Palestina: è come un’Intifada, ma di notte5 min read
Reading Time: 4 minutesDall’inizio dell’operazione israeliana “Brother’s keeper”:
5 i palestinesi uccisi
Ahmed Arafat, 19 anni, campo profughi di Jalazone (Ramallah)
Mahmoud Jihad Muhammad Dudeen, 13 anni, villaggio di Dura (Hebron)
Ahmad Fahmawi, 26 anni, campo profughi di Al-Ein (Nablus)
Mustafa Aslan, 23 anni, campo profughi di Qalandyia (Ramallah)
Mahmoud Ismail Atallah Tarifi, 30 anni, Betuniya (Ramallah)
471 il totale dei palestinesi arrestati durante i circa
400 raids israeliani nelle città, campi profughi, università e istituzioni della West Bank.
Ramallah come non l’avevo mai vista. Devastata. Tutto si ferma. Tutto chiude. Al funerale di Mahmoud Tarifi, a cui partecipa tanta gente, coloni ebrei fanno irruzione e cominciano a sparare.
La Striscia di Gaza viene nuovamente bombardata, stavolta dopo il lancio di alcuni razzi palestinesi verso Israele.
Continueremo a resistere, ci sono molti motivi per continuare a farlo.
È ciò che mi viene detto quando, dopo l’incursione avvenuta nel campo profughi di Dheisheh (Bethlehem), chiedo conferme dirette ai rifugiati del campo. Cinque feriti e 35 palestinesi arrestati. La porta del Centro culturale Ibdaa viene fatta esplodere e ancora una volta i soldati israeliani sono riusciti nel loro intento di devastare e saccheggiare (computer, archivi, memorie, anni di lavoro). Vedo anche alcune foto della casa che mi ha accolta ed ospitata per più di una notte, adesso completamente stravolta. E ancora a Betlemme, un raid nella Bethlehem Charitable Society, organizzazione a sostegno dei bambini orfani. Confiscati e distrutti beni.
La violenta incursione del campo profughi di Dheisheh, lo stesso in cui qualche settimana fa si è recato Papa Francesco, mi lascia un pesante senso di tristezza. Ma proprio la notte successiva, un altro raid, quello nel campo profughi di New Askar, mi fa capire cosa significa essere terrorizzati.
Sono le 3 di notte circa quando uno dei ragazzi del campo mi invia un messaggio per avvertirmi che i soldati israeliani hanno cominciato ad entrare in alcune case.
Funziona così, il primo che sa, lo comunica subito agli altri. Poi seguono i messaggi per aggiornarci sugli spostamenti dei soldati e in quale casa si trovano. In questo modo a volte è possible prevedere in quale casa faranno irruzione con qualche secondo di anticipo.
Cominciano boati, luci bianche, esplosioni, spari, gas. Ne respiro solo un po’ prima di riuscire a chiudere la finestra, e già sento bruciare gola, naso e occhi. Esco dalla stanza e vedo le donne della casa piangere, una trema, una prega, una infonde coraggio. Io sono terrorizzata. Un ragazzo del campo viene ferito. Arrivano i soccorsi. Mi dicono che stanotte non entreranno in questa casa, possiamo tornare tutti a dormire.
Il giorno dopo il ragazzo presso cui hanno fatto incursione, mi racconta:
Stavo dormendo, ho aperto gli occhi e mi sono trovato un fucile puntato sulla fronte – ride – Hanno distrutto tutto, anche il mio computer e hanno rubato il mio cellulare. Ma io sono contento perché non hanno arrestato né me né mio padre. Hanno detto che torneranno.
Qual è il nesso tra la scomparsa dei tre coloni e queste barbarie? Quale diritto hanno di irrompere in piena notte, dentro le case di queste persone, terrorizzarle, arrestarle, distruggere e saccheggiare i loro beni e affetti?
Abbiamo cominciato a lanciare pietre. Poi se ne sono andati. È come un’Intifada, ma di notte.
Eppure, adesso, le incursioni si verificano, talvolta, anche in pieno giorno, come nel caso di Tulkarem. Si susseguono senza sosta, tanto che non riesco più a tenere il conto. Raids, scontri, martiri, arresti, posti di blocco volanti e checkpoints chiusi a tempo indeterminato.
Ancora un’altra incursione presso l’università Birzeit (Ramallah). E ne seguono altre in altre università: Al Quds (Gerusalemme est), Polytechnic University di Hebron, l’Arab American University di Jenin. E di nuovo, confiscati computer e altro materiale.
La questione dei tre coloni diventa un’arma, molto potente, per esasperare i palestinesi.
Noi non vogliamo la guerra, noi vogliamo la pace. Vogliamo vivere senza la paura che le nostre case vengano distrutte, i nostri figli arrestati, i nostri padri uccisi. Siamo esseri umani. E questa non è vita.
Il mondo dov’è?
Robert Serry, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, si dice ‘profondamente preoccupato’ ed invita Israele a rispettare il diritto internazionale. Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, esprime la solita ‘concern’ di circostanza. Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, si mantiene neutrale invitando entrambe le parti ad evitare azioni estreme. L’Unione Europea suggerisce invece una più stretta collaborazione tra l’Autorità Nazionale Palestinese e le forze di sicurezza israeliane per ritrovare i tre coloni.
Se in un primo momento Abu Mazen afferma la volontà di collaborare con Israele, incrementando la rabbia e la frustrazione dei palestinesi (una sede della polizia dell’Anp viene presa a sassate), in un secondo momento, condanna gli arresti su vasta scala e le uccisioni a sangue freddo da parte delle forze israeliane.
Nel frattempo?
Nel frattempo, 125 palestinesi nelle carceri israeliane per detenzione amministrativa cominciano il loro terzo mese di sciopero della fame. Nel frattempo, prosegue la colonizzazione israeliana con l’approvazione di nuove unità abitative destinate a coloni ebrei presso la colonia di Har Homa, situata nella West Bank, tra Gerusalemme e Betlemme. Nel frattempo, Sakher Dorgham Zaamel, 17 anni, muore dopo aver calpestato una mina inesplosa nella valle del Giordano. Nel frattempo, la resistenza:
Quella notte io li ho visti i soldati nel campo. Stavo studiando, da grande voglio fare la maestra. Io non ho paura, tu?
Vedere per capire.#TicketToPalestineImmagini| Ramallah City| www.qudsn.ps
Fabio Colombo
Complimenti per questi reportage e grazie Anna per non rinunciare all'unica arma che cerchiamo sempre di ricaricare: la parola