Le notizie, quelle importanti, sul coronavirus15 min read

23 Marzo 2020 Salute -

Le notizie, quelle importanti, sul coronavirus15 min read

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Questo non è il solito post che di minuto in minuto aggiorna le notizie sul coronavirus. Non troverete bollettini o breaking news, ma alcune informazioni selezionate e di più ampio respiro, che circolano tra analisti e commentatori e che faticano a trovare spazio sui media più impegnati a raccontare il qui e ora.

Aggiorneremo l’articolo via via che intercettiamo informazioni interessanti, se ne avete da segnalare potete farlo nei commenti, oppure scriverci via messaggio su Facebook o Instagram, o ancora via mail a info@lenius.it.

notizie sul coronavirus

I dati delle 18 hanno un senso?

La risposta breve è: no. O, almeno, poco. O, almeno, ha poco senso il dato nazionale mentre alcuni dati regionali lo hanno ancora. Se ne discute da tempo tra scienziati e analisti, e la sintesi migliore dei problemi che abbiamo con i dati delle 18 l’ha fatto Francesco Costa in questo articolo.

A livello nazionale, va intanto detto che non si sa mai bene se i dati sono completi, o se mancano alcune regioni o se alcune regioni poi modificano i dati e quindi il giorno dopo risente delle lacune del giorno prima.

Poi, questi dati paiono molto lontani dal descrivere la realtà. Questo dipende da diverse questioni, la principale delle quali è la modalità con cui si fanno i tamponi, che in Italia vengono fatti solo a chi è sintomatico, ma non solo: solo a chi presenta sintomi importanti. Queste dovrebbero essere però solo una minoranza delle persone contagiate, che secondo diversi analisti sono tra le quattro e le otto volte di più rispetto ai positivi.

Il problema qui non è in sé, se fosse chiaro a tutti basterebbe moltiplicare il dato dei positivi per ottenere una stima, seppur grezza, dei contagiati. Il problema qui è che il criterio con cui vengono rilevati i positivi non è costante, né nel tempo né nello spazio.

C’è infatti una grande variabilità regionale. Ci sono regioni che fanno i tamponi solo a chi ha sintomi gravi; è il caso della Lombardia, la regione che da sola conta quasi la metà dei positivi italiani e oltre il 60% dei deceduti, dove la situazione è talmente critica che si fanno i tamponi solo alle persone che arrivano in condizioni gravissime in ospedale. Addirittura sembra che alcune persone, soprattutto a Bergamo e provincia, siano morte prima di essere testate, e non rientrano quindi nei dati delle 18 sui morti. La scarsissima aderenza alla realtà dei dati della Lombardia invalida tutti i dati nazionali.

All’estremo opposto c’è il Veneto, che fin dal primo focolaio di Vo’ Euganeo fa tamponi a go-go. I dati sono eloquenti: il Veneto ha 22 mila positivi in meno rispetto alla Lombardia, ma solo 12 mila tamponi in meno, e ha un tasso di letalità del 3,3% contro il 12,7% della Lombardia. Significa che sono stati fatti test anche ai contatti delle persone risultate positive e anche a persone con sintomi lievi o asintomatiche. È probabile che i dati del Veneto siano più descrittivi della relatà di quelli lombardi.

In mezzo, ci stanno modalità differenti di agire. A parole, sembra che fino a pochi giorni fa le regioni abbiano seguito le direttive nazionali: fare i tamponi solo ai sintomatici, ma non è chiaro se lo hanno fatto ai sintomatici in generale o solo a quelli gravi (più probabile la seconda). Negli ultimi giorni, oltre al Veneto, altre regioni hanno dichiarato di voler incrementare il numero di tamponi fatti, per avere un quadro più veritiero della realtà e per individuare sul nascere la presenza di eventuali focolai. Lo hanno annunciato Emilia Romagna, Piemonte, Marche tra le altre.

Questa discussione non è uno sterile dibattito tra accademici, perché sulla base di questi dati assistiamo all’altalena degli umori del paese, all’elaborazione di modelli e previsioni, all’emanazione di decreti che regolano la vita pubblica. Insomma, un bel problema.

Tampone sì, tampone no

Questo tweet dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scatenato un dibattito sull’importanza di fare più test (i famosi tamponi) per migliorare l’azione di contenimento della diffusione del coronavirus, ed è anche un tassello importante della discussione sui dati che abbiamo riportato sopra.

Da una parte, i fautori dei tamponi a valanga. Più tamponi si fanno più contagiati si scoprono, più contagiati si scoprono più teniamo sotto controllo l’epidemia perché li possiamo mettere in quarantena e evitare che contagino altre persone. Più in generale, avremmo un quadro più chiaro, trasparente e aggiornato della situazione che permetterebbe di capire meglio gli effetti delle politiche di contenimento messe in atto e di modificarle rapidamente se necessario.

Per questo, un gruppo di scienziati ha lanciato un appello affinché in Italia si facciano più tamponi per conoscere meglio la situazione, sostenendo che il problema dell’ingolfamento dei laboratori di analisi e dei costi potrebbe essere risolto con un paio di mosse.

Dall’altra parte, chi dice che fare più tamponi è più un danno che altro. Significa ingolfare i laboratori di analisi, che sono invece già pienamente occupati a lavorare con i casi più severi; inoltre, il tampone non dà un risultato certo. Una persona potrebbe non risultare positiva oggi ma esserlo domani, dipende dal momento del decorso in cui viene fatto il tampone. Immaginiamo le conseguenze di numeri consistenti di persone che hanno un esito negativo ma poi diventano positive dopo pochi giorni credendo di essere negative.

Ci ha pensato Walter Ricciardi, membro del board dell’OMS e consigliere molto ascoltato del governo nella gestione di questa crisi, a tracciare una linea in questa disputa. Anche i sud coreani, citati dai fautori dei tamponi a tutti come modello virtuoso, hanno in realtà fatto i tamponi solo ai sintomatici; e anche l’OMS, nel suo tweet, intendeva questo: fare tanti tamponi, ma solo ai sintomatici (in realtà nel tweet l’OMS diceva di fare i test ai sintomatici, ma poi anche a tutti i loro contatti).

Certo, la questione è ora cosa si intende per sintomatici. La critica ora riportata è che in Italia si facciano i tamponi solo ai sintomatici gravi, mentre in Corea del Sud si fanno a tutti i sintomatici, all’apparire dai primi sintomi. Ora, si sentono mille testimonianze divergenti: c’è chi racconta che gli è stato fatto il tampone a 37,5 di febbre e chi dopo una settimana di febbre a 39, quindi comprendere la realtà è davvero complicato. Anzi, probabilmente la realtà è questa: un paesaggio frammentato in base alle capacità del sistema sanitario nei diversi contesti.

Ora, in seguito a quel tweet dell’OMS alcune regioni hanno annunciato piani per incrementare il numero dei tamponi eseguiti. Lo ha fatto in pompa magna il Veneto, poi anche Emilia Romagna, Marche e Campania lo hanno annunciato. Vedremo come si darà seguito a questi annunci e quali saranno i risultati.

Una strategia scientificamente interessante sarebbe quella di fare tamponi a campione, per stimare in modo più verosimile la reale diffusione della Covid-19 e individuare precocemente possibili focolai prima di trovarsi le terapie intensive piene. Questa strategia appare però di difficile applicazione oggi, vista la situazione di emergenza. Potrebbe però essere una delle prime azioni da intraprendere appena la fase di crisi darà un po’ di tregua.

Non proteggiamo abbastanza gli operatori sanitari

2.898 sono gli operatori sanitari positivi al coronavirus al 18 marzo, oltre l’8% del totale dei positivi. A lanciare l’allarme è l’epidemiologo Nino Cartabellotta, che ci mostra come la curva del contagio tra gli operatori sanitari sia in netta crescita.

La cronaca non ci ha risparmiato le storie di medici morti da Covid-19, oppure di infermieri e infermiere esausti/e e privi degli strumenti di protezione necessari per lavorare in sicurezza. Il fatto che gli operatori sanitari non siano sottoposti a tamponi a meno che non mostrino i sintomi fa sì che gli asintomatici possano diventare fonti di contagio per colleghi/e e in ospedale.

D’altra parte, il crescente numero di operatori sanitari positivi rappresenta un grosso problema per strutture sanitarie già sottoposte a forte stress: il personale si riduce, e alcuni reparti hanno dovuto addirittura interrompere le attività perché gran parte del personale è dovuto entrare in quarantena.

Insomma, sembra davvero che in questa prima fase di emergenza non siamo stati in grado di garantire la necessaria sicurezza alle figure chiave in questa emergenza: medici, infermieri e operatori sanitari. E questa è certamente una grossa lacuna.

Il grosso problema con la terapia intensiva

Una delle questioni maggiori che ha spinto all’adozione di misure restrittive sempre più drastiche è il potenziale impatto della diffusione del contagio sulle capacità del sistema sanitario italiano.

La situazione è particolarmente preoccupante per la terapia intensiva, ossia quei reparti dove vengono trattati pazienti in condizioni di salute medio-gravi che necessitano di supporto continuativo e specialistico.

I posti in terapia intensiva in Italia sono poco più di 5.000, anche se in questi ultimi giorni sono stati aumentati in diverse regioni. I ricoverati in terapia intensiva per Covid-19 al 22 marzo sono 3.009, un dato destinato ancora a crescere, e che si va ad aggiungere al numero di ricoveri in terapia intensiva ordinari e non dovuti al virus. La situazione è particolarmente drammatica in Lombardia, ma anche Marche, Valle d’Aosta, Liguria e Piemonte sono sotto forte stress.

L’ulteriore problema è che aumentare i posti in terapia intensiva è molto complicato, e necessita di tempo e risorse: non basta aggiungere stanze e letti, ma ci vogliono attrezzature specialistiche e personale specialistico in grado di usarle. Inoltre, nello specifico del caso del Covid-19, occorre isolare completamente i reparti dedicati al ricovero dei malati, istituendo quindi blocchi dedicati solo a questo tipo di pazienti.

La sfida è quindi quella di riuscire ad incrementare i posti disponibili nel minor tempo possibile. Per questo è stato nominato il commissario Domenico Arcuri, perché coordini il potenziamento della terapia intensiva e la produzione e distribuzione dei ventilatori e degli altri macchinari necessari, oltre che di strutture e personale.

Secondo quanto riportato in un approfondito articolo di Valigia Blu, è stata svolta una gara d’appalto lampo per la produzione di 2.264 ventilatori polmonari per la terapia intensiva e di altri 1.654 per la terapia sub-intensiva, oltre ad altri macchinari ed accessori utili. I primi ventilatori dovrebbero essere consegnati nel giro di 3 giorni, e via via altri ne arriveranno nei giorni e nelle settimane successive.

Oltre a ciò, si stanno attrezzando anche le singole regioni: la Lombardia ha già incrementato i suoi posti disponibili di oltre 400 unità e altre ne prevede; Piemonte, Toscana e Veneto di oltre 100 unità; qualche decina di posti in più sono stati aggiunti anche nelle Marche, Lazio, Trentino Alto Adige e tante altre regioni; l’Emilia Romagna ne sta predisponendo circa 100 aggiuntivi a quelli ordinari. Anche le regioni del sud hanno dichiarato che si stanno attrezzando.

Immaginiamo che, passata la tempesta, seguiranno accese discussioni sulle capacità del sistema sanitario nazionale e regionale, e in particolare sulla disponibilità di posti in terapia intensiva. Obiettivamente 5.000 posti per un paese di 60 milioni di abitanti paiono davvero pochi. Ora però la sfida è aumentarli, e in brevissimo tempo.

Se stiamo a casa ci sarà un perché

E lo ha spiegato molto bene il ricercatore di Ispi Matteo Villa in un thread su Twitter. La questione è che non sappiamo chi è stato contagiato dal coronavirus. A parte i positivi al tampone, ci sono un sacco di persone che non sanno di essere contagiate, perché asintomatiche o con sintomi poco percettibili.

Una stima abbastanza plausibile è che i contagiati in Italia siano dalle 4 alle 8 volte più dei positivi. In pratica, a fronte degli attuali 47 mila casi attivi, ci sarebbero dai 200 ai 400 mila plausibili contagiati.

Come si ipotizza questo dato? A partire dal numero dei positivi e applicando il tasso di letalità plausibile di Covid-19, che sarebbe secondo gli studi e l’esperienza cinese di circa l’1-2%, anche se attualmente la letalità apparente in Italia è di oltre il 9% (ne parliamo sotto).

In pratica, ci sono un sacco di casi che non vediamo, eppure sono contagiati e contagiosi. Ma non sappiamo chi siano. Non c’è modo di isolare solo questi casi o di far sì che non contagino altri. L’unica soluzione è davvero quella di restare tutti a casa.

L’Italia ha un tasso di letalità superiore alla media. Come mai?

In questo articolo abbiamo spiegato, con l’aiuto di un epidemiologo, come leggere i dati sul coronavirus. Abbiamo spiegato il significato di parole come contagiati, positivi, guariti, letalità, mortalità, del senso e della validità di questi dati.

Ora torniamo sull’aspetto di senso e validità dei dati, approfondendo alcune questioni statistiche rispetto ai numeri del virus. In particolare, l’anomalia del caso italiano riguarda il tasso di letalità – cioè la percentuale di persone che muoiono sul totale delle persone ammalate – che appare decisamente superiore a quelli di altri paesi coinvolti.

Ora, l’attendibilità del tasso di letalità del coronavirus soffre di un grave problema, ovunque: non conosciamo il numero dei contagiati, perciò mettiamo in rapporto le persone decedute con i positivi, cioè coloro a cui è stato fatto il tampone e che sono risultati infetti dal virus.

Per questa ragione il tasso di letalità è inevitabilmente più alto di quello reale: in particolare in Italia è ora secondo i dati aggiornati al 22 marzo al 9,3%. La media mondiale è del 4,3%; in Spagna è del 6%, in Francia del 4,1%, in Cina del 3,9%, in Francia del 2,7%, in Corea del Sud dell’1,2%, in Germania dello 0,4%.

Il perché di queste differenze in realtà non lo sappiamo. Questo dato dipende da vari fattori e ancora non siamo in grado di spiegare quale prevalga. Non disponiamo infatti di tutti i dati per capire se dipenda dal numero di contagiati non rilevati, di morti non conteggiati, dall’età media dei positivi (che pare essere molto più alta in Italia che, ad esempio, in Corea del Sud), dalla risposta sanitaria o da altri fattori ancora.

Purtroppo però è evidente l’impatto sul tasso di letalità dell’efficacia della risposta sanitaria. Il grafico pubblicato dalla Fondazione GIMBE (che risale al 10 marzo, ma rimane valido nello spiegare il fenomeno) evidenzia come sia il tasso di letalità in Lombardia ad essere sproporzionato. Nino Cartabellotta, epidemiologo e presidente di GIMBE, attribuisce questo dato al sovraccarico della sanità lombarda.

Ripetiamo, non si tratta del tasso di letalità reale, perché si ipotizza che il numero dei contagiati non rilevati sia molto superiore al numero dei positivi effettivamente riscontrati, come abbiamo visto sopra.

In Cina ce la stanno facendo. Come?

L’analisi di quello che sta succedendo in Cina ci pare decisivo per comprendere anche quello che sta succedendo in Italia e in Europa. Abbiamo la “fortuna” di non essere i primi, e questo ci dà un enorme vantaggio: possiamo conoscere in anteprima il comportamento del virus, i suoi effetti, cosa funziona per contenere l’epidemia e cosa no.

In Cina infatti l’epidemia sta rallentando, anzi, si sta quasi fermando: dalla giornata del 18 marzo sono stati riportati solo casi importati, e nessun nuovo caso interno.

Cosa è successo dunque in Cina? Una risposta importante ci arriva da uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori di due università cinesi.

Attenzione: lo studio è stato rilasciato vista l’importanza della situazione, ma non è ancora stato sottoposto a peer review, che è la procedura utilizzata in ambito scientifico per validare le pubblicazioni ad opera di esperti che valutano gli articoli, esprimono un parere sulla loro pubblicabilità e suggeriscono modifiche. I risultati sono quindi preliminari.

Lo studio rivela una cosa fondamentale: in poco più di un mese, tra inizio gennaio e metà febbraio, il tasso di riproduzione del virus è crollato da 3,88 a 0,32. Significa che se all’inizio dell’epidemia ogni persona infetta contagiava in media altre 3,88 persone, dopo le misure adottate ogni persona infetta contagia ora 0,32 persone. È il dato decisivo per monitorare l’andamento dell’epidemia: se si porta questo tasso sotto a 1 significa che l’epidemia è destinata a fermarsi.

Come si è potuto ottenere questo straordinario risultato in Cina? Grazie alle misure restrittive imposte dal governo, misure restrittive che evidentemente funzionano. Già, ma quali misure? Le possiamo dividere in due gruppi, come riportato dallo studio.

Il primo gruppo di misure è simile a quelle che stiamo adottando anche noi. A partire dal 23 gennaio 2020 è stato imposto un cordone sanitario alla città di Wuhan, isolando oltre 10 milioni di persone. La circolazione è stata bloccata non solo in entrata e in uscita, ma anche all’interno della città. Altre misure sono state la sospensione del trasporto pubblico e del servizio taxi, la cancellazione di tutti gli eventi pubblici, l’obbligo di indossare la mascherina nei luoghi pubblici e le misure di igiene e di distanziamento sociale.

In questo gruppo di misure spicca la capacità delle autorità cinesi di controllare la loro effettiva applicazione: per verificare che le persone stessero effettivamente a casa, sono stati adottati sistemi di tracciamento degli spostamenti e di rilevazione degli stessi, ad opera ad esempio dei custodi dei condomini. Un livello di controllo probabilmente irraggiungibile in Italia.

Il secondo gruppo di misure è più strettamente di contenimento sanitario. A partire dal 2 febbraio, con un massiccio intervento del governo centrale per rafforzare l’apparato sanitario, è stato possibile introdurre la misura della quarantena centralizzata, non solo delle persone affette e sintomatiche, ma anche di coloro che erano entrate in contatto con queste persone. In pratica, le persone infette e i loro contatti stretti venivano portati in strutture sanitarie separate e dedicate alla quarantena. Misura anche questa poco praticabile attualmente in Italia per il 100% dei casi.

Il combinato di queste misure ha portato la Cina a vincere la battaglia, almeno in questo momento: nella regione di Wuhan il contagio si è fermato. Naturalmente niente è automatico, ma è un’importante conferma che le misure contenitive servono: vanno applicate seriamente, fatte rispettare severamente, e attuate con la collaborazione di tutti.

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