Intervista a Fabrizio Nevola: una vita al massimo10 min read

23 Dicembre 2014 Cultura -

Intervista a Fabrizio Nevola: una vita al massimo10 min read

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@Intervista a Fabrizio Nevola

Quando ero piccola un ragazzo biondino venne a vivere nel palazzo accanto al mio. Era poco più grande di me e con tutte le amiche perdemmo la testa per quella novità nelle nostre vite un po’ monotone.

Quando ero piccola c’era un giorno a settimana in cui a casa mia si vedeva La Piovra. Non sapevo cosa fosse la Mafia ma qualcuno mi disse che quelle persone brutte e cattive esistevano davvero non lontano da noi, dicevano che con i loro tentacoli si potevano inoltrare ovunque. Odiavo quella serie, avevo letteralmente paura. Eppure non potevo fare a meno di guardarla. Dopo tanti anni, oggi le serie tv di maggior successo sono ancora sulla Camorra, sulla Mafia.

In una di queste – Squadra Antimafia – ha recitato Fabrizio Nevola, quel ragazzo biondino che ora è un uomo che ha scelto ancora una volta di rompere con la vita monotona e di fare l’attore.

Ho deciso di intervistarlo per sapere la sua opinione sul successo di queste serie e anche per saperne di più del suo percorso. Dalle sue parole Fabrizio sembra un saggio. Si nota una dedizione straordinaria al suo mestiere. Nella sua carriera ha avuto la capacità, la fortuna, la furbizia di stare al posto giusto, nella scuola giusta, nella produzione giusta. Un tipo di carriera che può fare incazzare chi con questo lavoro non riesce ad andare avanti. Un tipo di carriera che può dare grandi soddisfazioni e quindi, credo, grandi paure.

Anche se non concordo con alcune delle cose che dice, credo rappresenti un esempio notevole di passione per l’arte della recitazione che oggi fa tanto bene ascoltare.

Intervista a Fabrizio Nevola

Hai interpretato il personaggio di un mafioso nella serie Squadra Antimafia, secondo te a cosa è dovuto l’enorme successo delle serie legate al mondo della mafia/camorra? Credi sia in qualche modo conseguente ad una presa di coscienza della realtà in tutte le sue contraddizioni o sostieni che il pubblico si affezioni ad un buon prodotto in cui gli ingredienti azione-trama-personaggi siano confezionati ad arte, al di là della tematica?

Fin dai tempi di Shakespeare il lato oscuro della realtà e dell’essere umano ha sempre affascinato, perché non lo si conosce, perché non lo si esplora, non lo si vive in prima persona e vederlo rappresentato incuriosisce. Poi il male è sempre stato più affascinante del bene, più intrigante, allo stesso tempo provocatorio e tentatore ed è chiaro che se ne rimane sempre attratti, no? Ecco perché queste serie hanno successo, perché rappresentano personaggi che, seppur negativi, riescono ad essere comunque “fighi”. La fiction, come ogni forma di spettacolo rappresentato, dal teatro al cinema, crea nell’immaginario di chi assiste immedesimazione e tutti vorrebbero fare una vita al massimo, sempre attiva, senza badare al pericolo, circondati da belle donne e da tanti soldi. Si è disposti persino a dimenticare la brutta fine che regolarmente fanno tutti i cattivi, pur di vivere quell’attimo desiderato di adrenalina. Poi ovviamente la realtà è altra cosa e la gente di mafia di camorra non è poi così “figa”, loro non fanno delle vite poi così esaltanti. Ma lo spettacolo è spettacolo e crea dipendenza. Sono convinto quindi della seconda tua ipotesi, e cioè la confezione azione/trama/personaggi è sempre accattivante e spettacolare appunto da attrarre e suscitare interesse.

Sei cresciuto col teatro e sulla tua strada hai incontrato artisti che si sono misurati con il palcoscenico e altri che hanno solo sperimentato la macchina da presa, riconosci una differenza nella qualità di questi due percorsi?

C’è una differenza di codice: come nella scrittura ad esempio; un testo giornalistico è diverso da un testo medico/scientifico, che sarà altrettanto diverso dallo stile di un romanzo o di una lettera privata. Così nella recitazione. Il codice a teatro è diverso da quello usato nel cinema, nella televisione. Sempre di interpretazione si tratta ma a seconda del mezzo, corpo, voce ed espressività dell’artista devono adeguarsi al tipo di funzione richiesta. Mi spiego meglio: in teatro il corpo e la voce dell’attore sono testo, e centro della rappresentazione, tutto serve a modulare l’immaginazione dello spettatore che sarà attratto o meno dalla storia a seconda del tono, dell’espressione, di un movimento fatto sul palcoscenico, l’attore è lo spettacolo, e viene aiutato/supportato dalle luci o dai costumi o dalla scenografia, ma spesso, come insegna Peter Brook, il contorno non è necessario. In tv l’approccio è più realistico, la gente a casa deve riconoscersi in quello che stai rappresentando e l’artista deve modulare il suo intervento sottraendosi, per lasciar spazio alla natura che ti recita intorno. Nel cinema la luce è protagonista assoluta e tu entri a far parte di un quadro, devi assolutamente capire che tipo di pennellata serve per andare a migliorare quel quadro, per aggiungere poesia a quel quadro, devi esser credibile sì, ma non necessariamente realistico, l’importante è che l’artista faccia da tramite tra lo spettatore e il sogno. Questo ovviamente in teoria, oggi è altra cosa, tutti fanno tutto e spesso si assiste ad un teatro che è simile ad una fiction, a film che potrebbero benissimo essere delle fiction, a fiction che potrebbero esser solo pubblicità. Ahimè tutto si è livellato verso il basso perché la crisi, la mancanza di investimenti, hanno fatto sì che lo spettacolo, forma comunque d’arte, diventi soggetta a leggi di mercato e l’arte non può, non deve rispettare la spietata legge del commercio. È come se a suo tempo si fossero stracciate le tele di Picasso perché in quel momento storico non si riuscivano a vendere i quadri di Dalì, perché forse allora incomprensibili e non “piazzabili” commercialmente o bruciate le tele di Caravaggio perché la chiesa non poteva esporle….

Come si nutre un attore oggi? In che modo, conclusa l’Accademia, decidi di continuare il tuo percorso di arricchimento? Sei uno di quegli attori che si ciba di tanto teatro e cinema o uno di quelli che si isola un po’ per concentrarsi solo sui propri progetti?

Sono uno di quegli attori che va a vedere tutto, soprattutto teatro, perché mi piace molto da spettatore. Lo spettacolo dal vivo mi appassiona tanto. Un attore non deve mai smettere di allenare il proprio corpo come fosse un atleta e nutrirlo di poesia, così come citava una targa autografata da Orazio Costa Giovangigli, posta lì, all’ingrasso dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’amico. Che bello entrare ogni giorno e leggere quelle frasi, che bello entrare in Accademia! Potessi farlo, non smetterei mai di stare lì, la rifarei ancora e ancora. Oggi un attore questo deve fare, non smettere mai di ricercare, di analizzarsi come uomo e come artista, per verificarsi, relazionarsi alla realtà circostante, nutrirsi sempre di poesia e aggiungerei di filosofia, di letteratura, leggere leggere tanto. Un attore ha il compito di sapere rievocare il passato, riproporre il mito, anche cercando, provando ad educare chi è impegnato a vivere, al sapersi fermare solo un momento e dedicarsi alla riflessione. Riflessione su se stessi e su quel vivere che ormai sta sempre più somigliando a uno scivolare.

Hai lavorato al fianco di grandi, credi ci sia ancora un retaggio della figura capocomicale? In che modo si è evoluta nella produzione contemporanea? Hai avuto la possibilità di individuare dei “maestri” e di rubare da loro?

Parte della formazione di un attore oggi, riallacciandomi alla domanda precedente, è anche imparare da chi questo mestiere lo fa da più anni di te, da chi ha maggiore esperienza. Io ho sempre ricercato un capocomico, non ho mai smesso, ancora oggi, di ricercare Maestri, per poter imparare, perfezionare, confermare o anche rimettere in discussione la mia arte. Ce ne sono tanti in Italia, io li ho sempre trovati, basta soltanto avere l’umiltà di cercarli e di non sentirsi già pronti o completi. Oggi sto a scuola da Giuliana Lojodice e da Giuseppe Pambieri, che insieme al regista Giancarlo Sepe mi stanno dando tanto in questo spettacolo che stiamo portando in giro in Italia: La Professione Della Signora Warren. Ranieri ad esempio è un Capocomico e gestisce la sua compagnia come si faceva prima e come in realtà si fa in teatro quando lavori con chi ha fatto la storia del nostro spettacolo. L’arte teatrale è sempre la stessa e si tramanda da generazione in generazione, le basi sono quelle e saranno quelle per sempre. i contenuti sono sempre gli stessi che ritroviamo nelle opere di Eschilo, Sofocle, Euripide, cambia solo la forma comunicativa, gli attori fanno sempre gli stessi capricci che si facevano allora, in teatro si fanno sempre le stesse discussioni da una vita, si ripetono sempre le stesse relazioni. Tutto questo io lo trovo fenomenale e affascinante. Il tempo si ferma quando sei nei camerini, quando sei in scena. Il trucco, la sarta, i tecnici… un mondo parallelo. L’entrata degli artisti di ogni teatro è come uno STARGATE, si entra e si esce da un’altra dimensione. Se qualcosa è cambiato? La produzione. Si è involuta altroché evoluta. La mancanza di investimenti pubblici, la distrazione del governo, delle provincie, dei comuni riguardo a questo mondo sta distruggendo il sogno. Oggi si sta assistendo a niente di diverso che al brutale, inutile, volgare incendio dei libri fatto dai nazisti durante la grande guerra. Solo meno eclatante. Molti teatri, colonne importanti, storia della nostra cultura, sono in completa crisi, non riescono a pagare attori e tecnici, non producono più spettacoli, non fanno promozione e non esiste più in Italia fermento culturale. La gente parla solo di ricette. Il teatro Eliseo ha chiuso e questo ha fatto meno scalpore di quando la Clerici è stata costretta a chiudere quell’orribile trasmissione dove faceva cantare i bambini.

Da chi è costituito secondo te il pubblico teatrale oggi in Italia? Quale potrebbe essere una strategia per invogliare ad andare a teatro?

Oggi purtroppo il pubblico teatrale non si è rinnovato. Quelli che erano appassionati di teatro da giovani riempiono adesso le sale dei teatri da anziani, attraverso gli abbonamenti. Sono loro la vera linfa vitale del teatro e allo stesso modo loro sono la causa principale del suo mancato rinnovamento, ciò che lo sta facendo morire. L’abbonamento serve al teatro per assicurarsi denaro ad inizio stagione, per affrontare le spese necessarie. L’abbonamento, siccome è fatto per la maggior parte da persone anziane, non serve a rinnovare gli spettacoli, a rischiare nella sperimentazione, in nuove forme comunicative che magari sono più accattivanti e comprensibili per un pubblico giovane, e questo non agevola quel cambio generazionale tanto auspicato, e così, come pian piano i vecchi appassionati rinunciano ad abbonarsi perché giustamente invecchiano, così le poltrone del teatro si svuotano. Il problema è anche il prezzo dei biglietti, è vero che lo spettacolo dal vivo va pagato di più ma i 25\36 euro per una poltrona a teatro mi sembrano, visti i tempi, eccessivi. Un prezzo standard di 15 euro forse aiuterebbe a diminuire la concorrenza del cinema e ad invogliare di più i giovani. In realtà il problema parte da molto lontano e la prima cosa che si dovrebbe fare in Italia è una riforma della scuola. Il nostro degrado parte da lì, dalla non adeguata formazione, non si è ancora formata una generazione di uomini in grado di uccidere i padri. Non esiste ancora una generazione che vede fondamentale leggere un libro per un’ora piuttosto che stare, per un’ora, su Facebook.

Hai affrontato diversi classici ma c’è un lavoro contemporaneo (film, libro, opera scenica) che ti ha particolarmente illuminato e perché?

A pensarci bene c’è un lavoro che mi ha illuminato, Peccato fosse una sgualdrina uno spettacolo visto al Mercadante nel 2000 credo, la regia era di Ronconi. Tutto parte da lì, la mia decisione di essere un certo tipo di attore e di fare un certo tipo di percorso. Poi con Luca Ronconi, dopo anni c’ho lavorato. Sono stato molto fortunato.

Sei in scena con un lavoro di George Bernard Shaw, perché è un’opera imperdibile?

Il teatro è imperdibile, non esiste un’opera in particolare che vale più di un’altra, tutte vanno viste, tutte sono fondamentali… poi questa in particolare che sto facendo io va vista perché ci siamo noi, no? Scherzo!

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Si laurea in Storia del Teatro e dello Spettacolo e conduce laboratori teatrali con ragazzi disabili e pazienti psichiatrici. Si specializza in Pedagogia e Didattica del teatro presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Fonda un centro di narrazione teatrale. Nel 2011 si trasferisce a Londra dove frequenta un corso per Drama Teaching e fa la steward per lo Shakespeare Globe Theatre.
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