Napoli, amori e campionati: ogni volta mai più5 min read

17 Aprile 2016 Uncategorized -

Napoli, amori e campionati: ogni volta mai più5 min read

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Elfsborg, Boras, Svezia | @andreaardolino
Elfsborg, Boras, Svezia | @andreaardolino

Finisce senza misteri. Con gradualità e logica, in fondo. Dopo l’Inter, e a -9 dalla Juve, potrei ripararmi e dire: in realtà non ci ho mai creduto. Dire che abbiamo una qualificazione diretta in Champions alla portata, e se avete il coraggio di pensare che sia da buttare io la vedo diversamente. Un secondo posto non è da buttare. Neanche un terzo – o un quarto, un quinto, un quartultimo: dipende. Ma sarebbe tardi comunque. Lo è da gennaio. L’ho scritto dopo Frosinone che ci eravamo dentro fino al collo, qui e così:

Quando ci sveglieremo sarà tardi, sciocco e bugiardo negare che c’è stato anche un solo momento in cui abbiamo creduto che tutto – davvero tutto –sarebbe potuto essere possibile. 

Sì la Roma a Bergamo, ho visto. Ma questa cosa – questa Champions, questo secondo o terzo posto – c’entra poco con ‘sto dannato sogno vissuto questa stagione. Questa storia. Questo tumulto. Questo amore. Questo filo teso sul quale restare in bilico con i gol di un argentino e una chiara media in mano. Finisce così, ma non voglio risparmiarmi la delusione. Sarò sciocco e bambino come solo il calcio sa esserlo, a volte. Io la voglio, la delusione. La voglio tutta, la voglio per crescere. Lo ammetto: io in questa stagione ci ho creduto. Lo ammetto: io mi ero proprio innamorato di questa stagione. Non lo dico perché poi non succede, anzi non ci penso nemmeno, chissà! Poi non è successo comunque.

È domenica. Sono qui a scrivere dietro una tazza di tè in un pomeriggio mite e fermo, fuori è aprile con tutti gli alberi immobili. Finisce con il corpo e la mente provati, cocenti, travolti, e poi cotti, poi esausti, poi svuotati. Guardi gli occhi di lei che guardano i tuoi, non dite un cazzo e dite tutto. Finisce così, sì, una storia magnifica e ricca di credo, mani che si cercano, gol incredibili, quella volta in quel viaggio, tutto quanto e anche il resto. Anche le storie magnifiche possono finire, anzi forse soprattutto quelle. Forse proprio perché magnifiche, cosa ne so io. Stai lì, a pensare a quanto tutto sia precipitato in un pomeriggio a Udine, o al pub. Al mare, a casa, in viaggio, in auto. Lei che parla meno, poi poco, poi niente. Sembra che tutto accada in un messaggio, una confessione, in dieci o massimo quindici minuti. In novanta. O anche in uno solo, se giochi a Torino e ti ghiacciano con una rete nel finale.

Però mica finisce in dieci-quindici minuti, una storia. Neanche una stagione del resto. La fine non è un evento: è un percorso. È uno spartito che cambia stonando solo un po’, solo un passo, anzi un passetto, un semitono alla volta, in modi quasi sempre sopportabili, quasi mai irrimediabili. Senza acuti. Senza schiaffi. Senza vaffanculo definitivi o quattro sconfitte di fila.

@theguardian
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Siete solo voi che scegliete di iniziare a fare le stesse cose, dopo un po’. Gli stessi posti, la stessa musica, le stesse serate, due gin tonic. La stessa formazione. Lo stesso modulo. Uno non se ne accorge, ma lo fa. Perché una sera – o una partita – ha funzionato. Poi ha funzionato anche in un’altra. Altre due, tre, cinque, dieci. E allora perché non dovrebbe funzionare ancora? Riproviamo, per curiosità. Vedi che funziona! Che hai ancora voglia di farmi le sorprese, che abbiamo ancora la forza di non perdere quasi mai? Rifiutiamo l’idea dell’abitudine come quella di riconoscere la sua forza rassicurante. E anestetizzante.

Non finisce a Milano. Non finisce a Udine o a Torino, col Milan in casa o con Higuain fuori quattro turni, poi tre. Finisce un po’ alla volta. E tutto insieme. Finisce un po’ quando dormite nel letto di sempre, sì, stanotte però eravate di spalle: lo avete notato? Finisce un po’ con gli esterni di difesa fissi, sempre avanti e sempre indietro, e sempre con le stesse facce. Finisce un po’ quando qualcosa autorizza entrambi a tirare in ballo la stanchezza, per stasera: è un problema se ci vediamo domani? Quando si parla di orari, turni, palloni, campi. Finisce un po’ quando uno sbuffo nel niente è l’unica spiegazione che diamo, o quando un arbitro s’impossessa della lettura di una partita, poi di due. E poi, finisce con le promesse che ci facciamo: questa è l’ultima volta, l’ultima che finisco così dentro e così male. Così sotto. Finisce con una tonnellata di amarezza e due o tre patetici proclami, con te che ti guardi le spalle perché non vuoi altre delusioni. E perché sì, c’è la Roma.

Poi, in qualche modo – un modo sempre diverso – succede. Un incontro casuale, un po’ goffo e un po’ simpatico. Quattro parole, se tutto va bene un sorriso. Succede che riprende. Il campionato lo hanno vinto ancora gli altri, sì, ma succede che riprende. Che tu, riprendi. Riprendono quelle maglie a fare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti-e-indietro. Ti prende un sorriso nuovo. Riprendono le rimonte incredibili e riprendi tu, sciocco e bambino come solo gli adulti sanno essere, a guardare negli occhi una persona senza parlare, a dire comunque ogni cosa. Riprendono le trasferte, le file per i biglietti, i messaggi ai novantesimi. Riprendi a dire che vuoi bene, anche se piano. Riprendi a dormire negli aeroporti, a terra, in attesa del Francoforte per cambiare verso la Svezia, anche se in campo quelli corrono per i milioni e anche se il pavimento, almeno per ora, resta sempre duro.

Finisce che ogni volta finisce. E tutte quante, poi, riprende.

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Napoli, luglio '87. Due mesi prima gli Azzurri vincono lo scudetto, lui arriva in ritardo. Una laurea in Storia contemporanea, ma scopre che la Storia non si ripete. Poi redazioni, blog, libri, ciclismo, molti aerei, il tifo, la senape, la vecchia Albione, un viaggio di 10mila km in camper in capo al mondo. Per dimenticare quel ritardo sta provando di tutto.
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