Mondo di Comunità e Famiglia, un dialogo con Bruno Volpi31 min read

21 Novembre 2017 Società -

Mondo di Comunità e Famiglia, un dialogo con Bruno Volpi31 min read

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Bruno Volpi a Castellazzo
Bruno Volpi [immagine gentilmente concessa da MCF]
Il 6 febbraio 2007 ero piuttosto curioso quando intervistai Bruno Volpi per la tesi “Antichi valori e realtà sociali di oggi: il caso delle comunità di famiglie dell’associazione Mondo di Comunità e Famiglia”: senza lui e sua moglie Enrica Corti non ci sarebbe stata la comunità di Villapizzone, come la conosciamo oggi, e io non avrei scritto quella tesi. Bruno non volle rileggere il testo del nostro dialogo, ma mi chiese di mandargli una copia del lavoro ultimato. Non lo feci mai.

Riporto la conversazione tra noi come la sbobinai, limitandomi in questo post a ridurre passaggi esageratamente colloquiali. Bruno è morto il 16 settembre 2017.

Pocket Nius: da sapere in breve

1. Bruno Volpi (1937-2017), è originario di Mandello del Lario, paesino sul lago di Lecco.

2. Dopo 8 anni di volontariato internazionale in Rwanda con il CELIM, nel 1971 rientra in Italia con la moglie Enrica Corti e 5 figli e nel 1978, insieme alla famiglia Nicolai e ad alcuni padri Gesuiti, avvia l’esperienza comunitaria di Villapizzone, nella periferia milanese.

3. Nel 1994 Bruno ed Enrica lasciano la comunità di  Villapizzone  per dare vita ad una comunità sorella, la prima di quelle che diventeranno 36 in 9 regioni italiane: la comunità di Castellazzo di Basiano.

4. Oggi l’esperienza di Villapizzone è diventata un’Associazione di Promozione Sociale chiamata Mondo di Comunità e Famiglia: alle comunità si sono aggiunti gruppi di lavoro e di condivisione, charity shop e realtà lavorative. Un mondo.

5. Porta aperta, accoglienza in famiglia e tra famiglie, convivialità, il metodo della condivisione e la cassa comune sono le buone pratiche individuate come caratterizzanti questo percorso.

Comunità il Cortile di san Giorgio (BG)

Mondo di Comunità e Famiglia, intervista a Bruno Volpi

Paolo Dell’Oca: …e quindi sono andato in giro a cercare documenti, come dalla Linda e Maurizio di Castellazzo. E loro m’han dato tutti i libretti, gli opuscoli degli incontri che fate, tutti stampati bei colorati. Per me magnifico, è un materiale incredibile.

Bruno Volpi: Tieni conto che non è tanto quello che facciamo, ma quello che vorremmo fare. Che poi San Paolo lo diceva 2000 anni fa, diceva: “Dentro di me c’è l’uomo buono che capisce qual è il bene, e l’uomo cattivo che fa il male”. Ma anche i Romani dicevano già: “Vedo il bene”; ma era proprio una frase non so più di quale scrittore latino che diceva: “Video meliora proboque, deteriora sequor”. “Vedo il bene ma al peggiore m’appiglio”. San Paolo l’aveva detto anche lui, perché siamo fatti così, insomma. Allora anche noi riusciamo con la testa a ragionare: vedi delle belle cose, poi, sai, io non… Cioè se avevo qualche dubbio sul peccato originale non ce l’ho più, il peccato originale è quella roba lì.

E noi siamo ancor più colpevoli perché in questa vita che facciamo, in questo modo di vivere è più facile vedere le cose buone, vedere quello che sarebbe… però dopo ti scontri colle tue miserie e… basta, sono un po’ misericordioso verso me stesso, ma le miserie degli altri… avevo letto da qualche parte che la cosa più difficile è accettare la mediocrità degli altri… micidiale, eh? [annuisco ampiamente]

P: E in questa ricerca di materiali sono incappato nel libro Un’alternativa possibile. Bestia, quando l’ho trovato sono stato molto contento da una parte un po’ abbattuto dall’altra, perché Un’alternativa possibile impostava il lavoro un po’ come l’avrei impostato io e quindi ho detto “Porcamiseria, è la mia tesi!”.

B: Usalo così, ti autorizzo io. Ma sai quel libro lì è nato da una chiacchierata così. Qua c’era un prete… Il Cardinal Martini, il vescovo, l’ha mandato qui, è stato un po’ coi Gesuiti, poi è stato un po’ in casa mia… E abbiam chiacchierato tanto.

Beh, insomma, questo qui mi dice: “Bruno, ma sai che queste cose qui bisognerebbe scriverle?”. “Ma io, sai, sono un chiacchierone, non so scrivere”. “Eh, ma allora…”. Abbiam cominciato a parlare, parlare, parlare, è venuto fuori quel libro lì, infatti poi abbiamo aggiunto, perché quella lì è una seconda edizione, dovremmo farne una terza, ma ormai continuiamo a ristamparla… Perché è incredibile come gira quel libro lì!

P: Solo io quando l’ho portato a casa, poi ne ho parlato a miei amici e così poi ne ho dovute ordinare 4 copie da dare in giro.

B: Ma davvero… Mi telefona una donna: “Io sono in carrozzina, sono paralizzata, quando sono depressa leggo un pezzettino di quel libro lì”. Ho detto: “Oh, cavolo guarda che responsabilità scrivere qualche cosa”. Io dopo devo correre in giro per l’Italia perché chi ha letto il libro dice: “Oh, allora è successo, è possibile, voglio farlo anch’io!”. Certo è possibile, però calmi, non voglio aver nessuno sulla coscienza… Ma è vero, eh! Ormai a Palermo e a Bolzano è uguale: credo che si senta un bisogno anche inconscio che c’è nell’uomo a una certa età quando ti avvicini dai 30 ai 40.

P: Certo: l’acquisizione della consapevolezza che le cose non vanno come si vuole.

B: Eh, e non è vero che forse è stata un’illusione?

P: Ci sono alcuni punti che sono… Soprattutto quello del lavoro… soprattutto!? Bah, ce ne sono tanti. A me ha colpito anche quello del lavoro. Che tu ritorni dall’Africa e…

B: È stato micidiale, anche l’altra domenica ero a Bologna a discutere “Famiglia e lavoro”. Il lavoro è tremendo per la persona, ma se tu guardi la famiglia di fronte al lavoro è ancora più tragica la faccenda. Io son convinto che uno che vuol far carriera è meglio che non si sposi.

Una sera una ragazza che era da noi per un periodo, in un momento così, di sconforto, dice: “Secondo me gli psicologi non dovrebbero sposarsi, o per lo meno non dovrebbero fare figli”. Ecco, io credo che è questo il problema. I figli dovrebbero farli chi intraprende la carriera di genitori. Non ci vuole un’altra carriera, se no è schizofrenia. Ah, noi che abbiamo qui i risultati di questi matrimoni sappiam bene cosa vuol dire… non è un obbligo fare figli!

P: Certo, infatti se ne fanno anche di meno.

B: Ah, certo, ma è proprio una vocazione, una carriera, chiamala in termini spirituali è una vocazione, chiamala in termini professionali è una carriera: io faccio la mamma, io il papà. Certo bisogna lavorare, però il lavoro diventa secondario. E se voglio farlo bene dovrò ridurre il consumo, quello è il problema.

Comunità di Mondo Comunità Famiglia
Comunità il Cortile di san Giorgio (BG)

P: Io sono stato incuriosito da un’espressione che non so se ho esattamente compreso: tu definisci la vita in comunità pacificata e non pacifica. La mia interpretazione è che la vita pacificata avviene quando c’è stato un contrasto, e quindi viene pacificata, se è già pacifica, dici tu, non c’è bisogno.

B: Ma infatti! Se tu hai in mente una frase del Vangelo, dice: “Io non sono venuto a portare la pace, son venuto a portar la guerra”. Sì, straparlando di sentimenti che o tu li lasci stare, vivi, muori, non ti accorgi di niente, oppure se li affronti almeno puoi cercare di metterli un po’ in ordine. Io credo un po’ in questo; c’è poi uno di noi, Giampiero Zendali, molto bravo.

Lui ha vissuto in una comunità che si è sfasciata; proprio è esplosa, e il Giampiero c’era dentro. Ci ha voluto una decina d’anni per digerirla! E l’ha digerita quando ha incontrato il Mondo di Comunità e Famiglia. E all’interno del Mondo di Comunità e Famiglia lui si sta specializzando in questa operazione di riconciliazione con se stessi, con gli altri, col mondo. E fanno gli incontri di 2, 3 sessioni… Per dirti di quanto c’è bisogno di questa rappacificazione! No, no, la comunità non è un posto pacifico!

P: Infatti voi sottolineate la normalità dell’esperienza.

B: Mh, e uno dei Gesuiti diceva all’Enrica quando era un po’ agitata: “Un bicchierino di «me ne frego»”, e ancora è il modo per rappacificare. Gesù Cristo che dice: “I poveri li avrete sempre tra di voi”, vuol dire la stessa cosa: e ma non è l’altra, magari sei tu! Un altro Gesuita l’ha tradotto un po’ meglio questo concetto, citando una frase di un santo russo, che dice: “Trova la pace interiore e una moltitudine intorno a te troverà la salvezza”. Stai tranquillo! Bevi un bicchierino di “me ne frego”!

P: Io sono molto colpito dal passaggio in cui tu dici: “Quando facciamo gli incontri di comunità e c’è il problema da risolvere, noi abbiamo il mito dell’efficienza”, no? “Quando non risolviamo il problema la coppia nuova dice: «Come? Non abbiam risolto il problema, non possiamo andarcene!»”, e tu dici: “Risolvere il problema vuol dire dividerci ed è più importante restare insieme piuttosto che separarci”.

B: Io non ero uno che aveva letto molto il Vangelo, però adesso trovo molte affinità in quello che dici tu: “Cosa conta per l’uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde l’anima?”. Dice: “Cosa conta risolvere i problemi se poi riperdi”, no? È meglio così. Invece il nostro mondo, no: hai un problema? Parliamone! Quante notti -soprattutto all’inizio, poi abbiam capito che non era lì il problema- ma quante notti abbiam passato a discutere, a parlare, a parlare. Poi c’era uno dei Gesuiti diceva che abbiamo la riunionite, una malattia di cui dobbiamo guarire. È vero, eh! Questa qui è un’altra illusione, anche tra marito e moglie non è vero che si possono mettere a posto le cose! Ci si può accettare.

Io ho fatto per anni l’operatore in gruppi di alcolisti, l’operatore in un gruppo di alcolisti ha il compito di… aiutare è una parola difficile, ma comunque ha il compito di aiutare l’alcolista a portare il suo peso, perché il peso ce l’avrà sempre. Non è che una pastiglia guarisce e lui non è più alcolista, no, lui sarà alcolista tutta la vita, ha il fegato bucato. Allora è di aiutarlo a portare il proprio peso, ma non è mica il problema di tutti i giorni.

P: Un discorso simile a quello me l’hanno fatto quando ero volontario in una comunità di recupero tossici e loro dicevano: “Chi è stato tossico rimarrà tossico”. Fai il percorso, esci bene, ma comunque non ci devi mai pensare troppo…

B: E chi non è tossico e chi non è alcolista, è a rischio di alcolismo e di tossicodipendenza, questo è da capire: uno che beve un bicchiere di vino, diceva un nostro psichiatra che aveva messo a fuoco un po’ questo metodo, diceva: “Se tu bevi un bicchiere di vino, sei a rischio di alcolismo”; se sei astemio, no, avrai un altro rischio, ma se bevi e diventi alcolista il giorno in cui incontri un problema e non riesci ad affrontarlo e il bicchiere ti aiuta ad evaderlo. Ecco, l’alcolismo.

P: Per l’incontro con te ho preparato tre aspetti, molto ampi, premesso che per quanto riguarda i valori e la storia di Villapizzone ho attinto ai libri e ai fascicoli.

B: Eh, scusa, avrai visto che non abbiamo inventato niente.

P: Eh, sì [ridendo in palese disaccordo], ho visto che lo dite!

B: Sono tutti valori che dovrebbero essere bagaglio della nostra cultura…

P: È vero però l’esperienza che avete fatto ha creato un circuito…

B: Una prassi!

P: Una prassi che dà speranza, però!

B: Sì: una prassi per tentare di vivere quei valori che sono il nostro bagaglio, ma che in questo frangente storico diventa difficile. Il “fidarsi” non l’abbiamo mica inventato noi!

P: No, però ne avete restituito un senso. Poi sai: la parola la usi così tanto che si slabbra, perde di significato.

B: Certo.

P: E la distinzione tra la carità cristiana, per dirne una, e un certo tipo d’accoglienza è qualcosa di molto interessante per chi vive l’oratorio, la Caritas…

B: Eh sì, noi poi che veniamo dal mondo cattolico ne abbiamo da imparare.

P: Appunto: non abbiamo spesso questo tipo di autocritica.

B: Appunto, Martini lo spiegava bene, eh? Diceva che noi non dobbiamo essere un’ambulanza, che è la traduzione in altri termini di “i poveri li avrete sempre”.

Comunità del Castellazzo di Basiano (MI)

I cambiamenti nella storia di Mondo Comunità e Famiglia

P: E quindi i tre aspetti che volevo indagare erano i cambiamenti, i limiti e il futuro. Per cambiamenti intendo i cambiamenti più importanti nella storia di Villapizzone; quali i limiti dal tuo punto di vista se ci sono state delle difficoltà e quali sono quelli che per te non sono risolvibili, e, quello che mi interessa un po’ di più, è il futuro, cioè, come vedi l’esportabilità.

B: Beh, intanto, i cambiamenti. Noi non siamo nati con un progetto. Eravamo molto empirici! Noi in quegli anni per vivere abbiamo capito: l’unico modo per sopravvivere in quel momento storico, all’età che avevo, con i figli che avevo, col peso che avevo, non ho trovato altro… perché non riuscivo più a stare dentro nello schema, allora è stare ai bordi in un altro modo.

Però la mia fortuna è stata che ho trovato in quel momento storico, che aveva tanti che non avevano fatto l’Africa, che non avevano le idee, l’esperienza mia. Dicevano: “Io so bene che cosa non voglio fare, però non so che cosa fare”. Ce l’avevano colla Chiesa, collo Stato, colla famiglia, col lavoro… con tutti, ce l’avevano! I giovani degli anni ’70 eran questi… poi, molti di loro son finiti impigliati nelle Brigate Rosse, ma originariamente eran questi. Venivano quasi tutti dall’oratorio, ma anche quelli delle Brigate Rosse avevan studiato dai Gesuiti, dicevano.

Ecco: non avevamo un progetto, avevamo bisogno di vivere; e uno diceva: “Io sto con te, però il giorno che… Io ti saluto e me ne vado!”. Benissimo, io non voglio avere problemi e sullo stomaco perché… Io faccio festa quando uno se ne va, perché vuol dire che ha trovato la sua strada.

Ecco, quindi siamo nati così: molto aperti anche al cambiamento! Quando abbiamo fatto il contratto di questa casa, il proprietario si è meravigliato che io ho chiesto 9 anni, – perché io non credevo di resistere 9 anni – ho detto: “Chissà dove saremo tra 9 anni!”.

Erano tempi (contrariamente a questi in cui subisci la precarietà), noi in quegli anni abbiam cercato la precarietà. Avevamo un posto di lavoro fisso, e invece abbiam cercato la precarietà. Ah… vivere alla spera in Dio, vivere giorno per giorno, andare a sgomberar cantine, eccetera: per un laureato o diplomata era un voler vivere liberi. Però bisognava mangiare e la roba più semplice era sgomberar cantine e lì di lavoro ne avevamo tanto; guadagnavamo poco, e il fatto che guadagnavamo poco ci teneva uniti, se avessimo guadagnato tanto uno si credeva autosufficiente. Ecco: l’autosufficienza.

Tutte quelle cose qui però le abbiam capite dopo: noi a quel tempo ci bastava quello. Il cambiamento che abbiam fatto è prendere un po’ alla volta coscienza che quelle cose lì erano così perché avevamo quei bisogni lì. E io credo che oggi la cosa più difficile è riconoscere i bisogni.

Perché la nostra cultura ci fa dire: “Io non ho bisogno di nessuno”. Tu sei stato coi tossicodipendenti: è una frase che hanno sempre in bocca, gli alcolisti uguale, “Io smetto di bere quando lo dico io: io non ho bisogno di nessuno”. E non smettono mai. Ma c’è un’ambiguità lì che… non un’ambiguità, non è giusta la parola ambiguità; c’è una confusione, un tranello: “Io non ho bisogno di nessuno” è sbagliato, “Io voglio fare la mia strada, ma ho bisogno di te! Non che tu mi porti lo zaino, ma ho bisogno”.

Questa è stata un po’, a volte, capire quelle cose qui. Allora se io ho bisogno di te, per stare insieme a te, io non posso pretendere che tu ragioni come me. E lì è nato il patto: mettiamoci d’accordo che tu sei diverso da me, non troviamo un accordo, hai un problema, parliamone, no? Ecco, i cambiamenti sono stati di questo tipo. C’è voluto vent’anni, infatti per vent’anni siam rimasti qui bei tranquilli… Tranquilli, si fa per dire, qui!

Poi, quando abbiamo cominciato, un po’ perché i figli sono diventati grandi, un po’ perché girava molta gente, e noi dicevamo: “Eh, noi facciamo così, provate anche voi!”. Ma non era più sufficiente, dentro di me non era più sufficiente, come potevo dire a tutti quelli che venivano qui: “Fai anche tu così”? Mi sembrava (e poi dal punto di vista economico magari salta fuori dopo)… Mi sembrava di prendere coscienza del dono, l’Enrica lo diceva, quando passeggiavamo nel parco: “Ma perché noi abbiamo 20,000 metri di parco e quella gente qui due metri quadri di terrazzina?”. Allora dicevamo: “Questo dono che abbiamo ricevuto non possiamo tenerlo noi”.

Quindi abbiam capito un po’ alla volta che non potevamo privatizzare il bene ricevuto, ma dovevamo dare una valenza (ecco il cambiamento, anche) ma dovevamo dare una valenza sociale alla nostra vita, quella è la felicità. Ce lo dice il Vangelo, la parabola dei talenti, ce lo dice la Costituzione che il cittadino deve.… è così: i cambiamenti sono stati di questo tipo, non è che abbiam cambiato molto, abbiam cambiato… e io vedo adesso nelle famiglie giovani che arrivano che grosso modo stan facendo quel percorso lì. E che devi lasciargli tutto il tempo necessario.

Poi, è per quello che allora facciamo un patto. Io ho 70 anni, non posso essere uguale a te, sarei uno stupido. Allora, però, rispettiamoci: io dico la mia, ho il dovere di dire la mia, non ho il diritto di pretendere che diventi la tua. Questo è la presa di coscienza: che io capisco che nelle comunità qualcheduno ci sta arrivando, qualcun altro è ancora molto lontano, ma se l’ho fatto io quel percorso lì devo permettere che… Come i genitori non possono pretendere di accorciare, evitare che i figli facciano la loro strada, anche se vogliono… chi insiste troppo castra i figli… e poi tu, vedi che sbagliano. Hanno il diritto di sbagliare.

Ecco, la comunità è anche il luogo dove hai anche il diritto di essere te stesso o di sbagliare (detto in altre parole) senza farsi troppo male. Che hai sempre la possibilità di ritornare. I ragazzi che io ho avuto in casa se ne andavano poi tornavano, mettevano fuori il naso, provavano, provavano e poi alla fine non son più tornati. Un po’ come gli animali, i cuccioli degli animali, nella foresta cosa fanno? Cominciano ad andare un po’ lontano poi tornano a casa, sempre più lontano e poi si vanno per le loro vite, insomma.

È stata un po’ così: non c’è stata una direzione, questo un po’ perché eravamo un po’ anarchici, eh? Non c’è stata una visione chiara, anche i Gesuiti sono stati molto bravi: non ci hanno mai detto cosa dovevamo fare (e io penso che nemmeno loro lo sapessero), ma ci hanno aiutato dal loro punto di vista a capire cosa stavamo facendo. Questo credo che è l’aiuto che possiamo darci, anche tra i genitori e il figlio o di chiunque verso un altro: se tu mi racconti la tua vita, io ti posso dar la mia, quello che ho capito di quello che mi hai raccontato punto e basta. Però è utile. Qualcuno dei Gesuiti, quando io ero arrabbiato con i miei adolescenti mi dicevano: “Uei, Bruno, se tiri l’erba si rompe!”. E io dicevo: “E, fai bello tu, perché…”. Però intanto ti aiuta.

Ecco, il cambiamento è stato questo. È più nel cambiamento interiore di comprensione di quello che mi è successo, difatti io ora quando vado in giro, dico: “Sentite, io vi racconto cosa mi è successo e vi dico quello che ho capito, perché mi sembra doveroso dirvelo”. E così è stato anche rispetto alla ripetibilità: ad un certo punto, io e l’Enrica abbiam detto: “Noi dobbiamo andare!”.

Capito? Nella vita arrivano quei momenti che tu capisci che devi fare una cosa.

E così abbiamo cominciato a cercar casa; noi credevamo che qualcuno di Villapizzone veniva via, e invece non è venuto nessuno. E siamo andati al Castellazzo, però in un anno s’é riempito, Castellazzo! E quindi questa è stata la chiave: il capire che la ripetibilità era possibile a certe condizioni, e non copiare Villapizzone.

Comunità del Castellazzo di Basiano (MI)

Beh, poi Silvano [N.d.A. Silvano Fausti, padre gesuita del gruppo dei primi a creare la comunità di Villapizzone] lo diceva: “Attenzione! Dovete capire, capire bene cosa mettere nello zaino”, e questo è stato ed è ancora oggi, eh! Quelli di Roma non possono fare… adesso a Roma stanno facendo due, tre comunità, non possono imitare Villapizzone! Possono studiarla per capire come mai Villapizzone c’è ancora oggi. E sarà lunga, ma il Vangelo è quello. Il Vangelo devi leggerlo e tradurlo in ogni posto dove sei, nel momento storico dove vivi, nell’età che hai, eccetera. Ecco quindi la ripetibilità, ho fatto un convegno sai sulla ripetibilità. Non hai visto?

P: Mi sa di no.

B: Perché la Regione Lombardia ci aveva dato un contributo, c’era un bando e siamo arrivati secondi e il bando era: “Da utente a risorsa”. E noi abbiamo raccontato quello che facevamo, cioè il cittadino da utente di servizi diventare risorsa. A me è piaciuto subito! E per un anno abbiamo dovuto monitorare un po’ quel che succedeva nelle comunità e alla fine abbiamo fatto un convegno che c’era dentro il discorso della ripetibilità; adesso non mi ricordo più, ma lo trovi sul nostro sito, ma proprio il riassunto, proprio di quel convegno. Uno di noi ha tirato fuori le idee più… Ecco mi sembra sulla ripetibilità quella lì!

Il futuro di Mondo Comunità e Famiglia

B: Sul futuro quella domanda lì: una sera ero andato con un Gesuita in una parrocchia a fare un incontro ed era venuta fuori la domanda “che futuro prevedete?”, e io ho detto: “Secondo me perdente”; questa cosa è di questo momento storico, cioè si salverà se saprà adeguarsi, ma che la gente abbia bisogno di stare vicino agli altri, questo fa parte, non so…

Tu studi antropologia, l’uomo è un animale socievole, gli africani che dicono: “Ci vuole il villaggio!”, quello non è perdente. Ma il problema è che abbiamo perso la capacità di stare nel villaggio, difatti l’abbiamo distrutto: la città non è più un villaggio. La città è un anonimato, noi parliamo di condominio solidale come di villaggio, dove coniughiamo la libertà con la solidarietà che sono due concetti opposti, perché la solidarietà è qualche cosa di intimamente collegato, “solidale”: la capriata è solidale con il muro, no? Quando tu metti dentro quattro tasselli e metti una mensola diventa solidale.

La solidarietà ha qualche cosa di quel concetto lì, la solidarietà è che la mia vita è legata a te, magari anche in negativo, eh. Quel palazzo lì, no? Adesso no, perché sono nuovi, ma dietro, quando qui c’era un prato, c’erano quei palazzi lì: una notte è esploso un palazzo perché uno ha deciso di morire, ha acceso il gas è esploso, al mattino è esploso tutto, lui non è morto, ma i vicini sono morti. E io lo cito come esempio di solidarietà negativa subita.

Ecco, allora, io credo che [il futuro] è perdente se non recuperiamo e non curiamo questo concetto di solidarietà: “Io voglio la libertà ma sono legato a te!” è un po’ una contraddizione, ma la mia corda è la corda di chi va in montagna che ti tiene e ti dice “dai vai su! Non ti tiro su io, vai su te, poi ti faccio da sicura!”. Ecco solidarietà è questa roba qui. Allora diventa possibile; allora io ho bisogno di te! Allora sì che avrà un futuro, ma mi sembra che andiamo invece verso la… verso la solitudine più nera.

P: …verso l’individualismo. Che però proprio per questo, questo tipo di esperienza potrebbe avere un futuro!

B: Ecco! Certo, se accetti però le condizioni: non puoi volere, avere, la libertà senza la sicurezza. Perché muori. Allora: è possibile coltivare la sovranità individuale, familiare, con la solidarietà? La privacy con la comunità? Mi sembra che stiamo tentando… Io dicevo ai miei amici, quando c’era stato quel film Jesus Christ Superstar, io dicevo: “Noi siamo dei poveri christ ma superstar, perché noi vogliamo l’uovo e la gallina, vogliamo questo e quello!”.

Io credo che è questo il momento storico per salvarsi, perché ci sono dei valori! La privacy è un valore, ma la privacy solamente è solitudine. Io credo che è quello: poter avere il necessario per vivere, ma la cassa comune! Eh! La mia sicurezza non ha più un conto in banca, ma è questa relazione. Allora se non è più il conto in banca chi me lo fa fare di lavorare come un matto? Però allora ci vuole una coscienza perché se no mi sfrutto il mio vicino? È un casino eh?

Comunità di Mondo Comunità Famiglia
Comunità il Cortile di san Giorgio (BG)

Io credo che già sposarsi è una qualche cosa di simile, eh? Eh sì! Se il matrimonio è per sempre, almeno per chi crede il matrimonio cristiano è per sempre, allora devi capire che tu non puoi fagocitare l’altro. O l’altra. Io ci ho provato, ma l’Enrica è una bella crapona, non s’é lasciata, io mi sono… ci è voluto tanti anni eh, a un certo punto ho detto “ma scusami, eh”, ancora oggi ci casco, ma anche lei, di correggermi, io dico una cosa, ecco…

Cioè anche chi va in comunità fa questo ragionamento, io te lo faccio sulla coppia. Io mi sposo, l’altro mi piace, ma mai totalmente, c’è sempre qualche cosa… però siccome l’amore mi fa dire “ah, ma dopo sistemiamo le cose”, ma quel ragionamento lo faccio io, lo fa anche lei. E lì nasce il contrasto, il giorno che abbiamo capito che “ma perché io devo correggere quel che dice lei?”. O quel che fa lei e magari anche in pubblico. L’Enrica dice una cosa e a me viene da dire “no, no guarda che…” davanti agli altri. Sei umiliato a fare una cosa del genere. Cioè, lo dice lei sotto la sua responsabilità, non è perché io sono il marito…

Questo trasportalo nella comunità, è uguale. “Una famiglia che vive in un certo modo… oh la miseria, ma disonora la comunità!”. Se mai disonora se stessa. Capito? Questo “che io sono responsabile dell’altro” ci ha creato però un guaio, se non è capito bene, siccome io sono responsabile dei miei figli li castro se no che immagine danno di me, guarda che è terribile, nella Chiesa perché hanno bruciato Lutero, Giordano Bruno, quelli lì, perché? O don Milani! E poi adesso, si scopre che in fondo…

Questo credo che è la convinzione per cui una roba del genere può durare, che non è la cosa più semplice, eh? E poi l’altro aspetto perché duri, se è vero che una persona da sola non ce la fa, una famiglia da sola non ce la fa, ma nemmeno una comunità da sola ce la fa, allora ecco la rete: Mondo di Comunità e Famiglia. In tutti, tutti gli aspetti, non soltanto quello economico, ma anche quello culturale: una comunità che si chiude su se stessa muore.

Invece il Mondo di Comunità e Famiglia vuole essere un luogo di cultura, di formazione, ma quale cultura e formazione? C’è il leader che dice…? No, non siamo il leader di qualche movimento cattolico che fa il corso di comunità: noi viviamo la comunità, quello è il nostro corso. Ecco tutto il casino dell’efficienza o efficacia, è stato così. Allora diventa possibile!

Anche economicamente dobbiamo inventare questa “economia del dono”, così l’abbiamo chiamata, cioè il fatto di riconoscere che ho ricevuto il dono, se lo tengo per me muore e riconoscere che questo non l’hanno dato a me, ma l’han dato a questa idea, allora io sono un utente e cosa restituisco? Se questo funziona allora è un’economia e il ritorno lo abbiamo chiamato “memoria”, siccome l’ho ricevuto è una memoria, che è libera ma doverosa, anche qui è ancora il contrasto, libera perché nessuno ha ricevuto, cioè ogni uomo e ogni donna han ricevuto talenti ma mai uguali uno all’altro; quindi è libera: se ho ricevuto uno devo restituire almeno uno, se ho ricevuto 10 devo restituire 10; “eh,  ma io ne ho bisogno 3!”: cavolo, tu dovevi restituire 10, i tre non sono tuoi, ecco la memoria del dono.

Allora questo crea un’economia possibile, crea la possibilità di farne un’altra di condominio solidale. Però non è sufficiente l’economia economica, ma c’è anche un capitale sociale, umano che fa parte. I soldi, il portafoglio, la testa, il cuore, le mani: San Paolo lo dice così bene che il piede è il piede, non è la testa; io almeno quando parlo di queste cose parlo della squadra: il portiere fa il portiere, l’attaccante fa goal se il portiere para, i terzini se hanno fiducia nel portiere si lanciano. Il portiere se non sente la fiducia dai terzini non prende niente. Questa è l’economia e di lì abbiamo creato -non so se hai visto- quella fondazione che si chiama I Care che vuol’essere quella roba lì.

Padre Filippo!

Filippo Clerici [entrando nella stanza]: Oh! Ma io cheschì lo conosco [alludendo a me]. Sì… è venuto a far l’intervista anca a mì…

Comunità di Mondo Comunità Famiglia
Comunità il Cortile di san Giorgio (BG)

La ripetibilità dell’esperienza di Mondo Comunità e Famiglia

B [dopo aver salutato Filippo]: Sì, insomma, la ripetibilità è legata a queste cose. Sì, con molta pazienza ci vuole… sì, dobbiamo continuare a fare queste cose proprio per… per esempio ultimamente abbiamo fatto un incontro: fin dove una famiglia può spingersi oltre a questi sentieri senza farsi del male? Eh, eh, se non capisce è inutile… Vivere meglio è il peggiore del male, oppure un’altra qui l’abbiamo fatta questa “corrosivi ed anticorpi” nella vita di una famiglia, di una comunità, di un associazione. Ecco, nel Mondo di Comunità e Famiglia adesso ne faremo una sul denaro. Vedrai in internet un manifesto proprio.

P: Ma poi sono anche abbonato alla vostra bacheca…

B: Ecco, così vedi quello che facciamo noi. Perché poi il Mondo di Comunità e Famiglia si fonde un po’ con l’I Care insomma è un po’ il traino di I Care. Adesso altre associazioni si sono associate, io spero che non si sono associate solo per avere un beneficio economico che non hanno, ma per creare un po’ questo mondo un po’ diverso che possa anche avere, le banche possano avere fiducia di loro perché fa un po’ da cassaforte, fa un po’ da luogo culturale che non è di un‘associazione, ma è di 15 associazioni che hanno una cultura diversa, quindi una messa in comune. Martini l’aveva chiamata una fermentazione! Noi usavamo la parola contaminazione e lui l’ha corretta con la parola fermentazione, bello!

P: In positivo, sì… Ma non siete ma andati in rosso con la comunità?

B: No, no, no. C’è sempre la Provvidenza in quel senso lì molto forte.

P: Anche a Tortona, come siete arrivati alla proprietà della comunità…

B: Sì. Che poi non è nostra, eh? Qualcuno l’ha trovata, l’associazione ci ha messo dei soldi, ma nemmeno la metà, poi il resto è saltato fuori, e adesso soprattutto è saltato fuori per metterla a posto. E adesso quello lì è un bene che vale. Ma è quello che noi laici diciamo: “Oh! I Gesuiti sono ricchi, le suore…”, è quello che succedendo a noi. Ma siamo ricchi, finché siamo dentro. Il giorno che usciamo da lì, io non ho una lira. Quella è la mia visione.

P: Poi c’è il problema della pensione.

B: Certo, ma se poi uno adesso lavora… Ormai tutti! Chi ha fatto come me che hanno abbandonato il lavoro e non hanno più voluto andare sotto padrone son pochissimi. Allora quando andranno in pensione avranno… Io e Filippo abbiamo una pensione sociale, che è un assegno di 350 euro. Che io penso in coscienza di essermi guadagnato, proprio mettendo in pratica quell’articolo della Costituzione che dice che ogni cittadino ha il dovere di fare il suo dovere. Però con 350 euro non andiamo tanto lontano.

Quindi la ripetibilità è la continuità; certo: il biglietto devi pagarlo.

P: Anche perché la comunità ha bisogno di altre persone giovani, in ottica di redditi, comunque le entrate degli stipendi sono importanti.

B: O anche chiunque faccia un’attività economica. Fuori uno fa il medico, uno da Tortona viene a Milano a lavorare. Però ha trovato anche di ridurlo un po’ proprio perché vivendo in comunità… Se no tu hai un bel dire che ogni cittadino ha il dovere eccetera, ma se deve lavorare giorno e notte… quello è l’inganno ma il Vangelo lo dice, quello è la parabola dei talenti. Se uno deve lavorare tutto il giorno, magari fa un lavoro che non gli piace. È un dramma.

P: Tu ti sei mai trovato a ripensarti e a confrontarti con dei riferimenti di comunità altri?

B: Sì, sì, io giro molto, ho visto, per esempio: a Mondo di Comunità e Famiglia si sono associati una comunità di Roma che è tutta diversa da noi, sono 4 capi scout che si erano ritrovati in un’associazione che faceva affido. Poi però tutti cercavano casa, non l’hanno trovata, han comprato un casolare, fuori Roma, queste 4 famiglie han questo posto, abitano lì, hanno una cucina in comune, hanno le camere solamente separate ovviamente. Hanno una cassa comune diversa dalla nostra, fanno un po’ di cassa comune, ma molto poco, la dispensa solamente. Sono proprietari, noi non siamo proprietari, facciamo cassa comune integrale, abbiamo un appartamento ognuno, eppure ci sentiamo molto vicini. Quindi è giusto.

Poi ho visto altre comunità che però sono comunità di servizio. Mi ricordo Don Filippo che diceva sempre: “Noi non siamo comunità di accoglienza, ma siamo gente che vuole imparare l’accoglienza, che ha bisogno dell’accoglienza”. E mi sembra che questo lo stile, e anche la differenza. Ecco, io trovo che per fare una comunità di accoglienza ci vuole una vocazione particolare; io ho paura che la famiglia non è lo strumento adatto. Se fai un servizio, è come se per dar valore alla tua famiglia devi inventare un servizio da fare, ti pare? Invece la CEI aveva organizzato un convegno in cui diceva: “La famiglia è di per sé buona notizia, non ha bisogno di altro”. Secondo me è determinante questo.

E quindi io vedo quelle cose lì. Invece noi è una vita dove l’accoglienza fa parte del Mondo di Comunità e Famiglia. Devo accogliere mia moglie, ma devo accogliere prima di tutto ancora me. Ma io ho bisogno anche di essere accolto. E quindi chi si affaccia al portone è uno da accogliere, ma appena entra, è uno che deve imparare ad accogliere.

Sì, mi piace andare in giro, vedere, confrontare. Ma io dico questo: quello che vogliamo fare noi è per tutti. Secondo noi tutti avrebbero diritto a vivere una vita così. Se accettano le condizioni, la messa in discussione, eccetera. Quindi è importante quello. Invece, per fare… non so… Papa Giovanni… la Giovanni XXIII, quella fondazione di Don Benzi, lì ci vuole una vocazione particolare.

Ecco, monsignor Giudici aveva messo l’accento: “Mi sembra che voi viviate la normalità in modo straordinario”. Mi sembra molto bello, questo. Straordinario se metti insieme il portafoglio, ma se non metti insieme il portafoglio son parole! Eh! Ecco questo è un po’. Sì, altro non saprei dirti. È importante quando venivan da me per fare la tesi: fin quanto una famiglia può esporsi può accogliere, la cassa comune, tutto quello che abbiamo detto, senza farsi del male? Anche qui io credo la famiglia dev’essere un luogo di cultura dove capiamo i limiti. Uno che si sposa si pone dei limiti.

P: E lo sottolineavi anche rispetto ai Comuni, alle Regioni che vengono…

B: Certo, certo. Quando un assistente sociale mi chiama per sapere se teniamo questa persona io gli chiedo: “Ma lei lo prenderebbe in casa?”. “No”; “E allora perché devo prenderlo io?”. Mi sembra importante.

Bruno Volpi Mondo Comunità Famiglia
Bruno Volpi [immagine gentilmente concessa da MCF]

5 link per saperne di +

1. Il + istituzionale

Il sito di Mondo Comunità e Famiglia è ben strutturato e rappresenta con chiarezza l’articolata realtà associativa.

2. Il + video

Per il VII incontro mondiale delle famiglie, nel 2012, Bruno e Enrica si sono raccontati in questa intervista, tra gli altri interventi di Bruno rintracciabili su YouTube.

3. Il + social

L’intervista è stata realizzata nel 2007, ante social network: la pagina Facebook del Mondo di Comunità e Famiglia è aggiornata con gli appuntamenti e video delle agorà e rappresenta un ottimo modo per seguire lo sviluppo di questa esperienza.

4. Il + comunitario

Jean Vanier è un filosofo canadese che ha fondato l’Arca e il Movimento Fede e Luce, associazione internazionale che promuove un altro tipo di comunità, tra portatori di handicap mentali e non, di ispirazione per chi analizza modelli comunitari.

5. Il + lavorativo

Dalla comunità di Villapizzone è nata l’impresa sociale Di mano in mano: mobili, accessori, vintage, libri dagli sgomberi, come i primi tempi, ma la cooperativa conta oggi anche 5 negozi online.

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Milanese milanista, per Le Nius redattore e formatore. Comunica per Fondazione Arché, blogga per Vita.it. Persegue la semplicità e, nel cammino, interroga il suo tempo. Ha sempre da imparare. paolo@lenius.it
Commento
  1. Davide Fracasso

    Interessantissimo. Grazie, Paolo.

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