Oscar Washington Tabarez, maestro12 min read

24 Gennaio 2016 Uncategorized -

Oscar Washington Tabarez, maestro12 min read

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@rosariomartinez

Ogni storia di futbol sudamericano ha in comune un “incrocio di flussi”.

Nel 1968, mentre in Europa cambiava il mondo occidentale, una leggenda del calcio mondiale come Alcides Ghiggia decise di terminare la sua carriera. A 42 anni, dopo il gol più importante della storia e dieci stagioni italiane (con Roma e Milan), Alcides decise che la sesta annata con il Danubio sarebbe stata la sua ultima. Quel 1968 per i bianconeri della Curva de Maroñas fu avaro di consolazioni: stagione conclusa al 10° posto, che significò retrocessioni, con il vecchio Ghiggia che faticava contro i giovani difensori uruguayi, generazione che produsse l’ultimo Uruguay semifinalista mondiale prima dell’incredibile mondiale sudafricano.

Uno di quei difensori, non uno dei migliori, aveva 3 anni quando Ghiggia segnò il gol che zittì il mondo. Giocava per la IASA, la stessa squadra con la quale il vecchio Alcides debuttò in Primera Division poco più di vent’anni prima, e divideva il suo tempo tra il pallone e l’Università, dove studiava per diventare Maestro de Primaria, della scuola elementare.

Oscar Washington Tabarez rimase alla IASA fino al 1971, un anno dopo aver finito l’Università e aver iniziato a insegnare “nel tempo libero”; dopo un paio di stagioni divise tra il Club Sportivo Italiano e il Tanque in Segunda, raggiunge l’apice della carriera quando è il centrale titolare del mitico Wanderers del 1975, la prima squadra ‘chica’ (non contando quindi Peñarol e Nacional) a qualificarsi per la Copa Libertadores.

Tabarez continuerà a giocare per altri tre anni, sempre dividendosi tra i campi da gioco e la scuola (principalmente nel Cerro, uno dei quartieri più poveri di Montevideo), e si ritirerà nel 1978 a soli 31 anni, principalmente a causa dei continui problemi alle ginocchia (una costante della sua vita).

La carriera da insegnante durerà leggermente di più di quella da allenatore: Tabarez lascia l’istruzione nel 1985, quando diventò impossibile conciliare la vita da allenatore professionista de Primera e quella da insegnante per cinque giorni alla settimana.

Quanto guadagnato nella mia carriera da giocatore mi bastò appena per comprare una casa modesta per me e la mia famiglia, iniziai il corso da allenatore nel 1979 con l’unico obiettivo di portare un secondo stipendio a casa.

L’ascesa lenta e continua del maestro Tabarez

Probabilmente il suo impegno coi ragazzi fu una delle ragioni che spinse prima il settore giovanile del Bella Vista (l’ultima squadra del Tabarez calciatore) e poi la AUF, la Federazione dell’Uruguay, a chiamare in panchina il giovane Oscar per allenare l’Under 20.

L’ascesa di Tabarez alle vette del calcio mondiale fu lenta ma continua: la Copa Libertadores vinta nel 1987 con il Peñarol (ad oggi l’ultima vinta dai Manya) lo portò alla sua prima esperienza all’estero (in Colombia, al Deportivo Cali) e poi sulla panchina più sognata, quella della Nazionale.

Il Peñarol di Tabarez vinse la Libertadores del 1987 con un gol al 120′ nella finale spareggio, la terza, dopo che sia uruguayi che colombiani avevano rispettato il fattore campo nelle gare di andata e ritorno.

L’AUF decise di rinnovare completamente la Nazionale che da un lato aveva vinto le ultime due edizioni della Copa America, ma che dall’altro non vinceva una partita di un mondiale da Messico 1970. “Decisi di affidarmi da subito a giocatori principalmente del campionato uruguayo; fu molto importante per me l’amichevole contro l’Italia (aprile 1989, finì 1-1), perché era la prima volta che giocavamo in ‘Fecha FIFA’ contro una squadra europea”. La Celeste si presentò con rinnovate ambizioni alla Copa America 1989, con l’obiettivo neanche troppo nascosto di conquistare il terzo trofeo consecutivo.

Il 16 luglio la tavola era apparecchiata esattamente come 39 anni prima.

Come allora, Brasile-Uruguay sulla carta era l’ultima partita del “girone finale”, ma, di fatto, era diventata la finalissima. A differenza del 1950 la partita fu da subito combattuta e arcigna, e come allora il Brasile si portò in vantaggio ad inizio secondo tempo, col gol di Romario. Ma la storia non sempre si ripete: la reazione dell’Uruguay non produsse nulla, e così il Brasile interruppe la striscia Celeste e conquistò la sua quarta Copa America.

Tabarez però non si perse d’animo, e un paio di mesi dopo portò l’Uruguay a vincere il girone eliminatorio contro Perù e Bolivia, qualificando la Celeste al suo secondo mondiale consecutivo, qualcosa che a Est del Rio de La Plata mancava dall’epoca in cui il Maestro divideva il suo tempo tra i campi da gioco e le aule scolastiche.

“La preparazione al Mondiale, sin da Aprile, fu molto buona: pareggiammo in Germania e vincemmo a Wembley contro l’Inghilterra, creando così molte aspettative, nonostante si trattasse di due partite giocate due mesi prima del torneo.”

Il mondiale Celeste fu agrodolce: come detto prima, l’Uruguay tornò a vincere una partita per la prima volta dal 1970 grazie a un colpo di testa, in zona Cesarini, di Daniel Fonseca, che valse la qualificazione al turno successivo. Come però tutti ricordiamo, agli ottavi i Charrua incontrarono l’Italia, che vinse agevolmente con due gol nella ripresa di Schillaci e Serena.

L’ottavo dell’Olimpico mise la parola fine al biennio da CT di Tabarez, che non faticò molto a trovare una nuova sistemazione, e di assoluto prestigio: la Bombonera, il Boca Juniors. “Quando uno la vede da fuori (la Bombonera) non ne capisce l’importanza. Mi ricordo una riunione con alcuni imprenditori, uno di loro mi si avvicinò e mi disse ‘Guarda che il Boca… Non ti dico che è come essere Presidente, ma siamo lì’. Mi resi conto che aveva ragione, specialmente vedendo il modo unico in cui i tifosi, molto esigenti, ti ringraziano dopo una vittoria.”

L’esperienza in Europa

Con los Xeneizes Tabarez vincerà l’Apertura 1992, confermandosi definitivamente come uno dei migliori allenatori a livello sudamericano.

Fu quindi tempo di provare un’esperienza al di fuori del continente, occasione che si presenta nel 1994, quando il nostro fu chiamato da Massimo Cellino sulla panchina del Cagliari, che l’anno prima si spinse fino ad una storica semifinale di Coppa UEFA.

“Nel precampionato tutti i giornalisti italiani, che fanno delle analisi sempre eccellenti ed impeccabili, ci indicarono come favoriti per la retrocessione. Iniziammo a lavorare, avendo parecchie difficoltà nel girone d’andata. Ma da dopo Natale iniziammo a ingranare, battendo la Juventus, la Fiorentina, il Parma, e arrivando a giocarci la qualificazione all’UEFA fino all’ultima giornata.”

I sardi però terminarono il campionato al 9° posto, e la “magnifica esperienza” di Tabarez si chiuse lì.

Un giorno un giornalista si avvicinò e mi disse: ‘Maestro, lei però ha fallito al Milan’. Io gli risposi semplicemente: ‘No caro. Io sono arrivato al Milan’.

Quel giornalista non aveva tutti i torti: Tabarez, arrivato nell’estate 1996 in un Milan fresco di scudetto la stagione precedente, non riuscirà nemmeno a festeggiare il Natale da allenatore rossonero: l’avventura meneghina del Maestro si chiude con un 9° posto a 7 punti dalla Juventus leader della classifica, una striscia di 8 partite consecutive senza vittorie. E la consapevolezza che Sacchi, chiamato a sostituirlo, fece anche peggio, perdendo al nuovo debutto rossonero lo “spareggio” qualificazione in Champions col Rosenborg e terminando la stagione italiana all’undicesimo posto, rendendo più amaro il ritiro da giocatore del leggendario Franco Baresi.

Da Milanello parte quella che è una fase sicuramente calante della carriera di Tabarez, composta di nuove avventure come Oviedo, dove salva la squadra dalla retrocessione solo allo spareggio, o Velez Sarsfield, dove non va neanche vicino alla vittoria del titolo, e di sfortunati ritorni come Cagliari (esonerato dopo quattro partite) e Boca Juniors, dove non va oltre il terzo posto in campionato nel mezzo dell’era Bianchi.

Il ritorno sulla panchina celeste

tabarez forlanDopo l’amaro ritorno alla Bombonera, Tabarez si concentrò maggiormente su un’altra avventura, iniziata ai tempi di Oviedo, quando venne chiamato a far parte del FIFA Technical Study Group, un gruppo di allenatori e “formatori” calcistici che analizza le partite di tutto il mondo sotto il profilo tecnico-tattico, uno strumento di supporto per gli allenatori di tutto il mondo.

L’esperienza con la FIFA fu uno degli stimoli che spinse Oscar Washington Tabarez a tornare, nel 2006, sulla panchina della Nazionale Uruguaya, proponendo qualcosa di più di un semplice “progetto tecnico”: una rivoluzione, che abbracciasse tutte le ‘selecciones nacionales’, per far sì che un paese sicuramente svantaggiato sotto il profilo del “capitale umano” (l’Uruguay ha poco più di tre milioni di abitanti) potesse tornare a competere stabilmente ai livelli toccati tra il 1920 e il 1970.

Il “metodo Tabarez” è un qualcosa che va oltre la semplice preparazione alla prossima manifestazione internazionale: l’investimento in strutture sportive d’avanguardia (il Complejo Celeste di Montevideo è un gioiello puro a livello internazionale) e un cambio radicale alla base della metodologia sportiva e nel seguire i giovani giocatori a 360° (evitando così che si perdano tra le – troppe – cattive tentazioni “sociali”, soprattutto una volta che i risultati e le soddisfazioni faticano ad arrivare) sono tra i più importanti segreti (non troppo nascosti) del successo di questo decennio di OWT a capo del futbol uruguayo.

Un decennio che non è stato interamente di rose e fiori: no pain, no gain, un motto che si accompagna benissimo ad annate come il 2008 o il 2009 (dopo una Copa America di qualità, terminata soltanto ai rigori in semifinale contro il Brasile), dove una serie di brutti risultati sembrarono allontanare definitivamente la Celeste dalla qualificazione a Sudafrica 2010.

Il 10 ottobre 2009 è ben noto agli appassionati di calcio sudamericano come il giorno del gol de Martin, gol de Palermo, l’incredibile gol allo scadere con il quale lo storico ex numero 9 del Boca Juniors regalò all’Argentina una vittoria vitale contro il Perù, che col senno di poi valse la qualificazione al mondiale. Meno persone sanno che, in quasi precisa contemporaneità con Buenos Aires, a Quito si giocava un’altrettanto decisiva sfida tra Ecuador e Uruguay. In contemporanea col calcio d’angolo battuto da Insua a Buenos Aires, a Quito (sempre sull’1-1) Edinson Cavani si lanciava in contropiede, puntando il portiere ecuadoreño e finendo a terra. È rigore, praticamente a partita finita. Un gol Celeste porterebbe l’Uruguay a giocarsi la qualificazione diretta all’ultima giornata, con maggiori sicurezze anche per quanto riguarda il 5° posto (valido per gli spareggi intercontinentali); un errore lascerebbe l’Ecuador al 5° posto e, col senno di poi, l’Uruguay fuori dal mondiale 2010.

Sul dischetto va Diego Forlan, el Cacha, fresco reduce dalla vittoria della Scarpa d’Oro con l’Atletico Madrid.

El Diez Celeste è glaciale: rigore perfetto, 3 punti. “Contro l’Ecuador ebbi la conferma che Forlan potesse essere il giocatore su cui puntavo, quello che nei momenti di maggiore difficoltà era in grado di caricarsi la squadra sulle spalle.”

L’Uruguay si qualificò poi agli spareggi contro il Costarica grazie ai gol decisivi di due figure carismatiche e simboliche come il capitano Diego Lugano e il loco Sebastian Abreu, due che torneranno avanti nella storia.

Ad Oscar Washington Tabarez, invecchiando, i vecchi problemi al ginocchio sono accresciuti. Ormai quando cammina lontano dai riflettori degli stadi non si separa mai dal suo bastone, e di certo il 2 luglio 2010, in una fredda serata sudafricana, dopo 120 minuti passati ad alzarsi e sedersi dalla panchina del Soccer City di Johannesburg, la stanchezza si faceva sentire. Il quarto di finale tra Uruguay e Ghana è una partita sulla quale, prima o poi, sarà girato un film: e il degno finale stava per arrivare. A battere il quinto, decisivo, rigore si stava avvicinando El Loco, Sebastian Abreu.

Un rigore si può segnare o sbagliare.

Il cucchiaio di Abreu qualificò l’Uruguay alla semifinale di un mondiale per la prima volta dal 1970. La Celeste non riuscì ad andare oltre, perdendo per 3-2 sia contro l’Olanda sia la finale per il 3° posto contro la Germania. Ma, “se potessi mai scegliere una maniera di perdere una partita, sceglierei questa”.

Il capolavoro di Tabarez: la Copa 2011

Nella Copa America dell’anno dopo Brasile e Argentina arrivarono da favorite quasi indiscusse.

Passato il girone all’ultima partita col Messico, il tabellone dei quarti proponeva il Clasico rioplatense tra Argentina (padrona di casa) e Uruguay. Come l’anno prima, decisivo fu un altro rigore, dopo un agonico 1-1 nei 120 minuti. Stavolta il designato fu Martin Caceres, che tirò il rigore più opposto possibile a quello di Abreu: forte sotto l’incrocio, imparabile per il portiere argentino.

A differenza del Sudafrica, la vittoria “in trasferta” ai quarti significò l’inizio della realtà (e non del sogno) per la Celeste del Maestro. 2-0 al Perù, 3-0 al Paraguay in finale e trofeo che torna a Montevideo dopo 16 anni, rendendo l’Uruguay il Rey de America, la nazionale più vincente della storia della Copa America.

Il maestro verso il record

“Come allenatore e come maestro mi sono trovato davanti la teoria del capro espiatorio. Sono d’accordo, ovviamente, con la base della punizione. Ma c’è un rischio a punire in questo modo. Molte volte ci si dimentica che il capro espiatorio è una persona con dei diritti. Non è quindi prudente o saggio continuare a stare all’interno di un’organizzazione con persone, condizionate da chi ha promosso questa squalifica, che hanno valori molto diversi dai miei.”

Non era rara, tra coloro che assisterono alla conferenza stampa che Tabarez tenne al Maracana prima dell’ottavo mondiale con la Colombia e subito dopo la squalifica a Luis Suarez per il morso a Chiellini, la sensazione di trovarsi difronte a un uomo rassegnato alla sua “fine” e stanco di allenare. Non era difficile leggere, in quei giorni, nei media uruguayi ipotesi di dimissioni per Tabarez (che aveva il contratto fino alla Copa America 2015).

La mediocre Copa America cilena (fuori ai quarti col Cile, ma senza aver dato la sensazione di poter realmente fare di meglio) alimentò il partito “anti Tabarez”, portavoce ormai di un calcio vecchio e un progetto che cominciava a mostrare le sue crepe.

L’AUF (l’equivalente uruguayo della FIGC) confermò il Maestro fino al mondiale di Russia 2018: se tutto andrà bene, Tabarez si presenterà in Russia con più di 180 partite in carriera da CT dell’Uruguay.

In Russia (o prima, nel caso in cui la Celeste non dovesse qualificarsi per il mondiale – fatto finora mai avvenuto nell’era Tabarez) si concluderà quindi il ciclo più lungo della storia del calcio internazionale, con la consapevolezza che i frutti del lavoro di Oscar Washington Tabarez continueranno a maturare anche molto tempo dopo il suo addio definitivo alla panchina dell’Estadio Centenario.

L’”incrocio di flussi” del Maestro Oscar ha quindi realizzato un’impresa incredibile: riportare un paese di poco più 3 milioni di anime nel gotha del calcio mondiale dopo più di 40 anni.

Alla fine, i nomi di Alcides Ghiggia e Oscar Washington Tabarez non sono solo associabili ad un contrasto di gioco di una media partita dei primi anni ’70: entrambi sono autentiche leggende charrua.

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Nato a Palermo nel 1992 e cresciuto in Uruguay a Montevideo, una vita universitaria tra Milano e Londra. Dopo un Master in Media cerco di farmi strada nel mondo dei miei sogni e divido la giornata tra l’NBA, Netflix e il viaggiare con la fantasia. Manu Ginobili è il mio eroe, ed Emma Watson ha cambiato la mia vita. Sogno di fare il giornalista sportivo da quando credevo ancora a Babbo Natale, e a volte mi chiedo se non fosse stato meglio sognare di fare il calciatore.
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