Palestina, una guerra ignorata dai media italiani3 min read
Reading Time: 3 minutesPerché hanno cominciato a sparare? Perché siamo palestinesi. Be Human.
Ho visto le foto di alcune case del campo profughi di New Askar dopo le incursioni militari israeliane di martedì. Porte sfondate, beni personali distrutti o rubati, persone impaurite e stanche. Un ragazzino che balla la Dabka, danza tipica palestinese, presso l’associazione locale Keffiyeh Center, viene ferito.
Nel frattempo, un’escalation vertiginosa di violenze continua a far tremare tutta la West Bank e la Striscia di Gaza, nuovamente bombardata. Eppure, viene terribilmente ignorata dai media italiani.
Il centro medico Al Sadaqa di Bethlehem viene attaccato da un gruppo di coloni ebrei. Vengono distrutti ambulatori e apparecchiature sanitarie, rubati computer e archivi.
La sera, Ramallah continua a riempirsi di sirene, spari e adesso anche qualche aereo. Di giorno invece un’incursione presso l’agenzia tv Al Aqsa News e un altro arresto.
Continua a salire spaventosamente il numero di palestinesi arrestati, ad oggi se ne contano circa 300, in soli 6 giorni. Tra cui i 51 ex detenuti politici che Israele aveva rilasciato nel 2011 nell’ambito dell’accordo Shalit di scambio di prigionieri tra Israele e Hamas.
I checkpoints di Nablus vengono chiusi. Lo apprendo da un ragazzo palestinese che per ritornare a casa è costretto a fare delle strade secondarie.
È stata chiamata “Brother’s keeper” l’operazione israeliana che avrebbe per obiettivo il ritrovamento dei tre coloni ebrei. Attualmente lo scopo non è stato raggiunto e gli unici risultati evidenti sono stati un perpetuarsi di abusi e violenze in una West Bank assediata e in una Gaza bombardata. Nel frattempo, Netanyahu si aspetta che Abu Mazen s’impegni nel ritrovamento dei tre coloni e nella cattura dei rapitori, spingendolo quindi a sganciarsi da Hamas e interrompere l’accordo di riconciliazione raggiunto due mesi prima, dopo ben 7 anni.
Sono impegnata in attività di ricerca presso l’Università Birzeit. Giovedì mattina leggo che durante la notte, per la prima volta, i soldati israeliani assediano l’università. Proprio il giorno prima un collega mi aveva risposto escludendo categoricamente questa possibilità. È evidente che nessuno ha più delle certezze. Verso le 2 di notte circa, 15 jeeps israeliane invadono il campus. I soldati confiscano telefoni e chiavi alle guardie di sicurezza all’ingresso dell’università. Si recano presso gli appartamenti studenteschi, buttano giù porte, iniziano a distruggere a caso (recando seri danni) e portar via foto e poster di martiri (studenti dell’università). A questo punto i ragazzi iniziano a lanciar loro pietre e bottiglie di vetro. I soldati rispondono sparando.
Hanno iniziato a distruggere tutto selvaggiamente e sai perché non vengono in pieno giorno? Perché è pieno di studenti ed hanno paura.
Il giorno dopo, come se niente fosse successo, sono tutti a lavoro. Gli studenti a far esami, i professori nei loro uffici ed io, investita da questo flusso di inquietante normalizzazione e al contempo di eroica resistenza, inizio a prepare la mia prossima lezione.
Tutto ciò non intaccherà il nostro modo e la nostra voglia di lavorare; anzi, non farà che accrescere la nostra dedizione ai valori di libertà, giustizia e democrazia. Ci vorrebbero ignoranti ma i nostri studenti continueranno ad essere persone ben istruite e leader all’interno delle loro comunità.
Lo stesso professore che il giorno prima mi aveva detto di non preoccuparmi, adesso mi racconta alcune sue esperienze vissute durante la seconda intifada.
Vedere per capire. #TicketToPalestine
Immagini| Eye On Palestine| Birzeit University