La grande questione abitativa italiana, spiegata bene15 min read

11 Dicembre 2020 Politica Welfare -

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Sociologo

La grande questione abitativa italiana, spiegata bene15 min read

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Perché non riusciamo a garantire una casa a tutti? Un bene che ci appare primario, un diritto che ci appare elementare, possibile che debba essere così poco accessibile? Possibile che ci siano persone che una casa non ce l’hanno, e altre che devono fare una fatica immane per mantenere un alloggio magari anche piccolo, poco funzionale, lontano dai servizi?

Perché ci troviamo in questa situazione? Perché in Italia la questione abitativa sembra aperta da sempre, e irrisolvibile? Come va negli altri paesi? Ci sono esperienze da cui possiamo apprendere?

La risposta breve è che c’è un grande conflitto tra la casa come bene di mercato e la casa come diritto, e che spesso il mercato prevale. Che la soluzione migliore sarebbe quindi un sostanzioso intervento pubblico, che però è complicato e molto costoso. Che tutti i paesi fanno fatica con sta storia della casa, anche i più virtuosi, con rare eccezioni.

Adesso comincia la risposta lunga.

emergenza abitativa
Foto: Alessandro Berrettoni

La casa è un diritto di tutti?

Sì, lo affermano costituzioni, leggi, trattati. Ma, diciamolo subito, il problema è che è un diritto costosissimo da garantire. E infatti nessun paese al mondo ci riesce. Certo, qualcuno ci riesce meglio di altri. Ma il problema di dare una casa a tutti è forse irrisolvibile, almeno dentro il sistema economico in cui viviamo.

Costruire o riparare case da destinare a scopi sociali richiede investimenti stratosferici e tempi lunghi, così come gestirle e mantenerle. Mantenere forzatamente bassi gli affitti richiede enormi sforzi economici e può avere effetti perversi che nessun governo intende affrontare. Nessuna soluzione è ideale. Cosa si può fare allora?

Le modalità attraverso le quali uno stato prova a garantire il diritto alla casa ai suoi cittadini variano, e sono molto collegate alla modalità con cui garantisce anche gli altri diritti sociali, in sostanza al modo in cui organizza il suo sistema di welfare.

Un sociologo svedese di nome Jim Kemeny ha individuato negli anni novanta due regimi abitativi in cui classificare gli stati: ci sono i sistemi abitativi duali, che creano una separazione tra il mercato abitativo ordinario e il mercato abitativo sociale che è separato e funziona con regole tutte sue, e i sistemi abitativi unitari, dove esiste un unico mercato abitativo in cui abitazioni pubbliche e private competono.

Il sistema abitativo unitario è adottato da alcuni paesi del centro-nord Europa, come Svezia, Olanda e Austria. Il resto dei paesi è nel gruppo dei sistemi duali, seppure con molte differenze interne. In genere, i sistemi abitativi unitari riescono meglio a garantire l’accesso alla casa a ampie fette di popolazione, ma non è detto.

A questa classificazione, che sottolinea le divergenze tra sistemi, si oppone invece la narrazione della convergenza, portata avanti su tutti dal sociologo Michael Harloe, che dice: sì ci sono differenze ma dentro un trend comune verso cui vanno tutti i sistemi abitativi, quello di avere una quota crescente di mercato costituita da abitazioni in proprietà, il che è un problema.

Finita l’epoca del capitalismo industriale, che richiedeva grandi quantità di case a basso costo in cui ammassare gli operai tramite l’edilizia sociale, è iniziata quella del capitalismo postfordista, che preferisce invece che ognuno sia imprenditore e proprietario di se stesso.

Entrambe le teorie sono vere: c’è un trend globale verso la casa di proprietà, ma persistono differenze sostanziali nelle politiche abitative di diversi stati, e spesso anche all’interno degli stati, tra regioni e tra città.

Il sistema abitativo italiano

Al di là dei dibattiti teorici, che pure ci servono per collocare questo che stiamo per dire dentro un orizzonte, nella pratica i sistemi abitativi possono essere organizzati in modi diversi e combinati. Non è nemmeno facile individuare un linguaggio comune per fare confronti.

In linea di massima si analizza anzitutto come è composto il mercato immobiliare di un paese: qual è la quota di abitazioni utilizzate in proprietà e quale in affitto, quante sono le abitazioni destinate a scopi sociali, quante sono utilizzate in altre forme.

Poi si va ad analizzare dentro a ciascuna voce. In alcuni paesi le abitazioni destinate a scopi sociali sono quelle gestite dal pubblico, in altre possono essere anche private, in altri il pubblico gestisce anche case “normali”, in altri paesi ancora esistono altre modalità, come le cooperative abitative, che in alcune classificazioni rientrano fra l’edilizia sociale e in altre no. Insomma, un bel casino. Ma noi cercheremo di essere semplici, a costo di saltare qualche passaggio.

Il sistema abitativo italiano è considerato duale nella classificazione di Kemeny. Esiste un mercato abitativo “normale” su cui operano i privati e uno sociale, in cui opera il pubblico con l’offerta di case popolari, che con un termine più corretto chiameremo edilizia sociale (o social housing, nel linguaggio internazionale).

La cosa che più balza all’occhio nel nostro sistema abitativo è che la gran parte delle abitazioni, circa 7 su 10, sono case di proprietà. È una caratteristica nota: la casa di proprietà è considerata in Italia un investimento sicuro (è il motivo per cui è così difficile politicamente introdurre la tassa sulla prima casa: perché colpisce buona parte dell’elettorato).

mercato abitativo in italia

Nel dopoguerra le case di proprietà erano meno della metà del totale delle abitazioni e la maggior parte delle famiglie viveva in affitto. La situazione si è ribaltata dagli anni sessanta in poi con una tendenza alla stabilità negli ultimi 20 anni.

Questi dati derivano dal Censimento, e gli ultimi disponibili fanno riferimento al 2011. Presto ne saranno disponibili di nuovi, ad ogni modo per questo tipo di informazione i cambiamenti nel tempo sono di lunga durata, perciò i dati non sono da considerare vecchi.

La proporzione nel mercato abitativo italiano è dunque circa questa: 70% di case in proprietà, 20% di case in affitto, 10% di case utilizzate con altre modalità, come il comodato e l’usufrutto.

In numeri assoluti, secondo i dati di Federcasa (pdf): 18,5 milioni di nuclei familiari vivono in case di proprietà, 4 milioni in affitto privato, 700 mila in affitto sociale, 2,5 milioni con altro titolo di godimento.

tasso abitazioni in proprietà europa

Nel confronto europeo, siamo tra i paesi con la quota più alta di abitazioni in proprietà insieme agli altri paesi mediterranei e dietro solo ai paesi dell’est, che escono da decenni di regimi comunisti in cui lo stato dava alle persone le case in proprietà e quindi tutti avevano una casa in proprietà, e la cosa è rimasta fino ad oggi.

In Europa centro-settentrionale invece c’è un maggiore equilibrio tra case in proprietà e case in affitto, anche se va detto che i numeri cambiano in base a cosa si considera casa in proprietà.

Ad esempio in Svezia c’è una formula intermedia tra proprietà e affitto in cui l’inquilino diventa socio di una cooperativa che è formalmente la proprietaria degli appartamenti, anche se poi in realtà ogni socio è di fatto proprietario di un appartamento, che può anche decidere di vendere. Questa formula in altri paesi non esiste: se aggiungessimo anche la quota di mercato gestita con questa modalità il dato della Svezia passerebbe dal 39 al 62%.

Come mai siamo tra i paesi europei con il maggior numero di persone che vivono in case di proprietà? Perché le nostre politiche abitative hanno favorito l’acquisizione della casa di proprietà piuttosto che in affitto o in altri modi.

Fin dagli anni cinquanta infatti, la Democrazia Cristiana ha introdotto importanti agevolazioni fiscali per chi accedeva a un mutuo per l’acquisto della prima casa, all’interno di una strategia ideologica che vedeva nella promozione della proprietà immobiliare uno strumento di integrazione delle classi medie e popolari nella società capitalistica, sottraendole così all’ideologia comunista (Coppola, 2012).

Da allora tali misure hanno segnato le politiche abitative italiane. Fatto salvo per un esperimento abbastanza fallimentare con l’equo canone, non sono mai state implementate serie politiche di regolazione del mercato dell’affitto privato né, come stiamo per vedere, di sviluppo dell’edilizia pubblica.

L’edilizia sociale in Italia

Altra caratteristica del sistema abitativo italiano è la bassissima quota di edilizia sociale, quindi di abitazioni utilizzate per scopi sociali, anche note come case popolari. Le famiglie che vivono in case popolari in Italia sono, in base alle stime di Federcasa, circa 700 mila, un misero 3-4% del mercato abitativo. Si tratta di una caratteristica permanente del nostro sistema abitativo, essendo una quota che negli ultimi 30 anni è rimasta tra il 3 e il 5%.

edilizia sociale in europa

Ancora una volta, siamo agli ultimi posti in Europa. Pur non essendo mai stato realmente sviluppato, il settore dell’edilizia sociale in Italia ha subito un tracollo dalla fine degli anni novanta, quando sono stati eliminati i cosiddetti contributi Gescal, che ne erano la principale fonte di finanziamento.

I fondi Gescal erano in pratica una trattenuta forzata nelle buste paga dei lavoratori il cui gettito veniva appunto utilizzato per finanziare la costruzione e la manutenzione delle case popolari.

Cancellati questi fondi nel 1998, il settore non ha praticamente più avuto finanziamenti. La gestione dell’edilizia sociale è passata in mano alle Regioni che, in assenza di contributi statali, hanno preso a finanziare l’edilizia pubblica in modo frammentato e, generalmente, del tutto insufficiente.

Contemporaneamente molti alloggi pubblici sono stati venduti a chi li abitava. Federcasa ha stimato in 190 mila gli alloggi pubblici venduti tra il 1993 e il 2011, con un saldo negativo di 56 mila alloggi rispetto a quelli costruiti o recuperati per la locazione sociale.

Le abitazioni pubbliche italiane restanti danno alloggio a circa 700 mila nuclei familiari, con almeno altre 650 mila domande in attesa di assegnazione. Il conteggio nazionale tuttavia è complicatissimo perché le graduatorie sono comunali e i dati non sono disponibili e aggiornati per tutti i comuni allo stesso tempo e allo stesso modo.

Chi accede alle case popolari in Italia? Gli alloggi sociali sono destinati alle famiglie più povere, secondo criteri di accesso che vengono stabiliti dalle Regioni e applicati e verificati dai Comuni, e hanno quindi un’estrema varietà territoriale. Il criterio principale è quello del reddito, anche se vengono spesso attribuite premialità a condizioni particolari come la presenza di persone con disabilità o anziane.

La grande questione dell’edilizia sociale italiana è tuttavia che c’è pochissimo turnover. Chi entra in una casa popolare tende a rimanerci tutta la vita, anche se le condizioni che ne avevano garantito l’accesso si modificano, trasformando il settore in quella che Antonio Tosi, forse il più influente studioso di politiche abitative in Italia, ha definito una “riserva protetta”. Questo esclude molti nuclei familiari che avrebbero diritto all’accesso ad una casa popolare, ed è una situazione che svantaggia in particolare giovani e immigrati.

Quanto costa l’affitto di un alloggio sociale? Dipende. Le modalità di determinazione del canone variano, lo abbiamo capito, da regione a regione in base principalmente a due parametri: i dati dell’alloggio (ubicazione, superficie, condizioni) e i dati relativi al reddito dell’inquilino. Secondo i calcoli di Federcasa relativi al 2011 il canone medio di un alloggio sociale in Italia è di 105 euro al mese: 64 al sud, 109 al centro, 122 al nord.

Si tratta di canoni che non sono neanche lontanamente sufficienti a coprire i costi di gestione degli enti pubblici. Qui si insidia il grande dilemma dell’edilizia sociale: più accoglie persone povere e deboli (che sarebbe il suo scopo), più è insostenibile.

In altri paesi le cose funzionano in modo molto diverso. Ad esempio in Olanda, Svezia e Austria gli alloggi pubblici sono destinati a una fetta di popolazione molto più ampia, e non solo ai nuclei familiari più poveri.

Ci sono città – come Stoccolma e Vienna – dove la casa pubblica è un obiettivo anche della classe media. A Stoccolma ci sono famiglie – giovani, benestanti, cool – che aspettano anche 15-20 anni pur di vedere realizzato il loro sogno di una casa pubblica.

Insomma, un concetto di edilizia pubblica, e non sociale, in grado di rispondere ai bisogni di diverse fasce della popolazione. Certo, per applicarlo bisogna che l’ente pubblico possegga grandi quantità di alloggi.

La questione abitativa italiana: principali problemi

Questa situazione del mercato abitativo italiano, unita all’assenza di politiche abitative degne di questo nome, ha diverse conseguenze problematiche sull’accesso alla casa nel nostro paese.

Intanto, un diffuso disagio abitativo. Secondo i calcoli di Federcasa, oltre ai 700 mila nuclei familiari in alloggi popolari, ci sarebbero almeno altri 1,7 milioni di nuclei familiari tra quelli in affitto che vivono una situazione di vulnerabilità abitativa, dedicando cioè più del 30% del proprio reddito al canone di affitto. Si tratta di una percentuale del 35% di tutti i nuclei familiari in affitto in Italia, percentuale che era al 16% negli anni novanta e al 25% negli anni duemila. Tra costoro, molti sono i nuclei familiari giovani.

La grande questione infatti è che senza famiglia in Italia non si va lontano. La caratteristica con cui potremmo riassumere l’essenza del sistema abitativo italiano è infatti che l’accesso alla casa passa spesso dalla famiglia: si ereditano case in proprietà dalla famiglia, si usano con il comodato gratuito case di familiari, si acquista casa con il mutuo pagato dai genitori. Anche per accedere alla locazione di alloggi sul mercato privato le famiglie giocano spesso un ruolo importante nel fornire ai figli le garanzie necessarie per sottoscrivere un contratto di affitto.

Chi non si può appoggiare sulla famiglia è fregato. Sono fregati gli immigrati, sono fregati i giovani che non hanno una famiglia alle spalle, sono fregati coloro che vivono una situazione di vulnerabilità potendo contare solo sulle proprie forze: persone che si separano, o che perdono il lavoro.

Chi rimane escluso dal mercato abitativo, poi, non può contare sull’appoggio pubblico. Gli alloggi pubblici infatti come abbiamo visto sono drammaticamente insufficienti a coprire il fabbisogno, e finiscono per alloggiare solo persone o famiglie pluri-svantaggiate. Chi è in una situazione di povertà abitativa ed economica grave ma non gravissima ne resta escluso ed è costretto a vivere in situazioni di vulnerabilità abitativa: affitti in nero, alloggi sovraffollati e/o inadeguati, alloggi a cui destina quote rilevanti del proprio reddito.

Anche per questo in Italia sono così diffuse le pratiche del nero, dell’abusivismo, delle occupazioni illegali e delle persone senza dimora che, secondo l’ultima rilevazione Istat relativa al 2014, sono oltre 50 mila.

questione abitativa italiana
Foto: Vitalis Hirschmann

C’è poi una questione abitativa strettamente urbana: l’emergenza abitativa è roba soprattutto da grandi città. Il quadro nazionale può essere ribaltato a livello locale, specie in regioni periferiche e nei piccoli paesi, dove si possono trovare vagonate di cartelli Vendesi o Affittasi a prezzi stracciati.

È così perché in quelle case in vendita a prezzi stracciati non ci vuole andare a vivere più nessuno. I piccoli paesi si spopolano, le aree interne si spopolano, e il mercato esige che i prezzi siano più alti là dove il bisogno è più forte: nelle città, negli immediati dintorni, in pianura, sulla costa.

Qui si concentrano i maggiori problemi: nelle grandi città, su tutte Milano e Roma ma non solo, si concentrano diversi fattori: la presenza di una massa di persone e famiglie povere attratte dal lavoro che non trovano soluzioni abitative a basso costo, ma anche la presenza di dinamiche speculative globali che alzano artificialmente i prezzi. Grossi investitori immobiliari internazionali che acquistano immobili a prezzi molto elevati non per usarli, ma come investimento. Di conseguenza, tutto il mercato ne risente e i prezzi salgono.

Inoltre, le grandi città sono anche quelle dove più si verifica l’effetto Airbnb: è in effetti molto più semplice, conveniente e meno scocciante affittare a turisti per brevi periodi piuttosto che a persone che cercano casa per periodi lunghi.

Si tratta di dinamiche presenti in tutte le grandi città globali del mondo, dove c’è grande domanda di abitazioni, offerta limitata, speculazione.

Londra è la città-emblema da questo punto di vista – provate a cercar casa a Londra – ma anche città più insospettabili come Stoccolma e Copenaghen hanno grandi difficoltà a livello di mercato immobiliare a prescindere dal funzionamento del sistema nazionale. Parziali eccezioni sono Berlino (dove però la situazione sta cambiando, in peggio), Amsterdam e soprattutto Vienna, la città europea che forse più di tutte riesce a gestire la questione abitativa, grazie soprattutto ad una gran quantità di alloggi in mano al Comune.

La questione abitativa italiana: possibili soluzioni

E questa è sempre, inevitabilmente, la soluzione migliore: che il pubblico gestisca (bene) grandi quantità di alloggi in modo da poter rispondere in modo equilibrato ai bisogni di diverse fasce di popolazione, dalla classe media in giù.

Si tratta però di una soluzione dai costi altissimi: lo Stato dovrebbe costruire, acquistare, gestire e manutenere milioni di alloggi. Una soluzione che appare impraticabile in quei contesti, come l’Italia, dove non si è costituito nel corso del tempo un sistema abitativo con queste caratteristiche.

La scelta di concentrare gli sforzi pubblici su una quota residuale e estremamente povera di popolazione si è rivelata fallimentare: ora lo Stato si trova in un circolo vizioso in cui chi occupa le case pubbliche paga canoni bassissimi o, nel 20% dei casi, neanche quelli. Come si può pensare di fare altri investimenti in questo scenario?

Negli ultimi anni si è affacciato un altro soggetto nel settore abitativo: il terzo settore. Lo Stato in questo caso si limita a supportare economicamente progetti abitativi e sociali gestiti poi da cooperative che reperiscono alloggi da destinare a scopi sociali, anche a quella fascia grigia del ceto medio-basso che non riesce ad accedere all’edilizia sociale. Si tratta tuttavia di una fetta di mercato ancora residuale e non in grado di fronteggiare l’enorme bisogno presente nel paese.

Un’altra strategia potrebbe essere quella di promuovere un riequilibrio tra territori e tra città e aree interne. Ci sono in effetti paesi e regioni con disponibilità di case a prezzi bassissimi (fino all’estremo delle vendite simboliche a un euro) in luoghi dove però nessuno va a vivere, per carenza di servizi e occasioni di lavoro e socialità. È il mercato, bellezza, dicono. Dove c’è domanda i prezzi sono alti, dove non c’è i prezzi sono bassi.

Però in questo caso stiamo parlando di un bene primario come la casa. Per questo lo stato dovrebbe intervenire ma, per i motivi espressi, fa una gran fatica a farlo. Temo che la grande questione abitativa italiana resterà aperta ancora per molto tempo.

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Sociologo, lavora come progettista e project manager per Sineglossa. Per Le Nius è responsabile editoriale, autore e formatore. Crede nell'amore e ha una vera passione per i treni. fabio@lenius.it
1 Commenti
  1. BRUNO MATTEC

    DIREI MOLTO APPROFONDITO,MA NON SI TIENE CONTO DELLA CARENZA DI DENARO

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