L’Europa ai tempi della guerra9 min read

15 Giugno 2022 Europa -

L’Europa ai tempi della guerra9 min read

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Crisi e balzi 

Ogni crisi mette a nudo un ambito di incompletezza, inefficienza o contraddittorietà del progetto europeo. Tuttavia, almeno fino ad oggi e soprattutto in tempi recenti, dalle grandi situazioni di tensione l’Europa è uscita più unita. Attraverso uno strappo, o un balzo, in risposta a una crisi che avrebbe potuto sancirne la disintegrazione. Eccezion fatta per la “politica” sulle migrazioni, sfregio indelebile sul volto dell’Europa, esiste una chiara progressione che rivela questa dinamica fra crisi e balzi, nell’arco degli ultimi 15 anni.

È stato così per la crisi finanziaria, che negli anni successivi al 2009 aveva rischiato di far saltare la moneta unica e le economie dei Paesi europei. In risposta, gli Stati membri hanno dotato l’UE di un sistema di vigilanza e gestione delle crisi bancarie, che seppur migliorabile garantisce un livello di stabilità prima assente.

In quello stesso frangente era però mancata la solidarietà fra gli Stati europei, a livello morale prima che tecnico, di fronte a una crisi che non intaccava solo le finanze pubbliche ma anche i cittadini che da quello scenario uscivano impoveriti. Atene ricevette aiuti dall’UE, ma in cambio di misure che ricordavano un approccio applicabile a un Paese nemico, sconfitto in guerra e poi punito. La sensazione era quella di rapporti litigiosi fra inquilini di un condominio, certo non di una famiglia.

Questa contraddizione è stata superata poco più di dieci anni dopo, durante il Covid, con un cambio di rotta eclatante. In questo caso, dopo qualche incertezza, l’UE si è resa protagonista della spinta alla “ricostruzione”, dotando gli Stati membri di risorse ingenti – primo fra tutti l’Italia, con 200 miliardi di Euro – senza condizionalità punitive.

Più ancora delle risorse, rileva una delle forme tecniche che nutrono la realizzazione dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR): la mutualizzazione di risorse nazionali per garantire l’emissione di debito comune europeo, da usare per finanziare la ripresa post-pandemica. È un passo storico che traccia una linea di demarcazione fra un “prima” e un “dopo”. A ciò la UE ha affiancato i progetti di trasformazione dell’economia in senso “green” e di politiche per i giovani, attraverso il Next Generation EU.

Questa volta la sensazione è stata quella di sentirsi tutti sulla stessa barca.

Questi segni di vitalità e protagonismo dell’Unione hanno però immediatamente incontrato una nuova sfida, rappresentata dalla guerra in Ucraina. Questa volta i nervi scoperti sono altri, ancora più radicali. In questo caso, in questa crisi, i macroelementi in gioco sembrano essere due: quello di strategia geopolitica nello scenario globale, ivi inclusa la difesa, e quello economico/energetico. Si tratta di capire, o immaginare, se anche da questa situazione si potrà trarre beneficio in termini di sviluppo dell’integrazione europea, a che pro e a quale prezzo.

Unione Europea ai tempi della guerra

Ruolo geopolitico e difesa

Il primo aspetto di rilevanza assoluta è quello geopolitico. In un teatro che delinea due blocchi contrapposti (USA e Cina con i relativi satelliti, più o meno schierati, più o meno potenti) e un disimpegno USA rispetto a un aiuto diretto all’Europa in termini di difesa, l’Europa deve decidere. Si trova, per la prima volta nella storia contemporanea, di fronte alla scelta, o forse necessità, di presentarsi come soggetto strategico unico e indipendente, teso cioè alla tutela del proprio interesse primario.

Questo “salto di qualità” della tematica sottesa alla crisi – non più sanitaria e/o economica, ma strategica – è una vera e propria sfida identitaria nell’UE. Va infatti a incidere su profondi caratteri nazionali, che sono lascito della storia e prestano meno possibilità di amalgama, rispetto a tematiche puramente economiche.

In Europa vi sono Paesi a tradizione atlantista, Paesi neutrali (oggi Austria e Irlanda, se Svezia e Finlandia entreranno a breve nella NATO), Paesi con una politica mediterraneo/africana (Francia) o con interessi che portano a un dialogo con l’Oriente (l’Italia), Paesi usciti dal blocco sovietico e pertanto ancor più filo-USA (la Polonia, i Baltici).

Una delle considerazioni più evidenti in questo contesto è dunque legata proprio al posizionamento dell’UE nella sua interezza: o come elemento pienamente atlantista, inteso come riferito alla NATO e quindi sotto l’egemonia degli USA, o invece come parte di quel campo ma con una presenza di autonomia, tesa alla cura del proprio interesse di UE prima di tutto.

Non è immaginabile oggi trarre conclusioni sul possibile esito strategico di tensioni così profonde, che rappresentano secoli di storia, relazioni e conflitti di ogni singolo Stato membro. È però possibile prendere atto di un balzo in avanti sul tema della difesa comune, che può rappresentare un segnale.

La difesa comune, fin dai tempi di Charles de Gaulle che la uccise nella culla, è stato un tabù. Tuttavia, negli ultimi due mesi, sono stati fatti più progressi che negli ultimi 60 anni.

Gli Stati membri hanno trovato un accordo politico per sviluppare un primo corpo di intervento rapido del tutto “europeo” e la Commissione ha varato una prima assoluta per i fondi del bilancio europeo, che vengono mobilitati a sostegno della spesa militare, dopo esser stati sottratti ai capitoli destinati alla ricerca e allo sviluppo. Nell’immediato, cioè tra il 2022 e il 2024, la UE stanzierà 500 milioni per fornire agli Stati membri incentivi per appalti in comune – ed evitare che gli Stati si facciano concorrenza tra loro.

Una difesa comune europea potrebbe dunque essere alle porte, ma ciò che resta di difficile definizione è il ruolo politico che la stessa avrà nel contesto NATO, o meglio, nei rapporti con gli USA, e quindi nello scenario globale.

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Strategia economica ed energetica

Allo scoppio del conflitto, l’Unione ha risposto coesa nella condanna dell’aggressione, nella definizione e applicazione delle sanzioni, nella disposizione degli aiuti. Oggi, con l’esacerbarsi della guerra e delle sue conseguenze, l’Europa è di fronte a una difficile prova di unità, in maniera più strutturale. La crisi energetica sta determinando da un lato un’impennata generale dei prezzi che non si vedeva dagli anni ’80, e dall’altro la ricerca di una soluzione che copra l’immediato fabbisogno ma anche le future necessità, in maniera organica.

Il rischio qui è duplice: che la politica monetaria europea non riesca a fare fronte all’inflazione e che i singoli Stati ricerchino soluzioni energetiche erratiche e disaggregate, a seconda delle loro efficienze o, più usualmente, inefficienze (è nota la dipendenza dal gas russo di Italia e Germania in particolare).

In questo ambito, la Banca Centrale Europea ha annunciato il 9 giugno il rialzo dei tassi di interesse, con ulteriore ritocco atteso per settembre, con l’interruzione del vasto programma di acquisto di asset lanciato da Draghi nel 2015 con il quantitative easing (quando, in altre parole, la BCE aveva iniziato a inondare l’economia di liquidità, e cioè a stampare moneta, acquistando seppure in via indiretta anche il debito pubblico degli Stati membri).

La fine di un’era ha già raccolto le reazioni scomposte di alcuni politici di quei Paesi che ne hanno più beneficiato, come l’Italia (gli stessi politici che avevano denigrato il programma BCE di acquisto dei titoli sovrani). Era però un passo inevitabile in un contesto di inflazione quasi a due cifre: la crescita dei tassi mira a rallentare la corsa dei prezzi e tutelare il potere di acquisto, a salari invariati.

Sul lato delle scelte strutturali di politica energetica, non esistendo oggi una politica comune europea, la situazione è più variegata. Non è possibile affermare con certezza, a differenza di quanto probabilmente accadrà con la difesa comune, che una politica energetica europea nascerà da questa crisi, auspicabilmente con forte accento sulle risorse rinnovabili. Su questo ultimo punto, in particolare, i segnali sono a dir poco contrastanti, e l’emergenza scatena la tentazione – e gli interessi – di una corsa al passato sulle fonti fossili. Tuttavia, contrariamente alla disgregazione totale preconizzata da molti, anche in questo caso i Paesi UE stanno cercando in realtà di mantenersi il più uniti possibile.

In particolare, al netto dell’embargo sul petrolio russo e delle permanenti difficoltà sul gas, il dibattito politico sul tema energetico comune è al centro dell’attenzione. Sembra la conferma della sensazione chiara che, anche in questo ambito, i Paesi europei – o almeno alcuni di essi – avvertono la necessità di indipendenza da altri e di unità fra loro, per avere peso e forza. Riuscire in questo sarà molto difficile, viste le differenze in campo, ma è un punto chiaro all’ordine del giorno.

Come in altri casi, non si può escludere che si creino “europe” al plurale, a diverse velocità, a seconda dei blocchi di interesse e necessità.

Scenari futuri 

Anche di fronte a questa crisi, emergono alcuni segnali di spinta del cosiddetto progetto europeo, seppur in ordine sparso. Quantomeno sembra rivelarsi un approccio, un atteggiamento, maggiore rispetto al passato nel fare riferimento all’Europa da parte degli Stati nazionali. E, come detto, in questo caso la crisi attinge a divisioni nazionali profondissime, lascito di secolari divisioni storico-strategiche. La notizia è quindi molto rilevante.

Innanzitutto, va notata la reazione unitaria immediata di fronte allo scoppio della guerra, cosa non scontata (indipendentemente dalle valutazioni di merito). Poi, anche nella situazione attuale in cui la guerra si trascina, l’economia soffre e la situazione geopolitica mostra segni di posizionamenti strategici per il futuro (Finlandia, Svezia, USA, Turchia, Cina), ha preso spazio nella percezione degli Stati membri un ruolo dell’Unione quale indispensabile, di primo riferimento. L’UE non viene più saltata a piè pari.

In altre parole, sembra potersi affermare che nelle opinioni pubbliche europee ci si aspetta che il primo orizzonte di interlocuzione, che rappresenti e tuteli il proprio Paese di fronte a situazioni globali, sia l’Europa. Si denota un’accettazione generale, almeno fra i Paesi del blocco iniziale dell’UE, di un destino inevitabilmente comune, in senso strategico. Da definire, ma comune.

Tutto ciò sembra essere il frutto sia delle risposte percepite come complessivamente positive alla crisi del Covid, sia della presa di coscienza della portata di sfide ingestibili a livello nazionale. Ciò non rappresenta di per sé una buona notizia o una buona soluzione, perché la bontà delle scelte dipenderà evidentemente dai contenuti delle stesse, soprattutto su temi come riarmo e politica energetica. Però questa coscienza che sembra emergere è certamente un punto di rilievo, forse mai riscontrato in passato, che può rappresentare una piattaforma su cui costruire.

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Milano, Dublino, Londra e Bruxelles. Specializzato in diritto bancario, dei mercati finanziari e dell'Unione europea, collaboro con le facoltà di Economia e Diritto di alcune università europee.
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