Obsolescenza programmata: cos’è e come uscirne3 min read

4 Aprile 2014 Società -

Obsolescenza programmata: cos’è e come uscirne3 min read

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obsolescenza programmata

“Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore”

(Victor Lebow, economista, 1955)

Succede a tutti. Si rompe la lavatrice, convochi fiducioso il tecnico che, dopo la visita, sentenzia che la “paziente” ha un guaio, neanche insormontabile ma che, ad ogni modo, “costa più ripararla che comprarne una nuova”.

Un mantra. “Costa più ripararla che comprarne una nuova”. L’ho sentito talmente tante volte che ci ho pensato su. Mi è tornato in mente The story of stuff, un video visto qualche tempo fa sul ciclo produttivo, e in particolare mi è risuonata una frase: “progettare per la discarica”.

In altre parole: molti beni sarebbero fabbricati soltanto per essere buttati via ed essere rimpiazzati da altri, nuovi. Le cose nascerebbero con un conto alla rovescia incorporato. E tutto questo è scientemente programmato, e si chiama “obsolescenza programmata”.

Obsolescenza è una parola ostica che cela un concetto comprensibile. Ogni cosa si deperisce con l’uso, e va sostituita quando non si riesce più ad usarla (dal latino ob + soletus, “contro quello che è abituale”), e questo in generale, ma vediamo cosa succede quando l’obsolescenza viene pianificata.

Obsolescenza programmata: consumisti per forza

Ero molto affezionato al mio stereo anni novanta ma è chiaro che ora è sorpassato. Non per la sua funzionalità, ma per la sua diseconomicità soggettiva: non conviene all’offerta, cioè al produttore. Non gli conviene, chiaramente, che ciò che produce duri troppo, perché se così fosse non potrebbe produrre e vendere altri beni sostitutivi. È l’obsolescenza programmata: fabbrico un prodotto a durata breve e prefissata in modo che ad un certo punto il consumatore non se ne possa più servire.

Guardando un altro documentario, Pyramids of waste, vengo a scoprire che nel 1901 tale Adolphe Chaillet mette a punto una lampadina elettrica fatta per durare più di cento anni. Avete letto bene: cento anni! C’è ancora un esemplare di questa lampadina, viva e vegeta, nella stazione dei pompieri di Livermore, California. Le nostre “moderne” lampadine a fluorescenza, con la loro durata massima di 10mila ore, sembrano al confronto clamorosamente obsolete!

La Shelby Electric Company, l’azienda costruttrice della lampadina di Chaillet, invece, non durò a lungo. Si scontrò presto con i fautori dell’obsolescenza programmata, che venne elevata a principio guida della produzione industriale: il consumismo non è soltanto una cattiva abitudine, ma anche una strategia implacabile.

Obsolescenza programmata: consumisti critici

A monte c’è questa stortura: un’economia iper-produttiva si basa su un principio lineare, progressivo: l’accumulo indiscriminato, letteralmente in-finito. Peccato però che il mondo in cui viviamo sia finito, limitato. Impreparato ad ospitare milioni di rifiuti, dato che riciclare è utile ma non funziona con tutto.

La natura è diversa: in un sistema circoscritto, chiuso, trasforma incessantemente la materia. Il suo moto è ciclico, non lineare. La materia “prodotta” resta nel sistema, seppure in forme sempre diverse, mentre il sistema consumistico sembra presupporre l’esistenza di altri pianeti, quando il nostro sarà “finito”, in cui via via scaricare i nostri scarti.

Ovviamente questi pianeti-discarica non esistono. Ci sono invece altri metodi che possono correggere i danni dell’obsolescenza programmata: la cultura del riciclo, dei Repair Cafè, della seconda mano. Un po’ di autonomia dalla pubblicità. E qualcuno, come la nostra Sabrina, che ci guida nelle scelte di una vita ecosostenibile. Un grosso aiuto in questo senso ci sta arrivando, volenti o nolenti, dalla crisi. Che è anche crisi di un modello assurdo ed irresponsabile.

Immagine | Bertrand Gondouin

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Aspirante antropologo, vive da sempre in habitat lagunar-fluviale veneto, per la precisione svolazza tra Laguna di Venezia, Sile e Piave. Decisamente glocal, ama lo stivale tutto (calzini fetidi inclusi), e prova a starci dietro, spesso in bici. Così dopo frivole escursioni nella giurisprudenza e nel non profit, ha deciso che è giunta seriamente l'ora di mettere la testa a posto e scrivere su tutto quello che gli piace.
2 Commenti
  1. lorenzo

    Sicuramente è una spirale quella creatasi fra produzione-consumo-dismissione che gira sempre più rapidamente ed appare irmai decisamente avvitata su se stessa. Non credo ci siano ricette che consentano di uscirne. Quello che tutti possiamo fare è cercare di comprare quello che realmente risponde alle nostre esigenze senza lasciarci sedurre dall'ultimo gadget. Tuttavia non è molto...

  2. pier

    non è molto ma è qualcosa, d'altro canto l'organizzazione globale del lavoro è diventata così complessa che i comportamenti innovativi possono avere una qualche massa critica, solo se si coagulano in collettività più ampie (es. le class action dei consumatori). E' sempre la rete che aiuta il minuscolo nodo/cittadino o famiglia o associazione o impresa a far sentire di più la propria voce (v. A. O. Hirschmann, ''Exit, Voice and Loyalty'', 1970)

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