Riforma della cooperazione allo sviluppo: si apre al profit5 min read

23 Aprile 2015 Cooperazione -

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Riforma della cooperazione allo sviluppo: si apre al profit5 min read

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riforma della cooperazione allo sviluppo

Il 1 agosto 2014, dopo quasi 30 anni di discussioni e tentativi mai riusciti, è stata approvata in Senato la riforma della cooperazione allo sviluppo. La nuova legge (125/2014) era assolutamente necessaria per aggiornare un settore regolamentato da una legge del 1987 (49/1987), nata in un panorama internazionale che nel frattempo è sostanzialmente mutato.

Cosa cambia dunque con la riforma della cooperazione allo sviluppo italiana? Al momento non possiamo avere risposte certe, occorre aspettare il regolamento attuativo della riforma (che era previsto entro marzo) ed i cambiamenti che ne conseguiranno. Tuttavia alcune innovazioni sono state introdotte e ad una prima analisi, emergono anche alcuni lati oscuri.

È questo l’oggetto della seconda uscita della rubrica Racconti di Cooperazione, curata dall’Associazione Mekané.

Riforma della cooperazione allo sviluppo: le principali novità

Innanzitutto il Ministero degli Affari Esteri (ex MAE), diventa il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI): “La cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la pace, … è parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia” (art 1). Come è giusto che sia, la politica estera tenderà sempre più verso un’attitudine cooperativa volta al riconoscimento dei principi di indipendenza e partenariato con i paesi terzi.

La riforma della cooperazione alla sviluppo istituisce inoltre il Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo, ente composto dai principali soggetti pubblici e privati interessati alla cooperazione internazionale allo sviluppo, tra in quali ci saranno anche gli enti profit. Il Consiglio nazionale diventerà una piattaforma di consultazione, rappresentando uno strumento di partecipazione e proposta per esprimere pareri sulle materie attinenti la cooperazione allo sviluppo.

L’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo invece viene istituita al fine di garantire la razionalizzazione della spesa nella gestione degli interventi di cooperazione allo sviluppo, sulla base dei criteri di efficacia, economicità, unitarietà e trasparenza. L’Agenzia è un ente di diritto pubblico sottoposto alla vigilanza del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Svolgerà i compiti di natura tecnica relativi alle fasi di individuazione, istruttoria, formulazione, valutazione, gestione e controllo dei programmi, delle iniziative e degli interventi di cooperazione.

Anche per quanto riguarda i soggetti finanziatori, i progetti di cooperazione e di aiuto pubblico la riforma della cooperazione allo sviluppo introduce delle novità. In generale nel nostro paese circa il 70% dell’aiuto pubblico allo sviluppo è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e riguarda la cooperazione multilaterale, mentre al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (Maeci), che si occupa di cooperazione bilaterale compresi i finanziamenti a dono, resta un 10-15%, il resto essendo gestito dalla Presidenza del Consiglio e da altri enti, fra cui le amministrazioni locali. Da questi fondi vengono dal MAECI i finanziamenti per i progetti promossi dalle Ong (che rappresentano quindi circa un decimo dell’aiuto pubblico allo sviluppo).

riforma della cooperazione allo sviluppoLa novità introdotta dalla riforma della cooperazione allo sviluppo riguarda il cambio di statuto per la Cassa depositi e prestiti (società per azioni controllata del Ministero dell’economia e delle Finanze che gestisce i risparmi postali degli italiani, in continuo aumento). D’ora in poi la Cassa Depositi e Prestiti assumerà il ruolo di istituzione finanziaria per la cooperazione. Infatti, oltre a supportare aziende e soggetti per investimenti destinati alla fornitura di servizi pubblici, la Cdp potrà sostenere la cooperazione internazionale, soggetti privati in settori di interesse generale, opere e reti di pubblica utilità e di investimenti finalizzati alla ricerca, allo sviluppo, all’innovazione, alla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, alla promozione del turismo, all’ambiente ed efficientamento energetico e alla green economy.

La domanda che sorge spontanea è se questo sarà un modo per sbloccare fondi e destinarli a progetti di sviluppo o se, al contrario, i fondi saranno veicolati al supporto di iniziative private di dubbio valore etico. Il nodo della nuova legge riguarda i nuovi soggetti profit e no profit che entreranno nella cooperazione. Chi sono questi soggetti e come utilizzeranno i fondi non è ancora chiaro.

Infine, la questione più interessante e, allo stesso tempo, ambigua è l’apertura all’intervento del settore profit nella cooperazione. Si tratta di un’innovazione in linea con in tempi: un cambio di passo che deve essere introdotto valorizzando l’esperienza consolidata delle organizzazioni non governative di cooperazione portando alla creazione di partenariati diversificati ma equi.

Tuttavia, i criteri e le modalità per la partecipazione del settore profit andranno stabiliti in modo molto chiaro per evitare il rischio di utilizzare la cooperazione per finalità improprie, quali scorciatoie per fare investimenti ed esternalizzare in altri paesi, investire in paesi dove la mano d’opera è disponibile a un costo molto più basso e/o un mezzo utilizzato dalle imprese private per ricevere finanziamenti.

Se ben monitorata la partecipazione del settore privato potrebbe portare innovazione e investimenti creando nuovi posti di lavoro ed esportando esperienza e buone pratiche in paesi terzi, che potrebbero trarre beneficio dall’apertura di nuove possibilità economiche. Tuttavia questa via potrebbe spianare la strada ad azioni e investimenti di dubbia eticità come il cosiddetto “aiuto legato”, cioè condizionato all’acquisto di beni o servizi dal donatore (pratica tra l’altro già largamente diffusa e istituzionalizzata), o la creazione di joint venture in paesi con economie forti dove l’impresa privata possa internazionalizzarsi senza preoccuparsi di creare lavoro.

Infine, dal testo della legge sembrerebbe che le Ong italiane vadano verso la perdita di autonomia nel proporre progetti di sviluppo, in quanto l’unica via per ricevere finanziamenti rimarrebbe quella di essere selezionate dall’Agenzia. Anche per rispondere a questa domanda bisognerà aspettare il decreto attuativo. Sicuramente di punti da chiarire ce ne sono ancora moltissimi.

Immagini | Eugenia Pisani

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Ha un Master in Economia dello Sviluppo e Cooperazione Internazionale ed è co-fondatrice di Mekané - ideas for development. Dal 2016 vive e lavora in Senegal dove si occupa di progettazione, gestione e valutazione di progetti di sviluppo.
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