Intelligenze artificiali | Il Design thinking e il karaoke della creatività11 min read
Reading Time: 8 minutesPensare oltre la soluzione: il Design Thinking alla deriva salvato dalle AI generative (forse)
Nulla è più difficile da cambiare di una soluzione che ha funzionato in passato o ci sembra razionale. Con questa provocazione, Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, ci ricorda nel suo libro Di bene in peggio come spesso le nostre risposte ai problemi non solo perpetuino gli stessi problemi, ma li trasformino in trappole logiche da cui è difficile uscire. Lui le chiamava ipersoluzioni, cioè soluzioni che, pur animate dalle migliori intenzioni, aggravano il problema invece di risolverlo — una strategia così radicale o razionale da diventare controproducente, come nella vecchia battuta
“operazione perfettamente riuscita, paziente deceduto”
l’ipersoluzione presume di conoscere già la risposta giusta — e spesso la impone, senza ascolto, senza empatia, senza feedback. È l’arroganza della certezza che ignora la complessità del reale.
Il Design Thinking, nato proprio per sconfiggere le ipersoluzioni, lavora per comprendere profondamente il problema, prototipare soluzioni e testarle in modo iterativo. Potremmo dire che è il vaccino contro le ipersoluzioni:
dubita, esplora, co-crea, sbaglia meglio.
Prima di diventare un mantra aziendale e un kit da workshop, è stato un modo per pensare facendo. Le sue radici affondano nella tradizione del design industriale e dell’architettura — da Herbert A. Simon a Buckminster Fuller — ma la sua codificazione come metodo risale ai primi anni zero, grazie al lavoro della D.school di Stanford e, soprattutto, alla pratica pionieristica di IDEO, l’agenzia fondata da David Kelley. Fu proprio IDEO a formalizzare e divulgare un processo facile da apprendere, trasformando la creatività progettuale in uno strumento replicabile anche al di fuori del mondo del design: nel business, nell’educazione, nelle politiche pubbliche.
Il cuore del Design Thinking sono cinque fasi iterative e fluide:
- Empathize
- Define
- Ideate
- Prototype
- Test.
Si parte con Empathize, cioè osservare e ascoltare le persone, comprenderne i bisogni reali e latenti. È il contrario dell’assumere o dedurre: si va sul campo, si ascolta, si leggono le conversazioni, si sporca la mente. Da qui si passa a Define, ovvero alla sintesi critica: non il problema in generale, ma quel problema, visto da dentro. Poi arriva Ideate, la fase divergente in cui si generano molteplici soluzioni possibili, senza giudizio. Si sceglie, si unisce, si azzarda. A quel punto si entra in Prototype: si costruiscono versioni semplificate delle idee, tangibili o simulabili. Infine, il Test, cioè si prova con persone reali, si osserva, si ascolta di nuovo. E da lì, se serve, si ricomincia.
Un esempio celebre è il redesign del carrello della spesa da parte di IDEO: Empathize osservando le persone al supermercato (ansie, incidenti, percorsi); Define identificando i problemi veri (sicurezza, maneggevolezza, modularità); Ideate con sessioni selvagge di idee; Prototype creando un carrello modulare in poche ore; Test portandolo fisicamente nei negozi. Un altro esempio, ipotetico ma attuale: ripensare l’esperienza di onboarding per chi inizia a usare un’app di terapia digitale. Si parte da Empathize con interviste e shadowing di nuovi utenti, si definisce il problema (l’ansia da prestazione nella prima settimana), si crea un percorso narrativo empatico, si prototipa un flusso guidato con avatar terapeutici, e si testa con persone reali in A/B testing.
Nessuna fase è definitiva: tutto è pensato per essere trasformato in corso d’opera.
Negli anni il Design Thinking ha conosciuto una diffusione trasversale, sospinto da una promessa tanto attraente quanto ambigua: rendere l’innovazione accessibile a tutti. Ma nel passaggio da formato aperto a metodo strutturato qualcosa si è inevitabilmente perso o irrigidito. Da Stanford a Milano, da IDEO a società di consulenza più ingegneristiche, il rischio è stato quello di cristallizzare una pratica viva in un processo universale. E, come ogni metodo, anche il Design Thinking ha cominciato a generare le sue routine.
🟨 Post-it e brainstorming
Introdotto in molte aziende come panacea dell’innovazione, si è spesso trasformato in un rito visivo più che in una pratica trasformativa. Nelle sale riunioni di multinazionali e startup, nei workshop patinati dei consulenti, la metafora progettuale si è annacquata in un’estetica riconoscibile: pareti coperte di post-it colorati, marker indelebili, mappe dell’empatia, lavagne affollate di flussi e sessioni di brainstorming incalzanti ma spesso sterili e compiaciute.
Dietro questa coreografia si nasconde un rischio: la feticizzazione del processo, dove la forma prevale sulla sostanza. Il brainstorming diventa un fine in sé, il post-it una foglia di fico dell’incertezza. Si compila, si raccoglie, si ordina, ma raramente si smonta davvero il problema di partenza. Ci si illude che la divergenza basti, ma senza uno scarto reale, le idee tornano sempre a orbitare attorno a ciò che già si conosce o si presume di sapere.
E in mezzo a tutto questo, il mantra salvifico:
“trust the process”.
Ripetuto come un om in sala workshop, appuntato nelle slide e inciso sulle agende. Peccato che, nella sua versione aziendale, abbiamo finito per prenderlo alla lettera: fidarsi ciecamente del processo, anche quando è in loop, quando gira a vuoto, quando diventa un generatore automatico di idee mediocri da incollare su una parete. Un processo che doveva essere creativo si è trasformato in una routine.
Il design è diventato karaoke.
Paul Watzlawick avrebbe forse sorriso amaramente davanti a questi workshop autocompiaciuti. Perché anche qui si insinua il suo monito: una “buona” soluzione può essere solo un modo elegante per perpetuare il problema, se non si ha il coraggio di cambiare radicalmente la cornice in cui lo si inquadra. E nessun post-it, per quanto giallo e agile, può fare da solo questo salto.
Ma cosa succede quando a questo metodo si aggiunge un nuovo creator, l’intelligenza artificiale generativa?
E poi arrivano le AI
In un mondo dove l’incertezza è la nuova costante, il Design Thinking ha fatto dell’empatia e della flessibilità il suo mantra, offrendo un approccio metodico ma aperto all’innovazione. Può l’AI generativa aiutarci a evitare soluzioni auto-sabotanti e favorire veri salti di paradigma progettuale?
In questo contesto, l’adozione delle AI generative può rappresentare una doppia opportunità: da un lato, disilludere il designer dai gesti automatici, restituendogli lo stupore del confronto con l’alterità; dall’altro, raffinare la qualità delle iterazioni, generando soluzioni che emergono non per consenso superficiale ma per collisione feconda tra modelli mentali umani e computazionali. Ma per farlo serve, prima di tutto, una critica onesta dell’automatismo creativo che anche il Design Thinking, paradossalmente, ha cominciato a produrre.
Oggi, strumenti come ChatGPT, DeepSeek e MidJourney non solo accelerano i processi creativi, ma introducono una prospettiva diversa nella risoluzione dei problemi. Se il Design Thinking invita a guardare le cose con occhi nuovi, l’AI generativa permette addirittura di creare nuovi occhi, generando possibilità che sfuggono ai limiti della nostra immaginazione, perché pensati da un organismo diverso, non vivente, privo di emozioni, ma che può essere istruito a una vera mente del principiante. La combinazione tra Design Thinking e AI generative può aiutarci a evitare le “soluzioni disastrose” di cui parlava Watzlawick e ad aprire scenari inediti per l’innovazione e la creatività.
🤖 L’AI come agente co-creativo (e disturbatore benefico del design)
Se il post-it è diventato l’icona della creatività che si ripete, l’AI generativa è l’ospite imprevisto che irrompe nell’atelier del pensiero progettuale. Non bussa, non chiede permesso: genera. Fa proliferare alternative, scarta il plausibile, crea frizioni. E proprio per questo – quando usata con consapevolezza, scappando dalle trappole del prompt engineering – può diventare un partner co-creativo potente e a volte persino scomodo.
La sua forza non sta solo nella rapidità o nella quantità, ma nella differenza strutturale del suo sguardo. Dove l’umano tende a riconoscere pattern familiari, l’AI è capace (quando ben nutrita) di esplorare il bordo dell’incoerenza.
Questo non perché “pensa meglio”, ma perché non pensa come noi.
E in questa differenza, se ci apriamo davvero alla collaborazione, può scattare qualcosa di simile a un glitch produttivo: un errore che rivela una via alternativa.
Tre sono i modi in cui le AI generative potenziano — e in certi casi ribaltano — le fasi del Design Thinking:
- Divergenza amplificata
Nel momento di ideazione, le AI non si limitano a proporre “molte” idee, ma possono forzare la nostra attenzione su idee marginali, eccentriche, controintuitive. Ad esempio, chiedere a un modello di generare 50 usi paradossali di un oggetto può portare a intuizioni radicali. In questa fase, la quantità diventa qualità, come avrebbe detto Linus Pauling. - Ridefinizione dei problemi
L’AI non solo risponde ai prompt, ma ci costringe a scriverli. Il che significa che il designer deve esplicitare, smontare, riformulare continuamente il proprio pensiero. Questo prompting riflessivo è una nuova arte: ogni domanda posta all’AI rivela le nostre ipotesi implicite. E quando un output dell’AI ci sorprende o ci infastidisce, è il segno che la cornice del problema si sta fratturando. E forse si sta aprendo. - Prototipazione visiva e narrativa
I prototipi non sono più solo oggetti: sono immagini, storie, esperienze vissute o immaginate, modelli che si raccontano. Un’AI può generare scenari, dialoghi, micro-video, interfacce a bassa fedeltà, utili per testare idee anche con persone reali prima ancora di costruire qualcosa. Una slide può diventare un universo narrativo in cui provare a vivere. E il prototipo, da modello statico, diventa simulazione generativa, dialogante.
In questo nuovo panorama, il Design Thinking non viene abbandonato ma trasformato in un ambiente ibrido, dove la creatività è aumentata, e l’umano è chiamato non a dirigere, ma a dialogare. Non più “fidarsi del processo”, ma mettere in crisi il processo insieme a un partner non umano.
🧯 Attenti alla peperonata (ovvero: l’incubo del Mediocristan)
C’è anche un rischio più profondo da esplicitare. Se il problema-processo-soluzione viene trattato come un sistema chiuso, nessuno strumento — né un nuovo metodo, né i post-it, né l’intelligenza artificiale più evoluta — potrà davvero produrre cambiamento. Ogni nuova soluzione generata resterà intrappolata nella stessa logica che ha generato il problema. Un algoritmo ben istruito non è diverso, in questo senso, da un cervello umano ingabbiato: entrambi reiterano, raffinano, ottimizzano, ma dentro la stessa gabbia. È il principio delle “ipersoluzioni” di Watzlawick elevato a potenza computazionale.
Questo è l’incubo di Mediocristan, per dirla con Nassim Taleb: un mondo iper-razionale, ottimizzato, prevedibile, dove ogni deviazione viene riassorbita e ogni differenza smussata. E allora anche l’AI generativa, se trattata come strumento deterministico, finisce per produrre una creatività che si ripropone — come una peperonata epistemologica mal digerita. L’illusione è di essere divergenti, ma si è solo in una palude che sussurra sempre lo stesso errore.
Essere fertili non basta. Anche nel fango bisogna imparare a spezzare il loop di causa-effetto che ci condanna a migliorare senza trasformare. Le AI possono aiutarci, ma solo se smettiamo di usarle per confermare ciò che già crediamo. Solo se accettiamo che la vera innovazione comincia quando il sistema si crepa, e il progettista — umano o non umano — inciampa nel vuoto.
🔁 Iterazione 2.0: verso un Design Thinking simbiotico
Nel Design Thinking tradizionale, l’iterazione è ciò che salva il processo dal diventare lineare. Si sperimenta, si sbaglia, si corregge. Si torna al punto uno, ma con un punto due nelle ossa. Tuttavia, anche questa ciclicità — se gestita con automatismo — può diventare prevedibile: una comfort zone del “provare e riprovare” che finisce col rafforzare i limiti del pensiero di partenza.
L’introduzione dell’AI generativa cambia le regole del gioco. L’iterazione non è più soltanto un giro di giostra, ma si trasforma in una spirale evolutiva, una co-evoluzione tra mente umana e macchina. Parliamo di un Design Thinking simbiotico, dove l’AI non è solo uno strumento, ma un organismo conversazionale che apprende e propone, suggerendo mutazioni progettuali al di fuori delle intenzioni originarie.
🧬 Da iterazione a speciazione
Con l’AI, le versioni di un’idea non sono più semplici miglioramenti progressivi: diventano varianti genetiche, ognuna con la sua logica interna, la sua ecosistema di problemi e soluzioni. L’iterazione smette di essere il perfezionamento di un’idea singola e diventa la coesistenza di molte idee plausibili, tra cui il progettista può navigare come in una foresta di possibilità. È un salto da Darwin a Deleuze: non adattamento, ma moltiplicazione.
🧠 Retroazioni creative e memoria distribuita
Una delle forze dell’AI è la capacità di ricordare ciò che l’umano tende a dimenticare. Ogni iterazione può essere tracciata, analizzata, ibridata con le precedenti. Ne nasce un archivio vivo — una sorta di memoria progettuale distribuita — in cui ogni errore diventa materiale fertile, ogni scarto una futura gemmazione. Le iterazioni smettono di essere rimosse: diventano genealogie creative da consultare, remixare, capovolgere.
🤝 Rinegoziare i criteri del “buono”
Con l’AI, anche il concetto di “buon design” si complica. Non è più il solo giudizio umano a stabilire il valore di un’iterazione. L’AI può introdurre criteri non umani, o almeno non immediatamente evidenti: coerenze matematiche, analogie visive, meta-pattern linguistici. L’umano è chiamato a negoziare con la macchina i criteri stessi di validazione, in un dialogo continuo e a volte dissonante. Ma è proprio in quella dissonanza che può nascere l’innovazione autentica.
L’iterazione 2.0 non è quindi più solo un ciclo migliorativo, ma un processo rizomatico, una trama di possibilità in cui l’umano si muove come giardiniere e mutante. Il motto non è più fail fast, fail often, ma piuttosto: “fallisci insieme. E fallisci felice.”




