L’idrogeno è la soluzione all’emergenza climatica?19 min read

22 Dicembre 2021 Clima -

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Antropologa

L’idrogeno è la soluzione all’emergenza climatica?19 min read

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Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha stanziato 3,2 miliardi di euro per la ricerca, la sperimentazione e la produzione di idrogeno, che dovrebbe aiutare l’Italia nel suo percorso di decarbonizzazione. Molti paesi membri tra cui Francia, Germania e Spagna, hanno già elaborato dei piani ambiziosi dedicati a questo vettore energetico, in linea con la Strategia europea per l’idrogeno (pdf), pubblicata a luglio 2020.

Nelle analisi più ottimistiche, l’idrogeno potrebbe essere presto in grado di alimentare camion, aerei e navi. Potrebbe bilanciare la rete elettrica e decarbonizzare l’industria pesante. Ma per fare tutto questo servirebbe un’enorme crescita della sua produzione, che è pulita solo se lo sono le fonti usate per alimentarla.

Attualmente, quasi la totalità dell’idrogeno a livello mondiale proviene da fonti fossili: solo se convertiamo questa produzione in idrogeno verde – e quindi da elettricità rinnovabile – questo vettore energetico potrà avere un ruolo positivo nella decarbonizzazione. Altrimenti, rischia di diventare uno “strumento del ritardo”, usato dalle aziende inquinanti per posticipare l’abbandono delle fonti fossili.

Inoltre, gli esperti concordano nell’assegnare all’idrogeno un ruolo di nicchia, utile a decarbonizzare i settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”), lasciando all’elettrificazione diretta il ruolo preponderante nella transizione, e usando il vettore energetico solo laddove essa non è ancora possibile. Insomma, sembra difficile che l’idrogeno possa svolgere un ruolo così decisivo nella corsa a salvare il pianeta dall’emergenza climatica, anche se certo può fare la sua parte.

Ma cos’è l’idrogeno? Come si produce? In quali settori si usa? Che prospettive ha? È davvero così decisivo per la decarbonizzazione? Ci siamo fatti queste domande e abbiamo cercato delle risposte coinvolgendo esperti/e del settore.

Che cos’è l’idrogeno

L’idrogeno è l’elemento più leggero e abbondante nell’universo. È presente, legato ad altre molecole, nell’acqua, in tutti gli organismi viventi, nei composti organici e in alcune rocce.

Ma, come spiega a Le Nius Nicola Armaroli, chimico e direttore di ricerca al CNR, “da solo, cioè allo stato molecolare (H2) l’idrogeno è praticamente inesistente sulla Terra perché si trova sempre legato ad altri elementi, come nell’acqua. Per qualsiasi utilizzo deve quindi essere prodotto, estraendolo da molecole in cui è presente. Per questo motivo non si tratta di una fonte di energia direttamente utilizzabile, come lo sono il petrolio, l’energia solare o il carbone, ma di un vettore energetico”.

Può essere ottenuto a partire dall’acqua (H2O), separandolo dall’ossigeno, oppure a partire da alcuni idrocarburi, come il metano (CH4), separandolo dal carbonio. Essendo un vettore energetico e non una fonte primaria, la produzione di idrogeno richiederà sempre un input di energia maggiore rispetto a quella che si otterrà utilizzando l’idrogeno prodotto: questo lo rende meno competitivo e efficiente rispetto alle fonti di energia che troviamo già pronte in natura, come il metano.

Ma allora perché produrlo? Perché si tratta di un gas con caratteristiche particolari, quando viene bruciato emette acqua, senza emissioni di CO₂: se prodotto da fonti rinnovabili, l’utilizzo di idrogeno è a emissioni zero. Inoltre, la sua combustione è in grado di raggiungere rapidamente temperature molto alte, rendendolo adatto ai settori industriali in cui l’elettrificazione è ancora lontana (ad esempio, la produzione di vetro o acciaio).

Per descrivere il ruolo dell’idrogeno nella transizione energetica Giulio Mattioli, esperto in decarbonizzazione dei trasporti e ricercatore dell’Università di Dortmund, usa una metafora.

L’idrogeno è come lo champagne e andrebbe trattato come tale: un prodotto energivoro, adatto e utile solo a settori di nicchia.

idrogeno e decarbonizzazione
Foto: Canadian Nuclear Laboratories

Come si produce: i diversi colori dell’idrogeno

Attualmente oltre il 95% dell’idrogeno a livello mondiale (90 milioni di tonnellate all’anno) – e il 95% in UE – è prodotto a partire dai combustibili fossili ed è responsabile dell’emissione di 900 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno, che equivalgono a circa tre volte quelle dell’Italia (Global Hydrogen Review 2021).

L’unica produzione di idrogeno che sia in grado di garantire zero emissioni ad oggi è quella verde. In questo caso, esso è ottenuto a partire dall’acqua, separando le sue molecole dall’ossigeno grazie al processo di elettrolisi, alimentato da elettricità rinnovabile. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) stima ad oggi una produzione di idrogeno verde a livello globale dello 0,03% sul totale di quello prodotto e un prezzo che va dai 3 ai 6 euro al kg, a seconda della disponibilità di energia rinnovabile del luogo specifico.

La grande maggioranza dell’idrogeno prodotto al mondo è grigio, ovvero proveniente dal processo di reforming del metano, con le conseguenti emissioni di CO₂. È anche solitamente il più economico, con un prezzo che oscilla da 0,5 a 1,7 dollari al kg.

Quello marrone (o nero), ancora più inquinante perché derivante dal carbone, rappresenta il 19% sul totale ed è usato soprattutto in Cina e in India, perché essendo paesi importatori di gas naturale risulta per loro più economico di quello grigio. La produzione di idrogeno consuma il 6% del gas fossile e il 2% del carbone usati a livello globale.

C’è poi l’idrogeno blu, che non è altro che idrogeno grigio ottenuto catturando e immagazzinando le emissioni di CO₂ prodotte, attraverso le tecnologie di cattura e sequestro del carbonio (CCS). Sono argomento di forte dibattito sia la reale sostenibilità della produzione di idrogeno blu, sia la fattibilità e i rischi dello stoccaggio di CO₂ nel sottosuolo su larga scala.

Infine, c’è l’idrogeno rosa (a volte chiamato giallo o viola) che si ricava a partire dall’acqua, attraverso il processo di elettrolisi alimentato da energia nucleare, la cui produzione attuale è ad oggi confinata a progetti di ricerca. Come precisa Francesco Pavan, ricercatore dell’IEA, “vi sono alcune sperimentazioni in Nord America in cui, a livello per ora dimostrativo, si esplora l’uso dell’energia nucleare per la produzione di idrogeno, integrando elettrolizzatori a centrali esistenti”.

Idrogeno e decarbonizzazione: come e dove si usa

Come spiega Giulia Monteleone, ricercatrice e ingegnere dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) “una volta prodotto, l’idrogeno ha due principali impieghi: può essere ‘bruciato’ come combustibile nei tradizionali motori termici, oppure combinato con l’ossigeno dell’aria in una cella a combustibile, dando luogo ad una reazione elettrochimica che produce elettricità e calore. In entrambi i casi l’unica emissione è costituita da acqua”.

Ecco perché, se prodotto con rinnovabili, l’idrogeno è a emissioni nulle di CO₂. L’idrogeno può anche essere trasformato in ammoniaca o in metanolo, sostanze che hanno diversi impieghi industriali e chimici, e un potenziale ruolo come carburanti nel settore dei trasporti. Inoltre, può essere immagazzinato e trasportato, cosa che permette un suo utilizzo a distanza geografica e temporale.

Tuttavia, precisa Pavan (IEA) “l’idrogeno non può essere la soluzione principale della questione energetica. Il suo è piuttosto un ruolo d’integrazione: va usato dove l’elettrificazione diretta non è possibile. Infatti, nel nostro scenario di decarbonizzazione al 2050 (Net Zero by 2050), esso fornisce il 10% della domanda finale di energia, mentre il 50% è fornito dall’uso diretto di elettricità, principalmente proveniente da fonti rinnovabili”.

Su una cosa – affermata anche nella Strategia per l’Idrogeno dell’UE – concordano tutti gli esperti: la priorità è quella dell’elettrificazione diretta, che è più efficiente e meno energivora. L’idrogeno dovrebbe servire solo laddove essa non è possibile. Diventa quindi cruciale stabilire dove il vettore energetico è indispensabile.

L’idrogeno nell’industria

L’industria, responsabile di oltre un quarto delle emissioni di CO₂ nel mondo, è l’unico settore sul quale c’è consenso quasi unanime: qui l’idrogeno potrebbe avere un ruolo cruciale per la decarbonizzazione.

Diverse le sue applicazioni nell’ambito: può fungere da materia prima chimica, da combustibile o da reagente per rimuovere impurità. La gran parte della produzione mondiale di idrogeno attualmente è impiegata nella raffinazione del petrolio, dove viene usato per rimuovere le impurità e i solfuri, e nella produzione di ammoniaca – usata come fertilizzante.

“Nel settore industriale in cui l’idrogeno è già impiegato, in particolare nella produzione di ammoniaca e nel settore della raffinazione, la sfida è quella di convertire la produzione in idrogeno verde”, sostiene Monteleone (ENEA), “poi c’è un’altra area industriale in cui invece non viene ancora utilizzato su larga scala ma potrebbe contribuire enormemente alla decarbonizzazione”.

Si tratta della produzione di acciaio, cemento e ceramiche, settori hard-to-abate, difficilmente elettrificabili, in cui l’idrogeno potrebbe sostituire il coke (un tipo di carbone) come combustibile, grazie alla sua capacità di raggiungere alte temperature in tempi rapidi, con la sola emissione di acqua. La produzione di acciaio e ferro causa il 7,2% delle emissioni globali, e qui, sostiene anche Pavan (IEA), “l’idrogeno costituisce la principale soluzione per la decarbonizzazione”.

Circa il 6% dell’idrogeno prodotto a livello globale è impiegato per la produzione di ferro ridotto diretto (DRI), una delle tecniche più promettenti per la decarbonizzazione del settore. “La tecnologia non è ancora commerciale su larga scala, ma i progetti Hybrit in Svezia e Salcos in Germania sono incoraggianti”, continua Pavan.

Un intervento pubblico potrebbe aiutare la transizione all’idrogeno, frenata dai prezzi ancora troppo alti rispetto al coke: “ad esempio, in India si sta discutendo di introdurre quote obbligatorie di idrogeno verde – oggi non ancora competitivo – nel settore chimico e della raffinazione per stimolare il mercato”, spiega Pavan.

L’idrogeno nei trasporti

“Quando si parla di trasporto leggero, in particolare delle auto, l’elettrico ha già vinto”, sostiene Mattioli (Università di Dortmund). I motivi sono principalmente due, come spiega Armaroli (CNR): “innanzitutto, l’auto elettrica è almeno quattro volte più efficiente di quella a idrogeno e poi utilizza un’infrastruttura che è la più diffusa al mondo: quella elettrica. Mentre per le auto a idrogeno l’infrastruttura di distribuzione sarebbe tutta da costruire”.

Secondo l’IEA, la minore efficienza dei veicoli a idrogeno è dovuta alle perdite energetiche che si accumulano nei vari step: dopo la produzione di idrogeno attraverso elettrolisi (se verde), il suo trasporto e la riconversione in elettricità tramite la cella a combustibile, l’energia effettivamente utilizzabile alla fine del processo può essere meno del 30% di quella usata come input iniziale, in confronto a un’efficienza circa dell’80% delle auto elettriche.

auto a idrogeno
Rifornimento di un veicolo a idrogeno in California. Foto: DENNIS SCHROEDER on climatevisuals

C’è invece più discussione sul ruolo che potrebbe avere l’idrogeno nel trasporto pesante su strada, che presenta ancora difficoltà nell’elettrificazione. Le celle a combustibile usate per i veicoli a idrogeno possono garantire una potenza maggiore rispetto alle batterie, e sembrano quindi adatte a carichi pesanti.

Inoltre, sostiene Monteleone (ENEA), “le celle a combustibile a parità di ingombro rispetto alle tradizionali batterie a ioni di litio, consentono un’autonomia circa tre volte maggiore e potrebbero quindi aiutare la decarbonizzazione dei trasporti pesanti (trasporto merci e trasporto pubblico): attualmente il problema principale è l’infrastruttura ancora inesistente, potenzialmente risolvibile centralizzando la produzione di idrogeno, ad esempio producendolo direttamente nei depositi dei mezzi pubblici”.

Pavan (IEA) è dello stesso parere: “i veicoli a idrogeno hanno una serie di vantaggi: necessitano minor tempo per il rifornimento, possono avere range di percorrenza più elevati, con un minor peso del sistema di storage energetico sul veicolo, visto che le batterie sono più pesanti delle celle a combustibile a parità di energia”.

Armaroli (CNR) è invece più dubbioso al riguardo: “i motivi per i quali si dice che l’elettrificazione dei camion è difficile sono la grande potenza elettrica di cui dovremmo disporre nelle stazioni di ricarica e l’aumento di produzione di litio per le batterie. Ma i camion a celle a combustibile avrebbero ugualmente bisogno di enormi quantità di elettricità per produrre l’idrogeno necessario ad alimentarle e anch’essi devono avere una batteria al litio al loro interno, seppure più piccola rispetto a quella di un camion a batterie: non è affatto scontato che prevarranno su quelli elettrici”. Il chimico fa poi notare che in Italia il 70% dei camion è sotto i 35 quintali, una dimensione facilmente elettrificabile.

Un discorso a parte è invece quello che riguarda navi e aerei. Il trasporto navale è responsabile del 3% delle emissioni globali e quello aereo del 2,5%. Le emissioni di questi settori sono cresciute negli ultimi vent’anni più di qualsiasi altro, rispettivamente del 32% e del 130%. “Si tratta di settori hard-to-abate, la cui intensità energetica richiesta non può essere fornita da batterie. Qui, sia l’idrogeno, ma specialmente l’ammoniaca e il metanolo – per le navi – e il cherosene sintetico – per gli aerei – sono le soluzioni attualmente esplorate”, spiega Pavan (IEA).

Questi combustibili sintetici possono essere prodotti unendo l’idrogeno ad altre molecole, e, nel caso del metanolo e del cherosene sintetico, utilizzando la CO₂ catturata da fonti biogeniche (come impianti a biocarburanti) o direttamente dall’aria (Direct Air Capture, DAC), e quindi senza emetterne di nuova nell’atmosfera. Hanno il vantaggio di poter essere immagazzinati in forma liquida occupando meno spazio dell’idrogeno e a modeste pressioni e temperature.

Secondo un recente rapporto di IRENA, nel 2050 il settore navale richiederà 46 milioni di tonnellate di idrogeno verde, di cui la maggior parte (il 73%) servirà per produrre ammoniaca, che potrebbe coprire quasi la metà dei consumi energetici navali: ne servirebbero però 183 milioni di tonnellate, equivalenti alla produzione odierna mondiale di ammoniaca per tutti gli utilizzi.

Armaroli (CNR) solleva alcune problematiche: “l’ammoniaca liquida va mantenuta a -40/50ºC, per cui l’energia richiesta per questo carburante sarebbe enorme, considerata sia la produzione di idrogeno necessaria, che il mantenimento della temperatura durante i viaggi. Senza contare che si tratta di una molecola corrosiva, che richiederebbe importanti regolamentazioni di sicurezza”. Secondo Pavan (IEA), anche se in questo caso non viene prodotta CO₂, “le emissioni di ossidi di azoto associate alla combustione di ammoniaca richiedono particolare attenzione”.

La decarbonizzazione del settore aereo è ancora più complessa. Come spiega Mattioli (Università di Dortmund), “attualmente si discute soprattutto sui carburanti sintetici, come il cherosene sintetico, alternativa che permetterebbe di non dover cambiare l’intera struttura degli aerei, problema che invece andrebbe necessariamente affrontato con l’elettrificazione. Ma gli attuali scenari di decarbonizzazione del settore che si basano su questi carburanti mostrano che ciò richiederebbe enormi quantità di energia e per servire a qualcosa si dovrebbe parallelamente imporre una pesante tassa sulla CO₂, bloccando ora l’espansione degli aeroporti”.

Come il metanolo, il cherosene sintetico è ottenibile unendo idrogeno a carbonio, e le sue emissioni di CO₂ corrisponderebbero alla quantità di carbonio precedentemente tolta dall’atmosfera per produrlo, rendendolo carbon neutral. Ma, a causa degli alti costi e dell’attività di lobby delle compagnie aeree, siamo ancora lontani dall’introduzione di una quota minima di combustibili sostenibili per l’aviazione. Secondo Armaroli (CNR), “il settore aereo sarà l’ultimo a essere decarbonizzato”.

Nonostante quello delle ferrovie sia il settore di trasporti maggiormente elettrificato, esistono treni alimentati a diesel in alcune tratte dove risulta ancora oggi difficile far arrivare l’elettricità, spesso per via delle montagne. “In Italia il 28% delle ferrovie va a diesel e in alcuni casi potrebbe essere sensato convertirle a idrogeno: non a caso le linee guida preliminari della Strategia Nazionale Idrogeno hanno tra gli obiettivi la conversione a idrogeno del 50% delle tratte non ancora elettrificate entro il 2030”, spiega Pavan (IEA).

Secondo Armaroli (CNR), “convertire a idrogeno i treni ha senso – come per ogni altro mezzo di trasporto – se la produzione del vettore energetico avviene in prossimità del luogo di utilizzo, come potrebbe essere il caso del progetto della tratta Edolo-Brescia in Valcamonica, che sfrutterebbe l’energia idroelettrica della zona. Altrimenti i costi economici e energetici del trasporto potrebbero vanificare i benefici associati”.

Idrogeno ed elettricità

Il vettore idrogeno potrebbe giocare un ruolo importante nella rete elettrica, integrando il sistema basato sulle rinnovabili. Quando la produzione di eolico e fotovoltaico è in eccesso, l’elettricità in surplus potrebbe essere usata per produrre idrogeno attraverso gli elettrolizzatori, evitando quindi di sprecarla. L’idrogeno prodotto potrebbe essere immagazzinato per il fabbisogno futuro, entrando in gioco in momenti in cui l’energia rinnovabile non è sufficiente. L’immagazzinamento di idrogeno presenta il vantaggio di poterlo trasportare altrove o di usarlo in futuro, o anche di utilizzarlo per altri usi, trasformandolo ad esempio in ammoniaca o metanolo.

“L’efficienza energetica delle conversioni totali sarebbe molto bassa, intorno al 40%, in confronto all’85% delle batterie. Ma in un sistema in cui le fonti rinnovabili saranno sempre più dominanti, questa può essere una soluzione interessante per lo stoccaggio di energia a lungo termine”, afferma Pavan.

Per Gianluca Ruggieri, ricercatore all’Università dell’Insubria, l’immagazzinamento di idrogeno da rinnovabili sarà un’opzione valida solo quando avremo una produzione alta di eolico e fotovoltaico: “in questo caso il vettore potrebbe permettere di non buttare via i surplus di energia nelle ore di sovrapproduzione. Ma esistono diversi sistemi di accumulo e usare l’idrogeno è conveniente solo per l’immagazzinamento sul lungo periodo, da una stagione all’altra. Se invece si tratta di conservare l’elettricità nell’arco della giornata la batteria è sicuramente molto più efficiente e economica”.

Idrogeno e decarbonizzazione: il riscaldamento

In Italia il riscaldamento degli edifici residenziali, commerciali e pubblici pesa sulle emissioni di CO₂ per oltre il 17,7%, ed è prodotto per il 70% da gas naturale. Tra le vie percorribili per la decarbonizzazione del riscaldamento, secondo Pavan, “l’elettrificazione diretta è la più consona e conveniente: richiede 5-6 volte meno energia rispetto all’idrogeno. Infatti, negli scenari IEA, l’idrogeno per gli edifici ha una percentuale molto bassa: le pompe di calore elettriche sono dominanti, insieme a efficienza energetica e isolamento degli edifici”.

Nonostante questo, quello del riscaldamento è uno dei settori dove è più acceso il dibattito sull’alternativa tra elettrificazione e idrogeno. I promotori del vettore per il riscaldamento sostengono che gli attuali gasdotti potrebbero essere utilizzati per far scorrere una miscela di metano e idrogeno, contribuendo a ridurre le emissioni utilizzando la stessa infrastruttura.

Trasportare idrogeno puro al 100% nei metanodotti non è possibile, per via delle caratteristiche di questo gas, che richiederebbe un’infrastruttura nuova e norme di sicurezza specifiche. Snam, gestore italiano del trasporto di gas naturale, dichiara che la sua rete “è già pronta a trasportare una miscela di gas e idrogeno”. Ma in che percentuali?

Secondo l’IEA, l’attuale infrastruttura globale dei gasdotti permetterebbe di far scorrere una miscela in cui l’idrogeno è in percentuali variabili tra il 2 e il 10%, con un limite del 2% in Italia. Inoltre, come spiega Pavan, “è stato stimato che con una miscela con idrogeno al 20%, quindi già in percentuali molto più alte di quanto si potrebbe fare ora, la riduzione delle emissioni di CO₂ ottenuta sarebbe circa del 7%”. Del tutto insufficiente rispetto ai target climatici da perseguire.

Secondo Armaroli, “è assurdo pensare di utilizzare una miscela del genere, anche perché il mix ha un contenuto energetico nettamente minore rispetto al metano puro”. Ruggieri (Università dell’Insubria) va dritto al punto:

L’unico motivo per cui si sta spingendo all’uso di idrogeno per riscaldamento è il mantenimento della rete del gas e la possibilità che darebbe alle aziende fossili di continuare a bruciare metano.

Della stessa idea è Armaroli, “proporre l’utilizzo di idrogeno nei gasdotti è un modo per rinviare l’abbandono del gas e per continuare a usare l’infrastruttura”. L’unico potenziale limite con cui si scontrerebbe l’elettrificazione del riscaldamento è il sovraccarico della rete elettrica, che avrebbe bisogno di una potenza installata molto maggiore: “un altro motivo per il quale è bene investire nella rete elettrica rinnovabile”, afferma Ruggieri.

idrogeno blu
Foto: Adam Gautsch

L’idrogeno blu

Come anticipato, la produzione di idrogeno blu è un’altra questione al centro di un dibattito con posizioni molto diverse.

Per l’IEA, l’idrogeno blu ha un ruolo importante nello scenario Net zero emissions by 2050, coprendo il 40% della produzione totale del vettore (il restante 60% sarebbe di idrogeno verde). Come afferma Francesco Pavan, ricercatore dell’IEA, “un fattore non trascurabile nella produzione di idrogeno pulito è la capacità delle fonti rinnovabili. L’elettrificazione è la via da preferire e non bisogna sottrarre capacità delle rinnovabili per la produzione di idrogeno verde: per questo l’idrogeno blu potrebbe aiutare a raggiungere il livello di produzione necessaria”.

Tuttavia, come sostiene Nicola Armaroli, e come messo in luce anche da alcune ricerche, “l’unico modo oggi economicamente sostenibile per lo stoccaggio della CO₂ è il recupero secondario di petrolio: per il resto la tecnologia CCS (carbon capture and storage, con cui si ottiene l’idrogeno blu a partire dal metano con la cattura e lo stoccaggio nel sottosuolo della CO₂, ndr) è ancora costosissima e finora si è rivelata largamente fallimentare, spesso anche dal punto di vista tecnico”. Forse è anche per questo che la candidatura di Eni per ricevere finanziamenti per il progetto di CCS a Ravenna dal Fondo europeo per l’Innovazione è stata di recente scartata dalla Commissione.

Ruggieri concorda con Armaroli e aggiunge che “se anche fosse possibile avviare una produzione di idrogeno blu, il problema sarebbe rappresentato dalla dispersione di metano che avviene durante il processo di produzione, e che oggi non siamo neanche in grado di quantificare con precisione”. Pavan menziona una stima dell’IEA, secondo la quale ogni kg di idrogeno blu prodotto sarebbe accompagnato da 2-5 kg CO2eq legate esclusivamente alle perdite di metano durante la catena di approvvigionamento.

Inoltre, secondo una recente ricerca scientifica, anche assumendo che la CO₂ possa essere stoccata nel sottosuolo a tempo indeterminato – cosa su cui non c’è alcuna certezza – la produzione di idrogeno blu potrebbe essere ancora più inquinante della semplice combustione di gas naturale. Ciò sarebbe dovuto alle varie perdite di metano nel corso dell’approvvigionamento, che sono più alte per l’idrogeno blu in quanto il gas fossile è usato sia come materia prima per la produzione del vettore che fornire l’energia necessaria per iniettare la CO₂ nel sottosuolo.

Insomma, sul futuro dell’idrogeno blu – la cui produzione è oggi in fase sperimentale con percentuali vicine allo zero sul totale – incombono numerose incertezze.

Idrogeno e decarbonizzazione: strategie e prospettive

Da quando ha pubblicato la sua strategia per l’idrogeno, l’Unione Europea è leader nei piani futuri del settore, con un target di 40 Gigawatt di capacità di elettrolizzatori al 2030. Considerando che ad oggi la capacità elettrolitica a livello mondiale è di 0,3 Gigawatt, si tratta di una sfida molto ambiziosa.

Anche Arabia Saudita, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda hanno piani importanti, mentre gli Stati Uniti su questo fronte non hanno una strategia paragonabile. Ma il vero competitor dell’Unione Europea è la Cina, che lavora sull’idrogeno da vent’anni, attualmente è il maggiore produttore mondiale (soprattutto di idrogeno marrone) e entro il 2030 vorrebbe avere mille stazioni di rifornimento e un milione di auto a idrogeno.

I paesi dell’Unione Europea stanno spendendo per l’idrogeno in media il 7% delle risorse dedicate alla transizione dei PNRR. L’Italia gli ha destinato 3,2 miliardi di euro e vorrebbe raggiungere al 2030 circa 5 Gigawatt di capacità elettrolitica, in linea con i piani di Francia e Germania.

Armaroli ritiene che “3,2 miliardi siano un’ottima base per poter condurre le necessarie ricerche sull’idrogeno, l’importante è che non diventino un regalo per le grandi aziende del fossile. Non si può pensare di avviare una produzione su larga scala prima di avere grandi surplus di elettricità rinnovabile, altrimenti non si tratterebbe di idrogeno verde. La priorità assoluta per combattere la crisi climatica è aumentare la quota di rinnovabili e l’elettrificazione”.

Come ha scritto di recente il chimico del CNR in un articolo su Nature, “è arrivato il momento – non solo per l’Italia ma per tutta l’Unione Europea – di prendere decisioni politiche sulle priorità per il prossimo decennio, e si deve fare una scelta chiara tra puntare principalmente sull’elettrificazione diretta o sulla produzione di idrogeno“.

Sul fatto che l’idrogeno possa avere un ruolo fondamentale per la decarbonizzazione nei settori hard-to-abate tutti gli esperti sono d’accordo. Ma, “bisogna mettere in chiaro fin da subito a che cosa veramente ci serve: se lo vogliamo usare per decarbonizzare, potrà avere un ruolo rilevante in settori di nicchia, e solo quando la capacità delle rinnovabili crescerà a sufficienza”, afferma Ruggieri, e conclude: “se invece serve per salvare le industrie del fossile, la loro produzione e i loro asset, deve essere chiaro che questa strada è destinata a portarci contro un muro”.

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Antropologa, si interroga su come la società occidentale possa cambiare il rapporto annichilente che intrattiene con la Terra e gli altri animali. Scrive di questi temi ed è convinta che le scienze sociali dovrebbero dare di più alla divulgazione. marianna@lenius.it
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