Residenza fittizia o virtuale: diritti minimi per i senza dimora5 min read

23 Gennaio 2015 Politica Welfare -

Residenza fittizia o virtuale: diritti minimi per i senza dimora5 min read

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Residenza fittizia o virtuale
@zoriah

Della mia esperienza da immigrata, ricordo che presupposto per poter ottenere un regolare contratto di lavoro era il possesso di un conto corrente bancario e condizione per l’ottenimento del conto in banca era un indirizzo di residenza. Era possibile dimostrare la propria residenza tramite l’esibizione di bollette, tasse o contratto di affitto. Ci misi un attimo a capire che non ero in possesso di nulla di tutto ciò, in quanto luce e gas si ricaricavano tramite una tessera prepagata sulle cui ricevute non compariva alcun indirizzo, le tasse sulla casa erano intestate al padrone di casa e il contratto di affitto era redatto in italiano e depositato in Italia visto che il proprietario era italiano.

La mia fortuna quel giorno fu che al job center non mi fecero troppe domande, mi chiesero solo dove vivevo e con chi. Mi inventai che ero ospite da amici e che non pagavo l’affitto, ed in pochi giorni ebbi la mia bella letterina all’indirizzo di casa che mostrai orgogliosa ai funzionari della banca. Da quel giorno mi misi a cercare lavoro. Sarà perché sono italiana, perché ho un regolare passaporto o forse perché il mio inglese faceva così schifo da scoraggiare anche l’operatore nel continuare a fare domande, fatto sta che la cosa mi fece riflettere un bel po’ sul perché Londra fosse piena di giovanissimi senza tetto. Due anni dopo quella riflessione, mi ritrovo a cercare di dare risposte a giovani ragazzi immigrati, i quali non hanno un posto dove mangiare, dormire e lavarsi. Lì mi tornano alla mente i senza tetto londinesi.

Questi ragazzi sono per lo Stato italiano del tutto invisibili. Se i centri di accoglienza sono pieni, se il tuo nome non appare nelle liste per lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), se i dormitori non ci sono o non sono sufficienti, non importa che tu sia un richiedente asilo o protezione internazionale, la strada diventerà la tua casa.

E non c’è nulla che un qualsiasi operatore di una qualsiasi associazione possa fare per toglierti dalla miseria. Infatti, presupposto per un qualsiasi processo di integrazione per uno straniero è rappresentato dall’iscrizione anagrafica. Quest’ultima, oltre ad accertare la presenza di una persona sul territorio di un determinato comune, garantisce alla persona tutta una serie di diritti fondamentali, quali l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, la facoltà di presentare determinate dichiarazioni da rendersi davanti all’Ufficiale di Stato civile in materia di cittadinanza, diritti di partecipazione popolare all’amministrazione locale previsti dagli statuti comunali, l’accesso all’assistenza sociale e ad altri rilevanti diritti sociali tra i quali la partecipazione ai bandi per l’assegnazione di alloggi popolari, i sussidi per i canoni di affitto o l’acquisto della prima casa. Inoltre, l’iscrizione anagrafica è anche il presupposto per l’ottenimento della carta di identità e per chiedere ed ottenere il conseguimento della patente di guida.

Residenza fittizia o virtuale
@zoriah

Residenza fittizia o virtuale: diritti minimi per i senza dimora

Il nostro ordinamento prevede l’obbligo di iscrizione anagrafica per chiunque risieda in modo stabile sul territorio italiano, ivi compresi i cittadini stranieri. Tuttavia, vista l’impossibilità per i senza fissa dimora di dimostrare di possedere una dimora stabile, il legislatore ha condizionato la concessione della residenza anagrafica al possesso di un domicilio. Tale domicilio, rappresenta il posto in cui in concreto il richiedente vive, e può essere pertanto anche la stazione, una grotta o un container.

Occorre precisare, che non può essere di ostacolo all’iscrizione anagrafica, la natura dell’alloggio, in quanto la funzione dell’anagrafe è quella di rilevare la presenza stabile, comunque situata, di soggetti sul territorio comunale. Questa norma, viene tuttavia disapplicata da funzionari dell’anagrafe i quali spesso si ritrovano a confondere il domicilio con la residenza chiedendo agli utenti di indicare indirizzo, scala ed interno dell’abitazione, cosa del tutto impossibile trattandosi di persone senza fissa dimora. Stessa sorte per i richiedenti protezione internazionale o titolari della protezione, i quali al termine di un percorso di accoglienza o non avendovi neanche avuto accesso, finiscono per strada.

Al fine di ovviare a questa situazione, in bilico tra la prassi che troppo spesso sostituisce le leggi e l’inconsapevolezza di chi non conosce né prassi né leggi, nasce il concetto di residenza fittizia o virtuale. Tramite questo istituto, chiunque viva in strada o in alloggi di fortuna potrà effettuare l’iscrizione anagrafica utilizzando un indirizzo convenzionale in una via territorialmente non esistente.

Molti comuni hanno già istituito questo indirizzo il quale costituisce residenza anagrafica a tutti gli effetti e permette il rilascio della carta di identità, nonché l’accesso a tutti i diritti e le prestazioni da essa dipendenti. Sembrerebbe un gioco da ragazzi e lo sarebbe se solo non fosse che tale soluzione seppur prevista dai regolamenti comunali, non viene facilmente applicata. Per non parlare poi delle continue richieste fatte alle associazioni presenti sul territorio di garantire per i senza fissa dimora che facciano richiesta di iscrizione all’anagrafe, ledendo così il loro diritto alla privacy o dignità di chi non riesce o non voglia entrare in contatto con le realtà associative. A questo si somma poi la presenza di associazioni poco corrette che chiedono, sotto forma di tessere associative, soldi agli utenti al fine di consentire la domiciliazione della persona senza fissa dimora all’indirizzo della propria associazione.

La residenza fittizia, così come prevista dalla legge, sarebbe un ottimo istituto volto a restituire diritti e dignità a chi si trova in una situazione già troppo ostile. Troppi giovani, stranieri e non, si trovano intrappolati in un limbo dal quale sembra essere impossibile uscire, e quando vi è uno spiraglio di luce che porta verso la legalità, seppur precaria, o per lo meno alla visibilità, si rischia di rimanere incastrati tra la dimenticanza e il tornaconto politico del sindaco di turno.

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Potrei dimenticare a pranzo ciò che ho mangiato a colazione, ma non potrei mai dimenticare gli occhi e le storie delle persone. Laurea in Giurisprudenza, passione per i diritti umani. Animo nomade che del viaggio apprezza le storie che esso racconta. Credo nella potenza delle masse e in chi crede e lotta.
Commento
  1. pier

    Tipico caso in cui la rigidezza astratta del diritto non lubrifica come dovrebbe le vicende della società, trasformando i soggetti dei flussi in portatori di conflitti. L'idea dell'indirizzo virtuale è ottima, e contribuisce a rimuovere un ostacolo fondamentale, visto che la cittadinanza anagrafica in Italia è presupposto della possibilità di essere cittadini tout court. Due cose, a livello terminologico: 1) L'indirizzo ''virtuale'' non dovrebbe essere né infamante né discriminatorio. Non dimentichiamo che, per fare un esempio, fino al 1975 nei documenti d'identità di coloro la cui paternità era ignota compariva l'espressione ''figlio di N.N.'', anch'essa una (ben poco felice) locuzione convenzionale 2) Meglio ''virtuale'' che ''fittizia'', poiché di residenza fittizia si parla già quando qualcuno vuole eludere/evadere le tasse, costituendo appunto una r.f. magari all'estero; ambito quanto mai lontano da questo di cui stiamo parlando!

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