le periferie siano soltanto luoghi squallidi dove regnano l’illegalità e la malavita. È interessante scoprire come proprio nei luoghi più remoti di una città si muovano esistenze e vite interessanti e originali tutt’altro che stereotipate.

La periferia è Cesare, l’anziano pescatore di anguille che ha addirittura un giovane aiutante asiatico e che rappresenta un mondo e un sistema economico e lavorativo, quello fluviale, di fatto già scomparso. La periferia è Marino, il botanico che lotta disperatamente per salvare le piante a ridosso del Grande raccordo dall’assalto dei parassiti. La periferia è la vita nei quartieri da cui difficilmente si esce e dove si rimane ingabbiati e intrappolati, così come intrappolati e ingabbiati sono gli intellettuali nei loro salotti.

A questo punto, in conclusione, sorgono alcune domande: sono così distanti i quartieri bene e la periferia di una città? E poi, cosa rappresenta veramente il bello? La vita romana descritta in modo a volte onirico e surreale da Paolo Sorrentino o la vita dei personaggi di periferia scelti da Gianfranco Rosi? Può essere bella una vita che si poggia su un delicato intreccio di inganni e buonismo, false amicizie, chiacchiericcio e perbenismo? O forse la bellezza risiede nella vita quotidiana di una periferia sicuramente problematica e disagiata?

Ognuno trovi la propria risposta. Ciò che emerge in modo straordinario da questi due film è la voglia di raccontare una città, le sue contraddizioni e i suoi intrighi, la sua magia e la sua quotidianità, le meraviglie di un centro storico e la quotidianità di una periferia. Quello che accomuna i due film, seppur appartenenti a due generi diversi, è la volontà di non fare un quadro troppo realista e sociologico di Roma.

Né Paolo Sorrentino né Gianfranco Rosi hanno preteso di analizzare in modo scientifico gli aspetti di una realtà. Hanno solo fotografato, ognuno a proprio modo, un’umanità variegata, uomini e donne apparentemente distanti gli uni dagli altri. Forse i due mondi non si incroceranno mai, ma chissà magari qualcuno un giorno vedrà passeggiare Jep Gambardella, stufo del suo mondo finto e autocelebrativo, tra gli stradoni viscidi e bagnati della periferia romana.

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Andrea Bevacqua insegna Lettere nei Centri per l'Educazione degli Adulti in provincia di Mantova. Attivista altermondista e pacifista, pratica forme di politica dal basso.
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