Rom in Italia | Dati, politiche e sfide per l’integrazione12 min read

29 Giugno 2020 Società -

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Rom in Italia | Dati, politiche e sfide per l’integrazione12 min read

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Quando si parla di rom in Italia, e non solo, bisogna purtroppo cominciare dai pregiudizi. Molte persone hanno in mente un’immagine ben precisa: campi fangosi, roulotte ammassate, mendicanti per le strade delle città. I più romantici, forse, penseranno a giostre illuminate nel buio della sera, danze gitane e vita all’aria aperta, mentre i più critici non esiteranno a parlare di furti e criminalità.

Su nessun gruppo sociale al mondo ci si sente liberi di generalizzare e giudicare come si fa con i rom. Eppure i popoli romaní (un insieme di popolazioni accomunate dall’uso della lingua romanes) costituiscono una realtà tutt’altro che omogenea. Sebbene vi siano elementi comuni importanti, quali la lingua, l’organizzazione familiare e determinate tradizioni culturali, queste popolazioni si sono nel tempo mescolate con le popolazioni dei territori nei quali si sono trovate a vivere, dando vita a sistemi culturali ibridi e dinamici.

rom in italia
@Massimo Ankor

Dal punto di vista storico, attraverso lo studio della lingua romanes gli studiosi hanno potuto stabilire una prima origine indiana dei popoli romaní. Dall’India Centrale, a partire dal 224 d.C., un primo gruppo di migranti iniziò a spostarsi verso occidente. A partire da allora, in seguito ad una lunga sosta in Persia (attuale Iran), vi sono state migrazioni e mescolamenti, perlopiù dettati da condizioni avverse (guerre, riduzione in schiavitù, persecuzioni).

Dal 1400 i rom iniziarono ad affacciarsi in Europa in modo consistente, a cominciare dai Balcani, e dal 1422 (anno in cui si registra la prima presenza documentata a Bologna) in Italia, dove si insediarono prevalentemente al centro e al sud. Gli insediamenti più antichi sul territorio italiano si trovano in Abruzzo, Calabria e Sicilia.

Che parole usare?

La complessità della questione è dimostrata dal fatto che non esiste una parola univoca per riferirsi all’insieme dei popoli romaní. L’unica a disposizione sembra essere zingari, ma è un termine imposto dalle società maggioritarie ed è oggi considerato offensivo e stigmatizzante.

La parola zingaro ha inoltre la sua origine in un fraintendimento. Come nel tedesco zigeuner, nello slavo tsigan, nello spagnolo gitano e nel romeno ţigano, la parola zingaro deriverebbe dal greco athiganos, che significa pagano. Il termine greco era originariamente usato per denominare una setta eretica a Bisanzio, e siccome le popolazioni romaní arrivate in Europa non erano cristiane, fu dato loro il nome di questa setta.

D’altra parte esiste un termine analogo e complementare a questo, che i rom usano per identificare coloro che sono estranei al loro mondo culturale, ed è la parola gagé. L’opposizione zingaro/gagé è il frutto di un modo di pensare che va per esclusione e inclusione, sebbene i due termini rappresentino in realtà i poli di un continuum.

Lasciando da parte i tentativi di ciascuno dei due poli di definire l’altro con termini essenzialmente negativi, rimangono validi gli etnonimi, ossia le parole con cui un popolo definisce sé stesso. Nel caso delle popolazioni romaní si fa riferimento a cinque termini, che corrispondono ad altrettanti gruppi, più o meno omogenei (all’interno di ciascun gruppo ci sono poi molti sottogruppi, ma non ci addentriamo).

Rom. La maggioranza di coloro che vengono chiamati zingari vive nell’Europa balcanica, è sedentaria e si autodefinisce con la parola rom, o con una delle sue varianti. Il termine è complesso, perché si riferisce sia a un gruppo che a una dimensione culturale propria di tutti i popoli romaní (come dimostra l’utilizzo comune dell’aggettivo romaní e dell’avverbio romanes). C’è infatti una omogeneità storica di fondo comune a tutti i gruppi, venuta meno solo in seguito alle migrazioni europee. È per questa ragione che, in assenza di un termine collettivo riconosciuto da tutti, utilizziamo il sostantivo rom in questo articolo in senso collettivo.

Sinti. Presenti soprattutto nelle regioni tedescofone, sono stati protagonisti di migrazioni verso la Francia e l’Italia del Nord, dove arrivarono in almeno due fasi successive: la prima nel corso dell’età moderna (in Piemonte e Lombardia) e la seconda tra Ottocento e Novecento (insediati al nord-est).

Romanićel. In Europa sono presenti solamente in Gran Bretagna e parlano un romanes basato sulla grammatica inglese. In passato sono stati protagonisti di migrazioni verso l’America del nord e l’Australia.

Kalé. Si trovano principalmente nella penisola iberica, nel Galles e in Finlandia. La parola, in romanes, significa “negri”, e potrebbe essere la traduzione del termine razzista con il quale venivano definiti dai gagé. I più noti kalé sono i gitani spagnoli.

Camminanti. Presenti soprattutto in Sicilia, vengono comunemente accorpati agli altri gruppi romaní. Non è però chiaro se ne condividano l’origine o meno: secondo alcune ipotesi sarebbero discendenti di schiavi di origine rom mescolati ad altre etnie, secondo un’altra ipotesi sarebbero dei discendenti dei sopravvissuti al terremoto del Val di Noto del 1693.

Quanti sono i rom in Italia?

In Italia sono presenti principalmente tre gruppi di cultura romaní: Rom, Sinti e Camminanti. È però molto difficile orientarsi nel cercare di capire le dimensioni e la composizione di questi gruppi. Esistono diverse fonti, ciascuna delle quali si occupa di aspetti parziali del fenomeno, da quello abitativo alla condizione della donna. Gli unici numeri relativi al totale della popolazione consistono in stime approssimative, non sostenute da analisi, studi e ricerche.

La presenza di Rom, Sinti e Camminanti in Italia è stimata in una forbice molto ampia e compresa tra le 120 mila e le 180 mila persone, che costituisce una delle percentuali più basse registrate nel continente europeo (basti pensare che in Romania vi sono circa 1 milione e 800 mila Rom, l’8% della popolazione).

Accanto a comunità di antico insediamento, composte da circa 70 mila persone con cittadinanza italiana, ci sono anche comunità originarie dell’Europa dell’Est, giunte in Italia in diversi momenti storici, ovvero a seguito delle due guerre mondiali, alla fine degli anni sessanta e dopo le guerre avvenute tra il 1991 e il 2000 (in particolare da Serbia, Kosovo e Montenegro), per un totale di circa 90 mila persone. Infine, vi sono le comunità di recente immigrazione, provenienti da Romania e (in minor misura) Bulgaria nel periodo pre e post allargamento dell’Unione Europea, il cui ammontare è difficilmente stimabile.

Rom in Italia e emergenza abitativa

rom in italia
Photo credit: Marcos.Zion on Visual Hunt / CC BY-SA

Secondo una mappatura dell’Associazione 21 luglio, sono circa 25 mila i rom e sinti che vivono in emergenza abitativa, ovvero in baraccopoli istituzionali, baraccopoli informali, micro insediamenti o centri di accoglienza. Si tratta di quella fetta di popolazione rom “ipervisibile”, spesso percepita come un problema o come un simbolo di marginalità.

Di queste 25 mila persone, secondo il rapporto, la maggior parte (15 mila) vive nelle 127 baraccopoli formali presenti in Italia, mentre 9.600 abitano nelle baraccopoli informali e nei micro insediamenti.

Per baraccopoli (o insediamenti) formali si intendono le strutture progettate, costruite e gestite dalle autorità pubbliche. Le baraccopoli informali e i micro insediamenti, nel linguaggio comune definiti “campi abusivi”, sono invece quelli sorti spontaneamente su aree pubbliche. Si tratta in ogni caso di soluzioni abitative su base monoetnica, e questo è uno dei fattori che perpetua la segregazione abitativa e sociale dei rom in Italia.

Come già avvenuto nell’anno precedente, si legge nel rapporto, nel corso del 2018 si è verificato un aumento numerico dei mega insediamenti informali dovuto principalmente al declassamento di insediamenti in passato riconosciuti come istituzionali. È il caso dei campi di Scampia (Napoli) e Giugliano (Napoli).

Tirando le somme, sono quindi meno di 25 mila i rom “ipervisibili” in Italia, ovvero coloro che vivono nei cosiddetti “campi rom” o “campi nomadi”. Stiamo parlando di un numero pari allo 0,04% della popolazione italiana.

Come può una così bassa incidenza essere percepita come un problema? Per capirlo occorre tener conto che gli insediamenti non sono distribuiti in modo omogeneo sul territorio nazionale. Le più grandi baraccopoli informali sono concentrate nella Regione Campania, mentre le aree urbane con il maggior numero di micro insediamenti informali sono la città di Roma (circa 300) e l’area metropolitana di Milano (circa 130). Roma è anche la città con il maggior numero di baraccopoli istituzionali (16).

In quelle zone è facile immaginare come il disagio e l’esasperazione, tanto delle persone in emergenza abitativa quanto degli altri abitanti, siano sentiti in modo urgente e forte rispetto ad altre zone in cui la presenza è minore.

La politica dei campi

Queste situazioni sono anche il risultato di precise strategie politiche. L’Italia, nell’ultimo ventennio, si è impegnata nella progettazione, costruzione e gestione di aree all’aperto su base etnica per le comunità rom piuttosto che puntare su altre soluzioni abitative fondate sul principio di inclusione. La segregazione e la situazione di emergenza abitativa in cui versano gli abitanti delle baraccopoli provocano ricadute a cascata nella mancata tutela degli altri diritti fondamentali e una sempre crescente marginalizzazione.

Sul destino dei campi rom, il dibattito politico si riaccende in modo periodico. È un tema che si presta bene a slogan e promesse elettorali. In questo ambito è importante distinguere tra il concetto di chiusura e quello di superamento dei campi: il primo comporta la cancellazione fisica (sgombero, demolizione, ecc.) del campo, ma non implica necessariamente un progetto di inclusione, né un miglioramento delle condizioni delle persone coinvolte.

La chiusura dei campi rom fine a se stessa rischia anzi di peggiorare le cose, aumentando la vulnerabilità socio-abitativa di una fascia di popolazione già di per sé fragile e spostando altrove il conflitto con la popolazione maggioritaria.

Il superamento, al contrario, richiede una programmazione di interventi finalizzati all’inclusione sociale, che coinvolga gli attori locali istituzionali e non, nel rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone coinvolte.

Zingari e gagé: un’integrazione impossibile?

La questione della relazione, spesso conflittuale, tra popolazioni romaní e il gruppo maggioritario di coloro che vivono nello stato, nella città, nel territorio dove i rom si insediano, è oggetto di numerose ricerche sociologiche e antropologiche, oltre che di continue e cicliche discussioni, in politica, sui media, al bar.

Il processo di integrazione tra popolazioni romaní e non romaní o, per dirla più brutalmente, tra zingari e gagé, è ostacolato da due fattori: da una parte la sistematica discriminazione e marginalizzazione dei rom da parte dei gruppi maggioritari, dall’altra la resistenza all’assimilazione culturale messa in atto dai rom stessi, in modo naturalmente diverso da gruppo a gruppo e da persona a persona.

L’assimilazione, d’altra parte, non va vista come un bene assoluto: essa prevede la rinuncia alla cultura di origine e un’adesione indiscriminata a quella maggioritaria. Diversamente, un’integrazione rispettosa delle differenze dovrebbe consentire di aderire alla cultura maggioritaria lasciando la possibilità di conservare elementi della propria cultura di origine.

Le responsabilità dei gagé sono innegabili ed evidenti, oltre che radicate in secoli di storia: guerre, deportazioni, riduzione in schiavitù. Nemmeno il genocidio da parte dei nazisti è bastato a mettere uno stop alla discriminazione verso i rom. Come per gli ebrei, lo sterminio degli zingari ha avuto le sue radici nella costruzione di stereotipi negativi, costruiti dai mezzi di informazione e proposti alle masse.

Il tema dei “discorsi d’odio” è ancora attuale e preoccupante: secondo il rapporto dell’Associazione 21 luglio esiste una connessione tra le politiche pubbliche discriminatorie e segregative e le frasi d’odio rivolte alle comunità rom e sinte che, soprattutto nei periodi di campagna elettorale, subiscono un’impennata sia in termini numerici che di intensità.

Meno battuto è invece il tema visto dalla prospettiva opposta. Che sia per la tendenza endogamica, per volontà di autoconservazione o per un meccanismo di autodifesa, è un fatto che i popoli romaní hanno messo in atto una resistenza all’assimilazione culturale. Tuttavia sarebbe un errore pensare che essi vivano in una situazione di totale separazione, mantenendosi uguali a se stessi nel tempo.

In questo senso l’antropologo Leonardo Piasere, che ha condotto diverse ricerche etnografiche tra i rom e autore del libro I rom d’Europa: una storia moderna*, parla di “ingegneria culturale”, intesa come la capacità di riconoscere, far propri, reinterpretare e rimaneggiare elementi culturali dei gagé. Si tratta di una strategia in base alla quale le diverse reti di famiglie, più o meno disperse, costruiscono la propria cultura selezionando questo o quel tratto dalle diverse culture dei gagé che incontrano. Una particolare strategia ingegneristica è quella che Piasere definisce “degagizzazione”:

Il mondo dei gagé è già un mondo costruito, creato, con il sistema di senso o con i sistemi di senso dei gagé. È qui che i rom devono instaurare la propria presenza, devono creare il loro mondo dotato di un proprio senso. Il proprio senso che è costruito facendo le cose romanes [al modo dei rom, ndr]. Come critici culturali, i rom insegnano che un altro mondo è possibile in questo mondo.

Sulla stessa linea d’onda, Piasere definisce i rom “signori delle sfasature”, evidenziando come per sfuggire alle persecuzioni, per praticare attività economiche che permettessero loro di vivere, essi abbiano raffinato l’arte di sfruttare le sfasature dei gagé.

L’esempio più evidente è forse la tendenza ad insediarsi lungo o a cavallo dei confini degli stati dei gagé, o ai confini tra città e campagna, “in quegli spazi momentaneamente sfuggiti all’opera dei gagé”. Questo concetto, molto attuale, può in parte spiegare la tendenza a cercare spazi marginali in cui vivere a modo proprio, spesso in contrasto con il sistema culturale e giuridico dominante.

Sarebbe facile concludere che se vogliono integrarsi i rom devono cambiare atteggiamento, e forse c’è qualcosa di vero. Occorre però tener presente la dinamica di potere, che in questo contesto è decisiva. L’integrazione è una partita con almeno due giocatori, e chi si trova in posizione di svantaggio tende a barricarsi in difesa. Finché l’unica prospettiva sarà una cieca assimilazione culturale, ci sarà ben poco che i rom potranno fare verso una migliore integrazione.

In altre parole, finché proseguiranno le politiche, gli atti e i discorsi di discriminazione e segregazione istituzionale, finché l’appartenenza al gruppo romaní continuerà ad essere un fattore di esclusione politica, economica e sociale, la responsabilità maggiore continuerà a ricadere su chi discrimina, segrega, esclude.

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Educatore professionale e formatore, ha lavorato in diversi ambiti del terzo settore. Nel suo lavoro mescola linguaggi e strumenti per creare occasioni di crescita personale attraverso esperienze condivise. Per Le Nius scrive di temi sociali e non profit.
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