Il fenomeno Italian Brain rot o i Social Media come educatori17 min read
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L’invidiabile virtù delle patate, l’incurabile marciume dei cervelli
Nel 1854, lo scrittore e filosofo statunitense Henry David Thoreau, ambientalista, antischiavista, teorico della disobbedienza civile e del pensiero non violento, nelle conclusioni del suo capolavoro Walden o la vita nei boschi, si domandava come mai, «mentre l’Inghilterra fa il possibile per curare il marciume delle patate [potato-rot], nessuno si preoccupa di curare il marciume dei cervelli [brain-rot], che tanto più prevale ed è tanto più fatale?».
Centosettant’anni dopo Thoreau, che lo aveva utilizzato per la prima volta, il termine Brain rot è stato eletto, nel 2024, Oxford Word of the Year. Definito come «il supposto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona, come risultato del consumo eccessivo di contenuti (in particolare online) considerati banali o poco impegnativi», il Brain rot, o marciume cerebrale, è quella sensazione di disagio, confusione o stordimento che ognuna e ognuno di noi avrà provato sulla propria pelle dopo ore di scrolling, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio e non ricordando neppure più cosa abbia guardato, come se tutti quei contenuti ci fossero scivolati sul corpo, passati attraverso.
Per estensione, vengono chiamati Brain rot anche quegli stessi contenuti online capaci di tenere incollati allo schermo, privi di alcun significato, valore o funzione educativa. Brain rot indica, pertanto, sia una sensazione soggettiva, quanto il contenuto oggettivo che la genera. Torneremo su questo punto più avanti. Per il momento, è interessante notare come il termine, prima della sua recente esplosione, circolasse online già dal 2007, crescendo progressivamente di popolarità fino a un incremento del 230% tra il 2023 e il 2024.
Si sa, la storia cambia di continuo e con essa le sue storie, i temi e le problematiche che toccano da vicino la vita quotidiana delle infinite forme di vita che abitano questo nostro pianeta. La questione delle patate e del loro stato di salute, ad esempio, non è più all’ordine del giorno sui nostri teleschermi, sulle prime pagine dei giornali o nelle agende politiche dei nostri governi. Le patate godono, oggi, di un’invidiabile salute. Poi, però, ci sono temi che attraversano trasversalmente la nostra storia e le nostre storie e che, a volte, a secoli o persino a millenni di distanza, ritornano sotto i nostri occhi con urgenza rinnovata. Una di queste è lo stato di salute del nostro cervello e della nostra psiche, i quali non paiono affatto attraversare la propria epoca d’oro, per usare un eufemismo. Non a caso, secondo alcune stime dell’OMS, disagi psichici come la depressione rappresenteranno nel 2030 le malattie più diffuse al mondo, più del cancro e dei disturbi cardiovascolari.
Ma perché si marcisce? Che si parli di patate o di cervelli, il marcire – sinonimo di decomporsi, imputridirsi, guastarsi o corrompersi – è un concetto che ha sempre a che fare tanto con l’ambiente che si abita quanto con gli elementi che ne fanno parte. Da un lato, si marcisce in base a fattori particolari con i quali si entra a contatto: batteri, muffe, funghi, lesioni o agenti patogeni. Dall’altro, si marcisce per una condizione sistemica dell’ambiente nel quale si vive o ci si relaziona: per la composizione del terreno, per il calore, la luce, aria o la mancanza di queste ultime. Nel primo caso, il contagio avviene per contatto tra singoli individui infetti, ciascuno è causa della malattia dell’altro (ad esempio, il batterio della xylella per gli ulivi della Puglia). Nel secondo, i singoli individui infetti marciscono per una causa comune (ad esempio, la siccità per le agricolture della Basilicata).
In che modo, allora, marciscono i cervelli? Probabilmente, nel secondo dei due sensi. Negli ultimi trent’anni, infatti, con la diffusione dell’Intenet di massa e, in particolare, negli ultimi quindici, con l’avvento dei Social Media, stiamo assistendo a una radicale, fulminea, pervasiva ed egemone mutazione del linguaggio e della comunicazione, ossia, dell’ambiente nel quale abita la nostra psiche. Radicale, perché da un lato tocca le radici del linguaggio stesso, la sua stretta connessione con il corpo, la mimica, gli odori, la postura, le emozioni; mentre, dall’altro, trasforma il valore e il senso dei segni stessi, spostando l’attenzione dal verbale all’immaginario, dal concetto all’icona. Fulminea, perché questa mutazione è occorsa, globalmente, in poco meno di vent’anni. Pervasiva, perché, come sostengono ad esempio Bifo o Geert Lovink (autore di Nichilismo digitale, Egea, 2019), le sue forme fuoriescono dall’ambiente della comunicazione online, entrando negli incontri offline e nella conformazione del corpo sociale reale. Egemone, infine, perché pochissime culture particolari, forme dilettali, per dirla con Pasolini, o subalterne, come le definiva Gramsci, resistono oggi a questa trasformazione.
Per questo, non si può ridurre, oggi, il fenomeno Brain rot al banale, ennesimo, episodio di contenuto spazzatura generato e trasmesso dai mezzi di comunicazione di massa. I Brain rot non sono semplicemente un virus che si può curare, ma un epifenomeno della relazione che intratteniamo con il nostro ambiente linguistico-comunicativo all’interno dei Social Media. Non sono casuali, ma strutturali. I Brain rot siamo noi. E dal modo in cui ci interesseremo ad essi, dalla serietà con cui li prenderemo in considerazione, ne deriverà la serietà con la quale vorremo curarci della salute della nostra psiche e di quella delle prossime generazioni. Cerchiamo, quindi, di analizzare il fenomeno Brain rot più nel dettaglio.
La repubblica delle bananini chimpanzini: l’Italian Brain rot e le sue origini
L’Italia ha spesso rappresentato il luogo di sperimentazioni sociopolitiche o, in una sua versione debole, di fenomeni sociopolitici emersi spontaneamente e poi replicati in tutto il mondo. Il culto della personalità e il braccio teso di Benito Mussolini hanno anticipato quelli di Adolf Hitler, il miliardario imprenditore Silvio Berlusconi e i suoi festini hanno predetto il tycoon Trump e il suo machismo, le repressioni di Genova nel 2001 hanno preannunciato decenni di violenze contro le manifestazioni della società civile, il comico-garante Beppe Grillo ha preceduto la carriera del presidente-attore ucraino Volodymyr Zelens’kyj e la lista potrebbe proseguire a lungo.
Nel 2025, in continuità con queste “medaglie al valore”, la penisola nostrana è stata la base di partenza per un nuovo fenomeno mondiale, del quale non conosciamo ancora chi ne raccoglierà l’eredità: la proliferazione di video online, in particolare su TikTok, divenuta celebre con il nome di Italian Brain rot.
Per chi non avesse ancora sentito parlare del marciume cerebrale italiano, diffusissimo tra le nuove generazioni, in particolare nella Gen Z e la Gen Alpha (per chi, come me, si fosse perso con i nomi delle generazioni, può recuperare qui), si tratta di immagini o video brevissimi, della durata spesso inferiore al minuto, generati dall’intelligenza artificiale, che rappresentano collage di oggetti e forme animali, umane o vegetali, con dei nomi che rispecchiano gli elementi contenuti. Si passa, così, da Chimpanzini bananini, uno scimpanzé la cui metà inferiore del corpo è una banana, a Cappuccino assassino, una tazza di caffè americano munita di katana, Cappuccina ballerina, una ballerina umana con al posto della testa una tazzina di caffè, Lirili Larila, un elefante-cactus che cammina per il deserto, con il piede in un enorme sandalo, passando per Trippi troppi, Capibarello cocosini, Brr Brr Patapim, Trulimero Trulichina, Penguino cocosino e così via (per chi voglia approfondire, c’è un intero Italian Brainrot Wiki da consultare).
Ognuno di questi video è accompagnato da una voce maschile, sempre la stessa, anch’essa generata dall’IA, che fornisce una breve descrizione del personaggio, quasi sempre in italiano, a parte alcune eccezioni, come Tung tung tung sahur (indonesiano). A volte le parole sono prive di alcun significato, come per Chimpanzini Bananini («Chimpanzini Bananini! Wa wa wa! Bananuchi monkey monkey monkey uchi!»), a volte le descrizioni si fanno più articolate, come per Cappuccino Assassino («Cappu-cappu-cappuccino Assassino! Assassini cappuccini! Questo killer furtivo si infiltra tra i nemici approfittando della notte. Attento, odiatore di caffè! Se non bevi una tazza di cappuccino al mattino, è meglio non incrociare questo tizio»), fino a creare delle brevi storie.
Ognuno di questi personaggi può vantare, ad oggi, milioni e milioni di visualizzazioni su tutti i Social Media. Non è un unico canale a postare i contenuti, ma diversi utenti, spesso privi di relazione tra loro, i quali condividono contenuti già postati, oppure creano essi stessi nuovi personaggi con l’IA, aggiungono elementi a quelli già esistenti, o creano mash-up con canzoni celebri, come la colonna sonora di Barbie.
Come per tutti i contenuti online di questo genere, rintracciarne l’origine è difficile, se non impossibile. Tuttavia, il personaggio di Tralalero tralala, uno squalo con alle pinne un paio di scarpe Nike, è largamente considerato la prima apparizione di un Italian Brain rot, postato dal tiktoker italiano @eZburger401 a gennaio del 2025 e subito dopo bannato dalla piattaforma a causa delle frasi blasfeme contenute nel video. Già, perché in aggiunta ai teneri personaggi menzionati in precedenza, la voce che accompagna lo squalo con le Nike recita, come se nulla fosse, «Tralalero Tralala, porco D** e porco A****» (ma la frase originale è ancora più lunga e significativamente problematica).
In questo caso, parlare di no-sense diventa più complicato. Dal momento che le frasi scoordinate e gli accostamenti privi di significato, lasciano per un momento il posto a un messaggio chiaro e facilmente intuibile, nonché replicabile da bambine e bambini e da chi non ne comprende il significato, come sottolinea Il Fatto Quotidiano.
Ma il blasfemo squalo Tralalero non è affatto la peggiore manifestazione che questo mondo virtuale è stato capace di proporre. C’è, ad esempio, Simone, un rinoceronte sovrappeso che guarda la televisione, viene tradito dalla moglie e, ancor peggio (secondo la voce dell’intelligenza artificiale), è comunista. Poi, ci sono video nei quali i più teneri personaggi Brain rot vengono rincorsi e arrestati dalla polizia, rappresentata priva di occhi e con mostruosi denti. Poi, c’è l’apice. Bombardiro Crocodilo e Bombombini Gusini, un alligatore, il primo, e un’oca, la seconda, i cui corpi sono fusi a dei cacciabombardieri, dei quali preferirei non riportare le frasi pronunciate, lasciando a lettrici e lettori il “piacere” di scoprire con le proprie orecchie ciò a cui bambini e bambine di neppure otto anni vengono esposte quotidianamente. Eppure, sento di dover condividere l’orrore, di non poterlo nascondere: «Bombardiro Crocodilo, un fottuto alligatore volante, che vola e bombarda i bambini a Gaza e in Palestina. Non crede in Allah, e ama le bombe. Si nutre dello spirito di tua madre. E se hai tradotto tutto questo, allora sei uno stronzo. Non rompere la battuta, prostituta». Quella di Bombardiro Crocodilo non è ironia, ma violenta e sarcastica aggressività. Eccita perché valica gli ultimi tabù della dignità umana. Eccita perché dice l’indicibile. Ma perché abbiamo bisogno di tanta eccitazione? Perché abbiamo bisogno di superare questo limite? A quale prezzo paghiamo la conquista dell’attenzione?
Milioni di persone sono state bombardate dalle parole di questo video e numerosi sono stati gli articoli e le reazioni a questo genere di messaggi islamofobi, razzisti e disumani, tanto da scomodare persino il New York Times, che ha parlato di strumentalizzazione ideologica e politica del fenomeno mediatico. Senza che esempi del genere abbiano impedito, tuttavia, a una serie di altri commentatori e commentatrici di continuare a definire i Brain rot come semplici contenuti no-sense, spontanei, ironici e persino esilaranti (come in articoli apparsi su Geopop o Forbes).
Eppure, tra l’esaltazione e la condanna del contenuto, esiste anche un’ulteriore via interpretativa, che si concentra sulla forma di questi messaggi. Come scrive Franco «Bifo» Berardi sul suo blog Il disertore, la chiave del successo di fenomeni di questo genere «sta nella mostruosità: l’esibizione della disumanità è diventata la nuova frontiera dello spettacolo. Mostruoso è ciò che affascina. La parola “mostruoso” è la chiave per capire. Mostruoso è ciò che deve essere mostrato, ciò che desideriamo ci venga mostrato, ciò che la mente esausta per l’elettrocuzione permanente a stimoli info-nervosi, desidera ricevere per potersi ancora eccitare. Un secolo di pubblicità ha infantilizzato il linguaggio, sostituendo con la stupefazione ogni criterio di valutazione logica, etica, estetica».
Sense o no-sense? Affinità e divergenze tra il compagno Skibidi toilet e noi
Secondo Fabrizia Malgieri, l’«Italian Brain rot non ha inventato nulla o, quanto meno, non fa nulla di più o nulla di meno di quanto sia già stato detto, raccontato, ironizzato da altre forme di contenuto, magari con un piglio decisamente più brillante – o semplicemente, con la voglia di far ridere nel modo più innocuo e insensato possibile».
In un certo senso, è vero. Ben prima del marciume degli Italian Brain rot, numerose altre forme di contenuti-spazzatura avevano fatto la loro comparsa e proliferato in televisione o sul web. Basti pensare agli Sgorbions, una serie di figurine collezionabili degli anni ’80 di carattere trash-demenziale. Oppure, ai più recenti Happy Tree Friends, un cartone animato con simpatici orsacchiotti e altri animaletti che si uccidevano nei modi più cruenti senza un’apparente ragione. Fino alla contemporanea serie animata Skibidi Toilet, creata nel 2023 dallo youtuber georgiano DaFuQ!?Boom!, basata su guerre distopiche tra gabinetti dalla testa umana.
Da un lato, non c’è dubbio che i Brain rot si inseriscano in una linea di continuità con la demenzialità precedente. Come si è detto, già Thoreau se ne lamentava due secoli fa. D’altro canto, tuttavia, ci sono buone ragioni per affermare che questo fenomeno rappresenti una cesura, una discontinuità forte con tutti i fenomeni simili che l’hanno preceduto.
In primo luogo, i Brain rot sono creati dall’IA. A differenza dei più antichi marciumi, i contenuti sono indistinguibili gli uni dagli altri. Non c’è uno stile riconoscibile del singolo autore o della singola autrice (come invece accadeva con Skibidi Toilet, gli Sgorbions,…), se non la frase che si sceglie di mettere in bocca alla voce semi-umana, pronta a recitarla. Se un utente viene bannato, immediatamente il video ricompare su un altro canale. Sembra impossibile impedire, all’interno della conformazione attuale del media del Social, la diffusione di questi contenuti, privi di un imputato preciso, privi di responsabilità o autorialità. L’IA è lo strumento capace di appiattire le differenze su uno stesso piano semantico. E questa uniformità risulta funzionale allo scorrimento continuo dei contenuti, all’incedere di un flusso in cui la musica, le parole e le immagini possono sovrapporsi le une sulle altre, senza che ci sia il tempo di fermarsi su un singolo messaggio. Il messaggio è quello stesso scorrere, indefinito e inarrestabile.
In secondo luogo, la loro diffusione e pervasività sono un elemento tutt’altro che ignorabile. Nel vero e proprio mercato attuale dell’attenzione, grazie agli smartphone che ci accompagnano dalla culla alla tomba, il capitalismo della comunicazione richiede, 24/7, la nostra presenza. Per ottenerla, soprattutto nei più giovani, i Brain rot svolgono un ruolo centrale, rappresentando l’apparato di cattura più avanzato del sistema economico e politico nel quale questi mezzi e questi contenuti si inseriscono. Quella di apparato di cattura è un’espressione coniata dal filosofo Gilles Deleuze e dallo psicanalista Felix Guattari nel loro capolavoro Millepiani per indicare quegli strumenti capaci di catturare e controllare i flussi di desiderio e di energia degli individui, codificandoli e organizzandoli secondo le proprie logiche per poterli controllare. I Brain rot, in questo senso, rappresentano un apparato di cattura di gran lunga più sofisticato dei precedenti, che, alleandosi con la rapidità dell’algoritmo di un Social come TikTok, con la onnipresenza di smartphone nelle mani di ogni individuo e, in particolar modo, con il desiderio di novità, di curiosità, di eccitazione, offrono all’utente un appagamento di questi desideri in un infinito consumo di nuovi contenuti, sempre più brevi, sempre più insoddisfacenti.
In questo senso, i Brain rot sono legati indissolubilmente allo sviluppo dei nuovi Social Media. Nascono all’interno delle logiche che questi mezzi portano con sé a partire dalla loro stessa progettazione, del loro design. A poco servirà, allora, criticare i Brain rot senza considerare il mezzo che li rende quel fenomeno mediatico iper-diffuso del quale stiamo parlando. L’IA generativa può generare qualsiasi contenuto le chiediamo di generare, ma che siano questi contenuti a essere premiati dall’algoritmo, ha a che fare con il modo in cui quell’algoritmo è progettato. E quella progettazione, quel preciso design, fondato sulla brevità, sulla rapidità, sulla mostruosità (nel senso, sopra menzionato, di ciò che è capace di suscitare una reazione, positiva o negativa che sia) e sul no-sense (perché un senso complesso richiederebbe troppo tempo per essere elaborato e, dunque, una pausa dal consumo), non è deciso democraticamente, ma è frutto di una scelta da parte delle grandi aziende private che possiedono tali strumenti e che hanno come scopo non l’educazione, non dei valori, ma il valore, ossia il profitto economico e monetizzabile di quei contenuti e dell’attenzione degli utenti.
In questo senso, il genere di provocazione di Borbadiro Crocodilo somiglia molto alla strategia mediatica adottata dal presidente americano Donald Trump, il quale, fedele al principio per il quale “non esiste cattiva pubblicità”, pubblica da tempo video generati dall’IA su Gaza, sull’ex presidente Obama o di se stesso nelle spoglie di Papa. Eppure, se è chiaro a cosa miri Trump, ossia far parlare di sé a tutti i costi, al di là della ragione per la quale lo si faccia, meno chiaro è cosa ci stiano vendendo i Brain rot. Di cosa vogliono che si parli? A chi fanno pubblicità? La risposta è semplice: ai Social Media stessi.
[E, per inciso, non è un caso che, come per altri fenomeni successo e invasivi emersi dai Social Media, aziende quali Ryanair, KFC, Duolingo, come anche personaggi politici come Victor Orbán, si siano fiondati a utilizzare i personaggi degli Italian Brain rot per le proprie pubblicità. Fino ad arrivare a Skifidol, marchio di giochi per bambini, che ha recentemente lanciato persino una collezione di carte collezionabili ispirate a Chimpanzini Bananini & Co.]
Da McLuhan a Freire: i Social Media come educatori
Come scrisse una volta il visionario sociologo canadese Marshall McLuhan nel suo celebre saggio Gli strumenti del comunicare, nel 1964, «una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre».
Secondo McLuhan, sulla cui scia decine e decine di ricercatori e ricercatrici nel corso degli anni ha proseguito la sua indagine sociologica dei media e delle loro trasformazioni (vedi, ad esempio l’italiano Vanni Codeluppi, autore de Il tramonto della realtà, 2018), nessun media è in sé neutrale, indipendente dal messaggio che veicola, ma il mezzo di comunicazione stesso è l’agente di cambiamento più incisivo nella società. Da qui, la sua celebre massima «il medium è il messaggio».
Nel chiederci quale sia il messaggio dei Brain rot, dobbiamo necessariamente interrogarci sul messaggio del medium nel quale questo marciume prolifera. Qual è la struttura ambientale che propaga(nda) felicemente questo genere di contenuti. Se una frase come quella pronunciata da Bombardiro Crocodilo si trovasse su un libro di testo a destinazione delle scuole elementari o dell’infanzia, potremmo rivolgerci all’autore o all’autrice, alla casa editrice, al fornitore, all’insegnante che ha scelto quel testo per il proprio corso, persino a un tribunale. Quando l’unica azione che ci resta disponibile nel caso dei Brain rot, invece, è la pura e semplice indignazione, o il banale e fallimentare tentativo di controllare 24/7 l’utilizzo che viene fatto di queste piattaforme da parte dei nostri figli e figlie, allora c’è qualcosa che non va e questo qualcosa è molto più profondo di una semplice degenerazione di alcuni contenuti. Ha a che fare con il fatto che le forme più basilari e fondamentali della relazione umana e dell’educazione delle nuove generazioni sono oggi in mano ad aziende private che hanno come unico fine quello del profitto.
Come sosteneva il pedagogista Paolo Freire, la forma dell’educazione è molto più significativa del contenuto che trasmette (Pedagogia dell’autonomia, 2014). Riprendendo, ma rovesciando, il modello educativo di Freire, vediamo come il contenuto dell’educazione sui Social Media non abbia alcun valore, se paragonato al potere della sua forma educativa. A cosa educano i Brain rot? A una pedagogia della dipendenza (o degli oppressori), si potrebbe rispondere con Freire. I Brain rot non sono violenti solamente quando parlano come Tralalero Tralala o come Bombardiro Crocodilo, sono violenti nel modo in cui parlano, nella velocità con cui lo fanno, nello stile comunicativo che rifiuta la complessità, il nutrimento relazionale della nostra psiche, in funzione di una siccità, di un deserto, nel quale vagare senza meta alla ricerca di acqua, non trovando altro che granelli di sabbia, infiniti, insignificanti.




