Haiti dopo il ciclone Matthew: una testimonianza7 min read

19 Ottobre 2016 Mondo Politica -

Haiti dopo il ciclone Matthew: una testimonianza7 min read

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Haiti dopo il ciclone Matthew: una testimonianza
@La Times

(a cura di Francesco Ingarsia, capo delegazione di Terres des Hommes ad Haiti)

Haiti è cambiata da una settimana a questa parte: il ciclone Matthew ha impattato con la terra ferma nella notte tra lunedì 3 e martedì 4 ottobre, l’uragano ha investito il dipartimento sud-ovest con venti fino a 250 km/h e ha riversato sul dipartimento quasi un metro d’acqua in 24 ore: tutta l’acqua prevista per un anno solo in una giornata.

Le città più colpite sono Jeremie e Les Cayes, situata di fronte alla meravigliosa Île-à-Vache, meta turistica dalle spiagge bianche e dai palmeti a perdita d’occhio. Palmeti che ora non esistono più; intere aree spazzate via completamente dall’acqua e dal vento. Tutto il dipartimento sud-ovest ha subito ingenti danni in termini di vite umane, case, infrastrutture, scuole, ospedali, ci vorranno anni e anni per ricostruire il tutto.

Haiti si stava risollevando piano piano dal terribile terremoto del 12 gennaio del 2010, quando in meno di un minuto, alle 16.53 un sisma di grado 7.3 della scala Richter ha devastato la capitale Port-au-Prince causando la morte di 220.000 persone, secondo le stime ufficiali. Questa volta il ciclone ha risparmiato la capitale Port-au-Prince, dove sono stati registrati pochi danni, e solo materiali, mentre nel sud ha causato un’altra catastrofe.

Sono iniziate le guerre delle cifre, tra i media che dicono 900 morti, mentre le fonti locali governative dicono meno di 400, ma adesso il problema è ricostruire. In fretta. E arginare i problemi. Bisogna pensare ai vivi e a quelli che sono sopravvissuti: scuole, ospedali, case, campi da coltivare, animali da allevamento. Si calcolano già centinaia di migliaia di capi di bestiame uccisi dalla furia di Matthew, mettendo ancora di più in ginocchio un’economia già di sussistenza.

Dal sud viene gran parte delle coltivazioni di Haiti, che poi vengono anche esportate verso la capitale: ci vorranno anni prima che quella zona possa tornare come prima, se mai ce la farà. Ci sono ancora molti comuni isolati, altri raggiungibili solo in elicottero o via mare; nei giorni immediatamente dopo il ciclone anche la strada nazionale era interrotta perché l’unico ponte che collegava il dipartimento sud con la capitale era crollato a causa della corrente del fiume.

Le comunicazioni telefoniche sono riprese solo il venerdì, quattro giorni dopo il passaggio dell’uragano e le prime foto che sono arrivate sono quelle dei giornalisti haitiani che sorvolavano l’area in elicottero. Latrine e cisterne sono esondate e il rischio che il colera riprenda la sua epidemia è altissimo: il colera, arrivato nel 2010 dopo il terremoto, aveva fatto registrare sempre meno casi fino al 2016, ma in questi giorni già si contano nuovi casi nelle zone colpite dalla tempesta; la tempesta Matthew è la più forte tempesta che si sia abbattuta sui Caraibi dall’uragano Felix del 2007.

Le ONG che sono già presenti sul territorio sono già al lavoro per le valutazioni dei danni e capire cosa fare nelle prossime settimane, per cercare di salvare più vite possibili, e cercando di portare acqua pulita, cibo e medicinali. Si contano a centinaia anche i feriti, stipati negli ospedali ancora in funzione della zona. La Fondazione Terre des Hommes è presente nel sud e stiamo monitorando la situazione e stiamo cercando di capire cosa fare nell’immediato.

Le conseguenze devastanti del ciclone che ha colpito Haiti
@NY Daily News

Non abbiamo ancora avuto modo di andare a vedere direttamente i danni, anche perché gli spostamenti dalla capitale sono lunghi e difficili, però partecipiamo alle riunioni di coordinamento con le altre organizzazioni e con le Nazioni Unite per capire quale è il modo per essere più utili in questo momento così delicato. Per raggiungere le zone colpite dal ciclone ci vogliono circa 10 ore di auto , e solo adesso hanno trovato una strada alternativa evitando il ponte crollato, quindi per noi, che per il momento non operiamo nella zona, è molto complicato raggiungerle.

Non abbiamo avuto esperienze dirette con sopravvissuti, ma abbiamo membri dello staff locale che hanno famiglie al sud, e che hanno perso parenti e famigliari a causa del ciclone. Terre des Hommes Italia con l’aiuto di chi dona qualcosa sostiene ben 4 scuole, tutte e quattro nel comune di Croix de Bouquets: due sono nella zona metropolitana, quindi sono in città, e parliamo della scuola di Sacre Coeur e della scuola mista “la Providence”. Queste due scuole non hanno subito nessun danno, sono state ricostruite ed ampliate da Terre des Hommes Italia dopo il terremoto del 2010; fortunatamente anche le case dei bambini che sosteniamo nelle varie attività scolastiche ed extra scolastiche non hanno subito danni.

I danni più grossi sono stati registrati nelle zone dove sono ubicate le altre due scuole che sosteniamo grazie ai contributi annuali di chi ci sostiene: sono le comunità montane, dove si trovano le scuole comunitarie di Mare Minerve e Gouerant.

Anche in questo caso fortunatamente le scuole e il centro comunitario costruito da Terre des Hommes non sono stati danneggiati, e non sono registrate né vittime né feriti nelle comunità e tra i beneficiari dei progetti, ma abbiamo rilevato danni alle case delle famiglie dei bambini che seguiamo costantemente. Stiamo ancora cercando di capire quante case sono state danneggiate dal ciclone, le informazioni sono confuse e difficili da interpretare. Però tante, troppe. Ancora una volta le famiglie dei più poveri della Terra hanno subito le conseguenze peggiori, trascinati dalla forza dell’uragano.

Case fatte di mattoni, con tetti di lamiera, case poverissime, con finestre inesistenti, dei loculi dove possono dormire fino a 5 o 6 persone, in pochissimi metri quadrati. Già vivevano di nulla, adesso ancora meno. Molti animali da allevamento sono morti: capre, capretti, mucche e maiali, uccisi dal fango e dal vento.

Per una famiglia possedere anche solo una capretta è una fonte di guadagno, perché questa poi può riprodursi e far nascere altri capretti, così da poter mantenere almeno un’economia ciclica alla base della famiglia. Se anche questa muore, per la famiglia è la fine.

Le difficoltà aumentano e magari l’unica soluzione è spostarsi, andare verso le città, sperando in un futuro migliore, abbandonando le campagne e i campi, per cercare fortuna nella già affollatissima e caotica capitale Port-au-Prince. Il rischio è che queste persone vadano ad ingrandire ancora di più gli immensi slum sulle pendici dei monti intorno alla città.

I campi: anche questi distrutti, spazzati via dal vento, lavati via dal fango e dalla pioggia.

L’economia di sussistenza di queste zone di montagna, qualche albero di banane, fagioli, mais, giusto per poter dare da mangiare ai proprio figli, niente di più. Già si prospettano mesi difficili, perché anche queste fonti di reddito agricole sono state spazzate via nel giro di 24 ore.

Terre des Hommes aveva lavorato nel 2011 e 2012 in queste zone di montagna situate vicino ai fiumi con alcuni progetti per curare e prevenire il colera, malattia mortale che può uccidere di disidratazione un bambino nel giro di una notte.

La morte sopraggiunge quando tutti i liquidi del corpo vengono rilasciati, e non c’è nessun modo di poter dare acqua pulita e sali minerali. L’unico modo per salvare la vita di un bambino è l’acqua. Pulita. Tesoro prezioso in certe latitudini. Acqua, simbolo di vita o di morte.

Ed ora questo incubo ritorna, dopo aver mietuto più di 10.000 vittime in tutto il paese, nel 2015 e 2016 il colera stava rallentando la sua corsa, l’epidemia stava volgendo al termine.

Invece no, non c’è pace per gli haitiani e per queste comunità.

Per adesso le foto che ci arrivano da queste zone di montagna ci arrivano via whatsapp, via e-mail, noi ancora stiamo studiando il modo di arrivarci, visto che le strade sono impraticabili, non sono mai stati costruiti ponti per attraversare i fiumi e questi fiumi sono ancora troppo grossi per poter essere attraversati in jeep, in questi giorni post-ciclone.

Già, in posti in cui l’unico modo per arrivarci è in moto o a dorso di mulo, c’è internet, whatsapp o facebook sui cellulari all’ultima generazione, l’unico modo per comunicare con il mondo “civilizzato” dall’altra parte del fiume, nell’altro versante della montagna.

Sono le contraddizioni di questo paese. Haiti ormai è famosa solo per le catastrofi naturali: è tornata alla ribalta solo per il terremoto del 2010 ed ora per colpa di questo tremendo uragano del 2016.

Dovevamo affrontare le elezioni presidenziali il 9 ottobre, ma sono state rinviate a data da destinarsi, perché in questo momento è impossibile far votare la gente in queste condizioni e c’è il timore che ogni azione intrapresa dal governo o da qualche candidato venga considerata come campagna elettorale.

Haiti, come ben sa, deve ancora risollevarsi, piano piano, sulle sue gambe, cercando di diminuire le ingerenze delle potenze mondiali; un paese così piccolo e così problematico, con un fardello che si porta dietro da ben 212 anni: essere stato il primo paese al mondo ad aver preso l’indipendenza dai colonialisti francesi.

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