Latella rilegge Il servitore di due padroni4 min read

24 Marzo 2014 Cultura -

Latella rilegge Il servitore di due padroni4 min read

Reading Time: 3 minutes
Latella rilegge Il servitore di due padroni[quote align=”center” color=”#999999″]Da Goldoni a Latella passando per Strehler, nuova vita alla tradizione teatrale.[/quote]

Effettivamente non so se avrei deciso di dedicare gran parte dei miei studi e del mio tempo libero al teatro se, alla tenera età di 10 anni, non fossi stata portata al Piccolo Teatro a vedere l’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler. Quei colori, quella mimica così chiara da superare le parole effettivamente pronunciate, quel puro divertimento sono i primi ricordi che ho di un palco.

Ecco perché mi ha incuriosito Il servitore di due padroni di Antonio Latella, in scena al Teatro Elfo di Milano sino al 30 marzo prossimo, ed ecco perché non credo di aver ancora incassato il duro colpo infertomi dal regista, il cui scopo in questa pièce è proprio quello di distruggere la tradizione per mostrarci le nuove strade prese dal teatro contemporaneo.

In primo luogo il testo: grazie all’aiuto del drammaturgo Ken Ponzio, Latella riprende in mano l’originale di Goldoni e dona nuovo spessore e significato a quelle sfumature che Strehler aveva volutamente ignorato, restituendoci dei personaggi che fatichiamo a riconoscere. Arlecchino per primo non è più il servitore di Beatrice Rasponi, ma suo fratello (recuperando il personaggio di Federigo, in Goldoni assente perché ucciso in un duello), e con lei ha un rapporto incestuoso. La sessualità della stessa Beatrice è a dir poco ambigua, come riveleranno le scene cariche di erotismo con Clarice, promessa sposa di quell’uomo di cui lei sta portando la maschera, qui riassunta in un semplice paio di baffi.

Gli stessi costumi – firmati da Annelisa Zaccheria come le scene – e le musiche (qui piuttosto giocate sui suoni e sulla loro rielaborazione) hanno un ruolo straniante: Arlecchino non indossa il solito costume a rombi colorati, ma è vestito totalmente di bianco, neutralizzato. Al contrario gli altri personaggi indossano abiti che in qualche modo rispecchiano la loro identità, da quelli settecenteschi con tanto di parrucca, a quelli anni ’50 sino ad arrivare alla moda attuale e impedendoci di definire l’epoca in cui questa storia è ambientata, come fosse al di là del tempo e dello spazio.

Lo spettacolo ci accoglie in un contesto che facilmente riconosciamo: si apre il sipario, uno alla volta entrano i personaggi, quando chiamati a parlare, e la scenografia è stranamente – trattandosi di Latella – realistica. Ci troviamo nella hall di un hotel, con pavimento di vera moquette, lampadari che si accendono e si spengono con veri interruttori e addirittura un vero ascensore.

Eppure pian piano quest’ambiente si trasforma, gli elementi che lo compongono iniziano a diventare altro (Florindo ad esempio entrerà in scena, calcandola come una passerella, uscendo dall’ascensore come fosse la porta della Casa del Grande Fratello che si apre sullo studio di Canale 5, con tanto di musica pop frastornante in sottofondo), fino a essere completamente smontati dagli stessi attori, che nella seconda metà dello spettacolo arrivano a svuotare la scena rompendo definitivamente la quarta parete e lasciando lo spettatore davanti a un palco vuoto.

Ed è allora che chi è seduto in platea – me per prima – inizia a sentirsi smarrito, come del resto gli stessi attori: privati del loro personaggio, della tradizione dell’Arlecchino (Arlecchi? No!, Arle? Chi? No!) vagano in scena senza una meta precisa.Latella rilegge il servitore di due-padroni

Ed è a quel punto che non è più molto chiaro – o forse semplicemente non ha più molta importanza – quel che hanno da dire, è lì che ha inizio la rivoluzione che Latella vuole mettere in atto. Quella di sbattere in faccia allo spettatore la natura menzognera del teatro per poi, una volta riconosciuta la convenzione che rappresenta, tornare a occuparsi della verità (ma quale?).

E così Il servitore di due padroni si conclude riprendendo il famoso lazzo della mosca, magistralmente interpretato da Ferruccio Soleri nell’Arlecchino strehleriano, che il bravissimo e quanto mai snodato Roberto Latini ripropone in scena diretto dai suoi compagni passo per passo una, due, tre volte, come a parlarci del lavoro dell’attore. In pratica si conclude tornando alla tradizione.

Restano però alcune domande: qual è la verità di Latella? è possibile che questo spettacolo parli di quanto il teatro contemporaneo debba occuparsi di verità senza di fatto farlo? Era davvero necessario andare a scomodare uno spettacolo e un testo che rappresentano la tradizione del teatro italiano? Va bene distruggere, ma oggi più che mai conosciamo l’importanza della ricostruzione e ci lamentiamo se non è solerte.

In definitiva: mi sento ancora un po’ smarrita.

CONDIVIDI

A 10 anni ripetevo le formule magiche delle mie eroine dei cartoni animati credendo che mi sarei trasformata in qualcuno. Ma non è mai successo. Poi ho iniziato col teatro: mi commuovevo per gli attori. Ho creduto che avrei fatto quel mestiere. Ma non è mai successo. Dopo una laurea in Beni culturali e una specializzazione alla Paolo Grassi, vedo tutti gli spettacoli teatrali e dopo fatico a tornare in me. E questo succede sempre.
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Iscriviti alla niusletter e resta aggiornato

Lascia la tua email qui sotto e rimani aggiornato con le ultime novità dal Blog di Le Nius
Puoi annullare l’iscrizione in qualsiasi momento facendo clic sul collegamento nel footer delle nostre e-mail. Per informazioni sulle nostre pratiche sulla privacy, trovi il link qui sotto.

Su cosa Vuoi Rimanere Aggiornat*?

Scegli lo scopo per cui vuoi ricevere le nostre Niusletter. Scegli almeno un’opzione per permetterci di comunicare con te

TORNA
SU