C’era una volta Morricone (e c’è ancora)11 min read

17 Agosto 2015 Cultura -

C’era una volta Morricone (e c’è ancora)11 min read

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morricone e il cinema: l'importanza della musica
@Riccardo Galletti

“… la musica nel cinema provvede alla sostituzione di tutti gli altri sensi” (Ernst Bloch)

Musica e Cinema

Quando si dice il caso e quanta poca poesia. Sembra incredibile ma il binomio musica e cinema nasce per pure contingenze tecniche: la necessità di coprire con dei suoni il rumore delle apparecchiature di proiezione. Da lì a poco si sentì poi l’esigenza di un pianista davanti allo schermo che potesse commentare e sottolineare con le note i passaggi emotivamente più pregnanti di un film. Col passare degli anni (e l’evoluzione delle tecnologie applicate anche al settore dell’intrattenimento) si arrivò alla sincronizzazione dell’immagine con la musica, fu l’ora insomma del cinema sonoro più o meno come lo intendiamo noi oggi.

Non ci interessa in questa sede fare una pedissequa cronistoria del rapporto tra cinema e musica quanto piuttosto in poche battute cercare di evidenziarne la loro intrinseca “complicità”. Emblematiche in questo senso le parole del regista iraniano Abbas Kiarostami a proposito del rapporto tra sonoro e arte cinematografica:

“il suono è molto importante, più importante dell’immagine… attraverso la ripresa visiva noi arriviamo, al massimo, a ottenere una superficie bidimensionale. Il suono conferisce a questa immagine la profondità, la terza dimensione. È il suono a colmare le lacune dell’immagine”.

Capiamo ora quanto gran parte della peculiarità empatizzante del cinema sia proprio dovuta alla sua traccia sonora (o alla sua assenza, anche il silenzio è un suono come hanno insegnato stupendamente registi del calibro di Bresson, Cavalier, Chabrol e Resnais per citarne solo alcuni). La colonna sonora (quella che gli americani chiamano soundtrack) e la sua declinazione artistica (cioè l’apporto di un professionista che compone e/o seleziona musica per un film, che oltreoceano chiamano score) non sono quindi solo una parte del processo produttivo della macchina cinema ma ne costituiscono un momento artisticamente fondante.

In questo senso è assai indicativa un’altra frase alla stregua ormai di un detto popolare che recita:

“la musica non serve a fare bello un film, serve proprio a fare un film”.

Ecco allora che se musica e immagini al cinema sono intimamente necessari l’un l’altro, quand’è che questo binomio si espleta nelle sue forme più felici?

In sostanza (e generalizzando non poco) questo avviene ogni volta che la musica non prende il sopravvento sulle immagini, non fa da mera e standardizzata tappezzeria sonora (i “classici” violini nelle scene d’amore, il vibrato degli archi nei momenti di suspence, il jazz o il charleston per il noir, il poliziesco o il genere gangster, la musica elettronica nel cinema di fantascienza) e non serve solamente a riempire i raccordi descrittivi o narrativi (dai paesaggi alle ellissi, per esempio). Assai lungo per fortuna sarebbe elencare tutte quelle volte che le musiche sono state capaci perfettamente di aderire agli umori e alle atmosfere di un racconto cinematografico, assai più breve tentare di omaggiare chi, nel corso ormai di una più che quarantennale carriera, ne ha dato costantemente e (quasi) ogni volta riprova: Ennio Morricone.

Morricone e il cinema

L’esordio di Morricone al cinema nel 1961 ne Il federale di Salce. Le prime esperienze cinematografiche sono legate al filone della commedia leggera con conseguente musica facile e non particolarmente impegnativa, anche se sui titoli meno banali del genere (da La cuccagna a Slalom) confeziona già partiture più che interessanti. Poi sotto lo pseudonimo, come andava allora, di Dan Savio, comincia il sodalizio artistico con l’amico Sergio Leone (i due si conoscevano fin dagli anni della scuola elementare, frequentata assieme in via Trastevere a Roma) in Per un pugno di dollari.

Sull’importanza dell’apporto delle musiche di Morricone nel ribaltamento leoniano dei cliché del western classico torneremo più tardi. Ora basti sapere che se da una parte Morricone attraverso l’utilizzo di ritmi forti, sonorità beat, suoni stravaganti (il fischio, il carillon, la campana) è fondamentale nel conferire al cinema western leoniano quella patina surreale, quelle atmosfere stralunate e dilatate, dall’altra negli stessi anni è capace senza difficoltà di recuperare gli umori e i suoni rarefatti del suo essere musicista “da concerto” e concepire atmosfere puramente armoniche, timbriche, “aristocratiche”, suoni rigorosi e “chiari” per film come Un tranquillo posto di campagna, Teorema, Metti una sera a cena, Queimada e La battaglia di Algeri.

L’apogeo in questo senso lo trova con la raffinatezza delle partiture per due giovani e arrembanti registi, Bertolucci e il suo Prima della rivoluzione, Bellocchio e il suo folgorante esordio I pugni in tasca. morricone e il cinema: colonna sonora i pugni in tascaIn questo caso l’intuizione di Morricone è quella di rendere il disordine mentale del giovane protagonista Lou Castel attraverso un procedimento di rottura costante della linea melodica, soluzione che si rileva perfettamente aderente anche ad una costruzione filmica che tende volutamente a spezzare di continuo ogni senso e narrazione logica.

La fine degli anni sessanta segna anche l’inizio e l’acme della contestazione giovanile. Il cinema si adegua e sforna tutta una serie di instant movie, molti dimenticabili, altri piccoli gioielli magari datati al giorno d’oggi ma assai interessanti e antesignani per l’epoca, soprattutto sul fronte della ricerca linguistica sulle immagini. Su tutti Partner di Bertolucci e Escalation di Faenza, film la cui riuscita si deve anche alle musiche di Morricone, capace di percorrere una terza via rispetto al genere western all’italiana e al filone cosiddetto “aristocratico”, via che lo porta a partiture caratterizzate da gustose contaminazioni, vivaci coloriture, canzonature varie, riletture beffarde e spiritose di brani preesistenti (per Partner scriverà una “ ballata della lavatrice automatica”, una sorta di orgia-delirium musicale che “celebrava” l’avvento della tecnologia come ineluttabile mostruosità sociale).

Gli anni a seguire lo vedono particolarmente prolifico e cimentarsi coi generi (e gli autori) più disparati. Va da sé che tanta produzione lo porta a risultati assai discontinui dove se, ad esempio, le collaborazioni con l’enfant prodige Dario Argento (L’uccello dalla piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio, Il gatto a nove code) si segnalano per la felice intuizione del perturbante attraverso la scrittura di nenie infantili, assai più scontati e di routine si rivelano i suoi interventi nel filone demoniaco (L’anticristo), tra gli epigoni dei gialli argentiani (Chi l’ha vista morire? di Lado, Cosa avete fatto a Solange? diretto da Dallamano) e su certo cinema thriller-poliziesco. Qua abbonda il già sentito, il sentimentalismo più scoperto, ammiccamenti eccessivi e “telefonati” al lugubre o al ballabile. In quegli anni è invece non lavorando sul genere e con autori celebri e celebrati per il loro rigore che Morricone dà il meglio di sé, riscoprendo la sua recondita vena sperimentale e il suo talento nella lettura delle immagini.

morricone e il cinema: colonna sonora allonsanfanEcco allora le partiture “asciutte” e “discrete” per Allonsanfan dei fratelli Taviani, la cui chiave melodrammatica si rivela perfetta per raccontare l’afflato storico del film e la condizione esistenziale del protagonista e per Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, film la cui sospesa e angosciosa ieraticità deve molto a musiche ridotte quasi all’osso, capaci però di fondere con grande armonia le influenze mitteleuropee, l’esistenzialismo di fondo e la minaccia orientale (l’uso in questo senso di trombe e oboe a “vagheggiare” l’arrivo dei Tartari).

Continuano in quegli anni le collaborazioni con Pasolini, l’ultimo, quello della Trilogia della vita, e con Bertolucci (per il monumentale affresco Novecento). Per il primo però Morricone preferisce assemblare materiale già preesistente, per il regista parmense invece si adagia un po’ troppo su ritmiche al limite della retorica. Ancora una volta è quando può sperimentare che riesce ad assecondare al meglio con la sua musica il racconto cinematografico. È il caso del grande cinema d’impegno politico e sociale dell’epoca e delle splendide partiture per Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il grande film di Petri, e per L’istruttoria è chiusa: dimentichi, il dramma carcerario diretto da Damiano Damiani dove utilizza al meglio la novità dei suoni elettronici.

Gli anni ottanta segnano un fisiologico rallentamento della sua produzione e il suo definitivo abboccamento con il cinema hollywoodiano. Segnano anche la genesi del testamento capolavoro di tutto il cinema leoniano, C’era una volta in America che consegna ai posteri una delle colonne sonore più epocali dell’intero secolo cinematografico. L’America, non più quella di Leone, ma quella intesa come grandi produzioni ad alto budget lo vede coinvolto e con grande mestiere nelle partiture per Mission di Roland Joffè dove asseconda al meglio le atmosfere e i suoni indigeni della colonizzazione spagnola e Gli intoccabili, il possente omaggio al gangster movie di Brian De Palma. L’incontro con Tornatore è il vero ultimo e al contempo nuovo e stimolante sodalizio che Morricone ha con un regista.

morricone e il cinema: colonna sonora nuovo cinema paradisoDue gli esempi su tutti. La partitura concepita dal nostro per Nuovo cinema Paradiso, la cui precisa armonia trasognante coincideva perfettamente con le atmosfere nostalgiche evocate dal regista siciliano e la rinnovata spinta alla sperimentazione riscontrata nel recente La sconosciuta, con una partitura straordinariamente agile nell’assecondare i vari registri (linguistici ed emotivi) del film, tutta costruita e amalgamata su piccoli tocchi e dissonanze. E, a proposito di sperimentazione, torniamo indietro, alla felicissima collaborazione con Leone e la sua personalissima “riscrittura” del cinema western.

Morricone e il Western

Il western all’italiana o lo spaghetti western che dir si voglia segna una profonda, radicale “variazione sul testo” di tutti i topoi del cinema classico di frontiera. Lontano dalla malinconica mitologica di un Ford o di un Hawks, la reinvenzione del genere portata da Leone stava tutta nel sabotaggio di qualsiasi appiglio eroico o mitopoiesi, con la realtà che diventa iperrealismo e l’eroe (e il suo eroismo) che si spegne da una parte nella ieraticità, dall’altra in una sferzante e cinica ironia. L’apporto di Morricone in tutto questo ribaltamento di senso fu all’epoca fondamentale e in assoluto innovativo.

Il primo passo fu quello di abbandonare in toto la tentazione di scrivere arie puramente evocative, meri commenti sonori all’immaginario classico (pensiamo ad esempio al paesaggio) del genere western. Il secondo quello di non cavalcare neppure la tendenza alle abitudini melodiche di gran parte del cinema italiano di quel periodo. Il terzo fu ca(r)pire alla perfezione quasi in senso osmotico le novità portate dalla lettura leoniana, lettura che andava a cortocircuitare nel racconto filmico i concetti di tempo e spazio. E se era la macchina da presa (e il montaggio in seguito) a dilatare lo spazio, era proprio la musica ad avere il compito di riempire il tempo, un tempo che non aveva più nulla a che fare con quello della vita reale.morricone e il cinema: colonna sonora di Per un pugno di dollari

Di qui l’utilizzo degli oggetti che hanno la funzione di veri e propri strumenti musicali (a metà strada tra l’evocativo, lo stravagante e lo sberleffo), di qui il ruolo simbolico, alla stregua di un poncho piuttosto che di una pistola o di un sigaro, che assume tutto il commento musicale. Così l’armonica diventa non solo elemento feticista nel racconto ma assume anche un significato particolarmente sinistro, così come il senso funebre dato dal ticchettio dell’orologio e dalla campana o il rimando dell’incedere della morte dato dalle corde tirate della chitarra spagnola.

A conferma di ciò lo stesso Leone, in un’intervista rilasciata alla rivista Bianco e Nero nel 1971, commentava:

“Un’altra dimensione principale del film è la musica, perché io attraverso la musica posso esprimermi, è come un’onda di sentimenti che avvolge i personaggi che non sono mai esteriori e che non si lasciano mai andare ad un romanticismo ostentato, ma che pure hanno un sentimento, sentimento spesso sconosciuto anche a loro stessi, ma che esiste, e data la sua irrealtà, non può essere rappresentato che dalla musica”.

Ultimo movimento (e c’è ancora)

Al di là di una strepitosa carriera piena di successi e costellata di premi, buon ultimo (e quasi riparatore) l’Oscar alla Carriera ricevuto a Los Angeles, l’indagine sui rapporti tra Morricone e il cinema rimane tuttora controversa. Mai troppo amato dai critici, che gli hanno a più riprese rimproverato un’impostazione del lavoro fin troppo meccanica e quasi “industriale” oltre alla tendenza soprattutto nelle ultime prove all’autocitazione e all’eccessivo compiacimento, in realtà ciò che rimane, tirate le somme di quaranta e più anni di carriera, è un musicista di raro e intenso talento, capace come pochi (forse il solo John Williams, l’altra immensa icona delle musiche da film) di svecchiare prima, innovare poi il concetto di musica per il grande schermo.

Duttile, sensibile ai cliché propri dei vari generi cinematografici, semplice (e per questo efficace ed insinuante) ma al contempo musicista brillante (celebri le sue “trovate” sonore in molti dei film da lui musicati), complesso, sfuggente, talmente difficile da incasellare da aver trovato posto nell’immaginario di un’intera arte, quella cinematografica.

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Sceneggiatore e produttore di cortometraggi, videoclip, video educativi, spettacoli teatrali. È speaker radiofonico presso Radiofano dove si occupa di rubriche cinematografiche. Collabora con RSM-Radio San Marino e con MondoRadio. È il fondatore di Lobecafilm che si occupa di realizzazioni audiovisive. Il cortometraggio Sotto il mio giardino da lui co-sceneggiato ha ottenuto il Golden Globe Italiano nel 2009.
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