La fine dei giochi3 min read

6 Aprile 2015 Giochi -

La fine dei giochi3 min read

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@Blake Patterson

[divider scroll_text=”il culo di Rubik”]
Chi segue questa rubrica dall’inizio – a proposito, ne approfitto per segnalare che ormai andiamo in onda da un annetto e mezzo – avrà notato che quando parlo di videogiochi tendo ad assumere un atteggiamento passatista, con ampio ricorso a espressioni quali ai miei tempi e forse i più giovani non sanno che.

Del resto è inevitabile. Il mondo del divertimento elettronico è cambiato talmente tanto dalle origini a oggi che chiunque ne abbia vissuto l’evoluzione in diretta non può evitare di fare paragoni tra passato e presente. Tra i videogiochi coi quali sono cresciuto e quelli dell’Anno Domini 2015 c’è un mare di differenze, la più importante delle quali non è la grafica o l’animazione, ma il fatto che i giochi di una volta erano difficili.

Certo, è cambiato anche il contesto. Nel Ventunesimo secolo qualunque videogiocatore può contare su un’arma in più: Internet. Basta una ricerca di tre secondi su Google per accedere a un archivio infinito di aiutini, suggerimenti e soluzioni complete – i cosiddetti walkthrough – mentre gli smanettoni più esperti sono a pochi link da cheat come invulnerabilità e vite infinite.

Tutte queste cose esistevano anche ai tempi dello Spectrum e del Commodore 64. Il problema era la trasmissione delle informazioni: in assenza della Rete, ci si affidava a pionieristiche riviste di settore come la gloriosa Zzap!, che giocoforza pubblicava solo una risicata e arbitraria selezione mensile di aiuti. Per tacer del fatto che quando si acquistavano prodotti piratati – cioè, diciamocelo, nel novanta per cento dei casi – le istruzioni in allegato erano scarse o nulle, e già capire quale fosse lo scopo del gioco era un’impresa. Insomma, i giocatori erano molto più soli dei loro omologhi odierni.

Ma la questione è prima di tutto strutturale: i videogiochi contemporanei sono progettati a priori per essere risolti con facilità, o almeno senza sudare troppo. È così da una decina d’anni, e cioè da quando la macchina del marketing ha deciso che i gamer preferiscono vincere piuttosto che essere messi alla prova.

Siamo ad anni luce di distanza da Ghouls’n Ghosts, classe 1988, un titolo talmente impegnativo che i suoi stessi programmatori stentavano a raggiungere il livello finale.

Ai miei tempi – ecco le fatidiche parole… – affrontare un videogioco non dava alcuna garanzia di successo, anzi, il più delle volte sapevi che non avresti visto la fine dei giochi che ti appassionavano. Una fine che nella maggior parte dei casi si sarebbe ridotta alla scritta “HAI VINTO!” su sfondo nero, altro che gli epiloghi cinematografici di oggi.

Un po’ di sociologia spicciola? Potremmo guardarci intorno e osservare il mondo moderno, figlio di quella generazione che ha passato i pomeriggi con un joystick in mano ad affrontare missioni impossibili, con l’ingombrante consapevolezza di avere poche o pochissime chance di vittoria. E poi potremmo provare a immaginare come sarà il mondo tra venti o trent’anni, quando il joypad della realtà sarà in pugno a chi oggi è abituato a pensare che niente è difficile.

Fermo restando che qualunque videogiocatore, della vecchia o della nuova scuola, prima o poi impara che prima o poi qualsiasi gioco, bello o brutto, finisce. E anche qualsiasi rubrica.

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Classe 1975, è laureato in Lettere. Lavora come editor in campo letterario, televisivo e cinematografico. Vive con la sua famiglia a Segrate, in provincia di Milano.
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