Mamme cooperanti: come conciliare famiglia e lavoro in cooperazione internazionale?13 min read

26 Gennaio 2017 Cooperazione Genere -

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Mamme cooperanti: come conciliare famiglia e lavoro in cooperazione internazionale?13 min read

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La cooperazione è, sempre più, donna. È un fatto immediatamente visibile: nelle riunioni, nelle conferenze, nei team di lavoro, le donne cooperanti sono spesso più numerose, anche se ancora poche occupano ruoli dirigenziali. Le statistiche lo confermano: negli ultimi anni le donne hanno quasi raggiunto gli uomini, e rappresentano quasi il 50% degli addetti ai lavori in cooperazione allo sviluppo.

La carriera delle donne, lo sappiamo, è intrecciata con scelte complesse, che riguardano la famiglia e le aspettative sociali, e che in cooperazione sono accentuate da un’organizzazione lavorativa e di vita che può essere spesso destabilizzante.

Come si fa a costruirsi una famiglia se un anno sei a Beirut e l’anno dopo a Maputo? Come si fa a crescere un bimbo in condizioni sanitarie, sociali e culturali profondamente distanti da quelle a cui siamo abituati? Come si può conciliare tutto con un lavoro che richiede visite sul campo, scadenze e deadline da rispettare? Insomma: cooperazione e maternità possono coesistere?

Per capirlo, per la nostra rubrica Racconti di Cooperazione, abbiamo intervistato tre giovani mamme, tutte impiegate e impegnate nel settore della cooperazione, due che hanno scelto di continuare a vivere all’estero e una che invece è rientrata in Italia.

Chiara Lombardi, coordinatrice regionale Est Africa per Etiopia, Grandi Laghi (Nord Kivu e Burundi) e Madagascar per l’ONG VIS – Volontariato Internazionale per lo Sviluppo. Vive ad Addis Abeba ed è sposata con Alessandro e mamma di Vincent e Nicholas.

Paola Schinelli, dopo aver vissuto e lavorato tre anni in Madagascar nell’Ufficio di pianificazione e sviluppo dell’Ispettoria Salesiana del Madagascar e delle Mauritius, si è da poco trasferita a Dakar, Senegal, con il marito Stefano e il figlio Filippo, per un nuovo incarico con l’ONG VIS.

Marialuisa Casella, dopo alcuni anni in Palestina è rientrata in Italia, a Bergamo, dove vive con il marito e la figlia Arianna, ed è responsabile del settore progetti per Missione Calcutta ONLUS, che si occupa di adozioni a distanza.

Maternità e cooperazione: il racconto di tre mamme cooperanti

mamme e cooperazione
Marialuisa e Arianna

Perché hai scelto di lavorare in cooperazione?

Marialuisa ha maturato presto il desiderio di impegnarsi in prima linea per combattere le ingiustizie sociali e le disuguaglianze economiche. Per questo ha frequentato il Master in Cooperazione e Sviluppo di Pavia e, dopo un tirocinio per il VIS a Betlemme, ha cominciato a lavorare stabilmente prima come responsabile dell’Ufficio Formazione Lavoro della Scuola Tecnica dei Salesiani e poi come capo progetto al Centro Artistico, fino a giugno 2014, quando è rientrata a Bergamo.

Chiara si definisce un’esterofila. Così, dopo gli studi di Scienze Politiche, ha svolto un tirocinio presso gli uffici del MAE (Ministero Affari Esteri) a Roma, dove ha iniziato ad appassionarsi alla cooperazione. Il suo tutor ha giocato un ruolo fondamentale nell’instradare questa passione e, quando è partito per il Libano, le ha proposto di continuare il suo lavoro in quella sede. Da lì non si è più fermata.

La famiglia è stata invece decisiva per Paola, che seguiva da lontano la vita da cooperante del suo fidanzato Stefano con un sogno nel cassetto: fare un’esperienza insieme. Così, durante il cammino di preparazione al matrimonio, hanno maturato l’idea di essere una famiglia missionaria, che si è poi allargata al piccolo Filippo.

Come e dove hai conosciuto tuo marito? E quando avete deciso di allargare la famiglia?

Ho conosciuto mio marito a Beirut, ricorda Chiara. E pensare che mi ero sempre detta che non avrei voluto un compagno che lavorasse nel mio stesso settore, sai che noia! Poi ho capito che, in un’ottica di coppia e di famiglia, diventava necessario che o uno dei due rinunciasse al suo lavoro per seguire l’altro oppure che entrambi si facesse lo stesso lavoro, come è successo. Dopo il Libano abbiamo applicato per due vacancy pubblicate da una stessa ONG, per andare a lavorare insieme in Congo, a Goma. Siamo stati assunti e il lavoro fianco a fianco, in un contesto così difficile, ha rafforzato e consolidato il nostro rapporto. Ci siamo sposati a Roma proprio durante gli anni del Congo. E da subito ci siamo anche detti aperti all’idea di allargare la famiglia.

La storia di Paola e Stefano, come detto, nasce invece in Italia, dove hanno maturato l’idea di partire insieme: “io e Stefano ci siamo conosciuti all’oratorio, e dopo un lungo fidanzamento da novelli sposi siamo partiti insieme per il Madagascar con l’ONG VIS, per cui Stefano lavorava già da qualche anno. Abbiamo subito conosciuto un cooperante francese di un’altra ONG, che aveva una famiglia molto grande, con cinque figli. La sua esperienza ha dissipato i nostri dubbi sull’avere figli proprio in quel momento così intenso, così dopo tre mesi, all’alba del nostro primo anniversario di nozze, ho scoperto di essere incinta, un momento bellissimo!”.

Anche la storia di Marialuisa nasce in Italia: “con mio marito ci siamo conosciuti a Napoli, dove studiavo, nel 2008. Abbiamo avuto vari periodi di relazione a distanza, tra cui i due anni in cui ero a Betlemme. Allargare la famiglia non è stata una vera e propria scelta: Arianna è arrivata a sorpresa, e nonostante la distanza abbiamo deciso di continuare. Nulla capita a caso: Arianna è stato il motivo per rientrare, anche perché probabilmente, dopo due anni di relazione a distanza, la relazione non sarebbe continuata”.

Com’è andata la gravidanza? Fino a quando e dove hai lavorato?

“Il nostro primo figlio è arrivato poco tempo dopo esserci trasferiti in Etiopia – ci racconta Chiara – e la mia gravidanza è stata agevolata dal lavorare per un’organizzazione che tutela i diritti delle lavoratrici e la maternità. Purtroppo non tutte lo fanno, ci sono organizzazioni internazionali che interrompono il contratto di lavoro durante il periodo della maternità, senza alcuna assicurazione di una futura riassunzione. La gravidanza è andata molto bene, e l’essere in Etiopia non ha inciso in modo particolare. In Etiopia non ci sono malattie, come la malaria, diffuse in molti altri paesi africani. Ho quindi potuto lavorare fino all’ottavo mese, ho partorito in Italia e sono poi tornata ad Addis Abeba quando Vincent aveva due mesi”.

Anche per Paola la gravidanza è stata un momento speciale: nessun problema di salute e una grande serenità, resa tale anche dal supporto della ginecologa poi diventata anche pediatra di Filippo. “Vivendo la gravidanza in Madagascar, ci siamo risparmiati un sacco di paranoie da mondo europeo: ho sempre viaggiato tranquillamente, sono stata in piscina, al mare; la noia del lavare le verdure con il bicarbonato era già una quotidianità, anche prima della gravidanza. Per il parto abbiamo deciso di rientrare in Italia e, ringrazio anche la nostra ONG che ce lo ha permesso. Lavorare fino all’inizio del nono mese è stato naturale per me, non mi è pesato, grazie anche al fatto che fisicamente non ho avuto problemi e che l’ambiente di lavoro, sereno e familiare, non mi ha fatto pesare il lavoro”.

Anche per Marialuisa la gravidanza è andata benissimo: “ho scoperto di essere incinta a febbraio 2014 e ho lavorato a Betlemme fino al sesto mese. Sono poi rientrata in Italia, il contratto era terminato, ma per motivi progettuali e di budget, non legati al mio stato”.

mamme cooperanti
Paola e Filippo

Com’è stato essere una neomamma alle prese con il primo figlio in un Paese in via di sviluppo? Quale lo stato d’animo, le preoccupazioni, l’approccio che hai adottato come mamma e che avete scelto come famiglia?

Per Paola il luogo in cui si è non fa grande differenza: essere neo mamma è difficile ovunque, anche se certo alcune situazioni estreme non aiutano. “Personalmente ho trovato molto supporto, oltre che in mio marito Stefano, nella nostra pediatra. Con loro ho potuto affrontare le piccole difficoltà, dalla prima febbre, alla paura per i vaccini, alle complicazioni dell’allattamento. Sicuramente i primi giorni a casa sola mi hanno fatto paura, non è facile affrontare mentalmente la vita con un’altra vita che dipende da te. Naturalmente i mille sorrisi che Filippo ci ha regalato e regala ogni giorno ripagano di tutto”.

“Non ho avuto particolari preoccupazioni, un po’ per carattere e un po’ perché, come dicevo prima, la situazione sanitaria permette una certa tranquillità – dice Chiara. Paradossalmente, crescere un figlio in un paese in via di sviluppo permette di accedere a servizi di assistenza a costi inferiori, per esempio per assumere una babysitter. Le tate etiopi sono state una bella scoperta: dolci, accoglienti, più semplici e meno legate a sovrastrutture come tante volte accade in Europa. In Etiopia poi ti confronti con un’idea di famiglia molto grande, che ti dà un approccio meno teso e accentratore di quello europeo. Ho fatto mio il proverbio africano che dice che per far crescere un bambino ci vuole l’intero villaggio, un approccio comunitario nell’educazione dei figli che ho trovato prezioso. Questo ambiente sociale e culturale ci permette di essere genitori più tranquilli e meno apprensivi, e di dare fiducia e autonomia ai nostri figli”.

Per i vostri figli invece cosa ha significato vivere la propria infanzia in Etiopia o Madagascar piuttosto che in Italia?

“Aver trascorso i primi anni tra Etiopia, Italia e Libano genera in entrambi i miei figli, Vincent e Nicholas, una certa confusione linguistica – racconta Chiara. Al momento frequentano entrambi la scuola francese ad Addis Abeba. È bello però vedere la straordinaria capacità di adattamento dei bambini. Il primo giorno Vincent era perplesso all’idea di andare a scuola con tanti bambini con la pelle di un colore diverso, ma è bastato poco perché si adattasse alla nuova vita, a una scuola in cui ha compagni provenienti da molti paesi dell’Europa e del West Africa, ognuno con la sua cultura, le sue abitudini alimentari e si fa in fretta a dimenticare le cose che non sono veramente essenziali. Se i negozi di giochi non ci sono o se i tuoi compagni non hanno ogni giorno un gioco nuovo allora anche tu ne fai a meno in tranquillità.

“Ora che siamo rientrati in Italia ci stiamo accorgendo delle differenze della vita che Filippo ha vissuto in Madagascar e quella che avrebbe potuto vivere in Italia, dice Paola. Credo che comunque lui abbia sviluppato la capacità di adattamento ai cambiamenti, con me ha viaggiato molto all’interno del paese e insieme alla sua tata ha fatto esperienza che non molti bambini italiani posso dire di aver fatto. Un’altra differenza è legata al numero infinito di giochi che si trovano nelle case dei bambini italiani, se penso ai pochi giochi con cui Filippo ha sempre giocato”.

Guardiamola dall’altro punto di vista: quanto il diventare mamme ha influenzato il vostro lavoro?

“La maternità è stato l’unico motivo per il quale sono rientrata in Italia – dice Marialuisa. Da sola non sarei riuscita a gestire una figlia lavorando sul campo. Il lavoro di cooperante all’estero è sempre stato precario, e non potevamo rischiare che anche mio marito (che allora non era ancora marito) perdesse il suo lavoro in Italia. Coniugare maternità e lavoro in cooperazione non è facile, soprattutto quando si parla di trasferte e visite di monitoraggio. La mia situazione è ancora più particolare perché non abbiamo nonni vicini che possano aiutarci, e mio marito lavora su turni, quindi non è facile gestire la bambina con baby sitter e nido nei festivi o di notte. Da questo punto di vista concordo con Chiara: all’estero si è avvantaggiati rispetto a determinati aspetti come il costo delle tate o delle scuole”.

Sicuramente è cambiata la lista dei paesi in cui lavorare per Chiara. “Ci sono persone che non hanno nessun problema a trasferirsi con la famiglia in Afghanistan, per esempio, ma io e mio marito abbiamo scelto di orientarci solo verso paesi che abbiano determinati standard di sicurezza e sanitari. Soprattutto paesi in cui non ci siano, per esempio, delle epidemie. Mi sentirei molto egoista se i miei figli si ammalassero a causa del nostro lavoro, non perché non vi siano cure, ma magari perché li ho esposti a un rischio inutile. Per il resto, al momento ricopro un ruolo che si concilia molto bene con l’avere una famiglia. Mio marito lavora con me occupandosi degli stessi paesi dal punto di vista amministrativo, e i nostri incarichi prevedono missioni brevi, di quattro/cinque giorni”.

“La vita con un bambino sicuramente cambia – dice Paola – e quelli che dicono che fanno esattamente le stesse cose di prima o mentono o hanno tanta fortuna. Per noi comunque è stato possibile adattare il nostro lavoro alle esigenze di Filippo. Abbiamo lavorato di più la sera, quando lui andava a dormire, per stare con lui il pomeriggio, e abbiamo avuto una tata che ci ha molto aiutato. Di fondo poi non ho mai dovuto scegliere tra lavoro e famiglia e questo sicuramente ha reso la nostra vita familiare serena”.

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Chiara, Alessandro, Vincent e Nicholas

Quali sono i vostri progetti futuri? Tra cinque anni sarete ancora in giro come famiglia?

Chiara ci dice: “per i prossimi due anni saremo in Etiopia, ci siamo detti che fin quando i bambini hanno ancora l’età dell’asilo possiamo permettermi di spostarci di più. Tra due anni Vincent inizierà le elementari e riteniamo che invece la scuola elementare vada fatta tutta nello stesso posto, per consentire la crescita di amicizie e legami. Di conseguenza o ci trasferiremo in un paese con un contratto di lavoro lungo almeno 4, 5 anni, oppure non scartiamo l’idea di tornare in Italia”.

“Siamo partiti per il Madagascar nel 2013 come famiglia missionaria – ribadisce Paola – ci siamo impegnati lavorativamente e non solo ad esserlo, avendo una casa sempre aperta e disponibile ad accogliere altri volontari, stagisti, studenti. Questa non è solo una scelta lavorativa, ma una scelta di vita, e per questo abbiamo deciso di ripartire. Da pochi giorni siamo arrivati in Senegal con una nuova vita, una nuova casa, un nuovo lavoro, ma sempre tutti insieme. Poi chi lo sa dove ci porterà il futuro a lungo termine”.

Marialuisa invece è convinta della scelta di tornare in Italia, e non pensa di ripartire.

Cosa direste ad una donna che fa il vostro stesso lavoro e si trova alle prese con il desiderio di maternità?

Marialuisa: “Le direi che non è facile ma non è impossibile conciliare le due cose. La chiave sta nel partner: se anche lui è dello stesso ambito, è sicuramente fattibile. Ho conosciuto varie coppie di cooperanti che vivono sul campo, senza problemi. Nel caso in cui, come il mio, il partner è di un altro settore ed è impossibilitato a partire, allora bisogna scegliere, e sperare di trovare un lavoro in cooperazione in Italia”.

Chiara è d’accordo e aggiunge: “se si tratta di una persona che non è troppo legata agli standard italiani, ma ha una certa dose di flessibilità io consiglierei di vivere all’estero, dove, come dicevo prima, tante cose sono semplificate e più accessibili. Occorre poi verificare la tutela che l’ONG offre in caso di maternità. In generale però dico: guarda a cosa ti rende felice. Se lasciare il campo o la vita all’estero ti rende triste e insoddisfatta allora non lo fare, i bambini sono adattabili, ma soprattutto stanno bene e sono felici quando le mamme stanno bene e sono felici di essere dove sono.

Conclude Paola: “mi è capitato di fare questo discorso con altre mamme in Italia, che ovviamente mi hanno sempre preso per matta nel voler far crescere un figlio in Africa, ma se dovessi incontrare una ragazza che lavora come me nella cooperazione e che ha il desiderio di diventare mamma, le direi che se con il suo compagno hanno deciso che è il momento giusto, allora che prendano al volo l’occasione. Non si è mai pronti per fare i genitori, ma quando lo si diventa, quello è il momento più bello della vita”.

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Cooperante in giro per il mondo dal 2008 al 2014, co-fondatrice dell’associazione Mekané – ideas for development, dal 2017 progettista e valutatrice nel settore dell’educazione. Da sempre coltiva la passione di raccontare storie, soprattutto storie che allargano gli orizzonti e il cuore, alle figlie, agli amici, ai lettori di Le Nius.
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