Il Leoncavallo: non sei tu, siamo noi6 min read

29 Agosto 2025 Città Politica Società -

Il Leoncavallo: non sei tu, siamo noi6 min read

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Questo articolo è stato scritto a quattro mani da Anita Pirovano e Simone Zambelli.

Troppo spesso in questo ultimo decennio, ben prima delle inchieste recenti, lamentiamo una Milano che cresce verso l’alto: le torri che ridisegnano lo skyline, i nuovi quartieri che competono in verticalità, l’esclusività che diventa esclusione di tanti e tante. La città di sotto sembra sfumata, invisibile, inafferrabile soprattutto, forse sopita tra un reel e un aperitivo.

Proprio nel mezzo di un gelido agosto, un blitz codardo architettato tra la sede di Fratelli d’Italia e il Viminale ha provato a fare scacco matto a 50 anni di storia del Leoncavallo e ci ha ripiombato al livello della strada, quello in cui si riesce ancora a guardarsi faccia a faccia e negli occhi.

Un piano zero da cui si può scendere ancora verso la città di sotto, il “dauntaun”, una fucina di creatività diffusa, di intelligenze che si mettono a fattor comune per disegnare il futuro prima che accada, l’immaginazione. Il Leoncavallo – spazio pubblico autogestito, c’era prima del modello Milano e siamo sicuri che gli sopravvivrà; non è un monumento ma la dimostrazione plastica che la vitalità urbana nasce sempre negli spazi marginali, nei luoghi non pensati per il profitto: non si vende e non si compra, è l’inclusione la declinazione più alta dell’innovazione.

Lo si vede con chiarezza e colore nei muri di via Watteau, coperti da opere di arte pubblica – un tempo la chiamavamo street art – che oggi la Sovrintendenza dei beni culturali riconosce come patrimonio da tutelare. Interventi realizzati da artisti ora di rilievo e respiro internazionale che hanno scelto un seminterrato, non un attico di lusso, per lasciare traccia.

È un paradosso che smonta molte retoriche: la bellezza non è prerogativa dei piani alti né sta in vetrina, germoglia nelle pieghe urbane, nelle controculture, negli spazi accessibili a chiunque, dove l’arte diventa esperienza comune e non c’è soluzione di continuità tra bellezza e politica.

Il Leoncavallo mostra che culture, mutualismo, gratuità e relazioni sono i soli anticorpi di cui disponiamo contro una città ridotta a merce.

Questi principi non sono residui romantici, ma infrastrutture sociali ancora generative e trasformative. Guardare Milano non dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto significa cambiare paradigma: riconoscere che la ricchezza di una metropoli non si misura in metri quadri di suolo consumati, in cortili edificati, in capitali attratti e quotati, ma nella capacità di costruire comunità, di garantire spazi condivisi, di dare forma a nuove possibilità di convivenza.

Nei decenni che si sono susseguiti senza confini né frontiere al Leoncavallo è passato tanto e tanti con grammatiche spesso fuori dagli schemi e dai confini. Di fronte alle dipendenze, si sceglie la via della riduzione del danno e della cura collettiva, senza moralismi né stigma: non si rifiuta nessuno tranne i vecchi e i nuovi proibizionismi.

È un metodo che mette al centro i diritti e i beni comuni, e che prelude a una società capace di sconfinare per abbracciare chi finisce sempre escluso: persone vulnerabili, migranti, precari.

Le culture – sempre al plurale – vivono e si intrecciano ogni giorno. Sul palco del Leoncavallo passano grandi nomi dal cantante Manu Chao alla drammaturga Franca Rame, dal regista premio Oscar Gabriele Salvatores al premio Nobel per la letteratura Dario Fo, dall’attivista canadese Naomi Klein al prete di strada don Andrea Gallo, dalla Sindaca di Barcellona Ada Colau alla comandante curda Nasrin Abdalla, solo per citarne alcuni, e allo stesso tempo trovano spazio voci emergenti, artisti underground, collettivi che altrimenti sarebbero rimasti flebili e isolati. Perfino il cibo e il vino diventano linguaggio politico e culturale: con l’indimenticabile Luigi Veronelli, con il festival La Terra Trema, con i produttori indipendenti che resistono alle multinazionali del cibo, la cultura enogastronomica si afferma come pratica di comunità e di resistenza.

Il mutualismo è la risposta più avanzata al nostro tempo solipsistico. Solidarietà organizzata dal basso: consulenze legali gratuite, corsi di italiano per migranti, pionieri dei piani antifreddo del Comune, sostegno a chi lotta sul lavoro, accoglienza per chi non ha una casa, le battaglie per il reddito. È un welfare comunitario che mette in rete energie e persone, capace di rispondere alle crisi che viviamo: dalla precarietà all’inflazione, dalla solitudine urbana fino alla crisi climatica. È un modello che funziona qui e ora, e per tanti tempi ancora da venire.

Il Leoncavallo significa soprattutto libertà

Il Leoncavallo significa libertà di essere, di creare, di dissentire, di immaginare insieme. Libertà di costruire legami, di inventare forme di vita più giuste, più solidali, più felici. Non nostalgia, non ricordo: futuro semplice.

Oggi Milano si racconta come città globale, ma quale futuro costruisce davvero? Quello dei grattacieli e dei quartieri di lusso, dove un bilocale costa un’eredità, o quello delle seconde e delle terze occasioni per chi inciampa e si rialza?

Lo sfratto degli scorsi giorni ci costringe a una domanda: che modello di città vogliamo e scegliamo? Una città verticale, che misura il successo in metri quadri venduti, oppure una città orizzontale, che guarda la ricchezza nelle relazioni, nelle opportunità condivise, nella giustizia sociale? Difendere il Leoncavallo non significa proteggere una reliquia, ma rivendicare la possibilità di una Milano differente, anzi inedita.

In una fase di transizione ecologica e sociale non è più il tempo di “Milano non si ferma” ma quello di camminare andando al passo del più lento. Serve un pensiero dal basso, capace di affrontare i nodi dell’abitare, del lavoro precario, della cultura accessibile, dell’accoglienza di chi arriva da altrove.

 

Ci viene in mente un modo di dire, un luogo comune – che ha generato miliardi di meme – nato per raccontare relazioni che finiscono male, anzi malissimo, fragilità sentimentali ed esistenziali di questo tempo in cui anche l’amore è più complicato: “Non sei tu, sono io!”.

Ecco, dalla città di sotto vogliamo urlare con tutta la voce che abbiamo: “Non sei tu, siamo noi”. Non c’è emancipazione individuale senza una dimensione collettiva. Non ci sono interessi privati a cui sacrificare quelli pubblici. Non c’è felicità se non è condivisa. Non c’è futuro senza la voglia di immaginarlo insieme.

In questo senso difendere il Leoncavallo è – letteralmente – un ritorno al futuro: la consapevolezza che ciò che serviva ieri serva ancora di più domani. Perché la crisi climatica imporrà nuove forme di solidarietà, perché la precarietà richiederà nuovi strumenti di mutualismo, perché le culture avranno bisogno di spazi liberi, sottratti alla logica del mercato e del consumo.

Gli autori hanno chiesto di devolvere il compenso dell’articolo alla raccolta fondi per il Leoncavallo. Chi volesse partecipare può trovare tutte le informazioni su leoncavallo.org, insieme ai dettagli sulle prossime mobilitazioni a partire dalla manifestazione nazionale del 6 settembre.

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Presidente di Municipio 9 del Comune di Milano e psicologa.
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