Genitorialità e lavoro: tra congedi, permessi, stereotipi e fatiche condivise21 min read

6 Febbraio 2023 Genere -

Genitorialità e lavoro: tra congedi, permessi, stereotipi e fatiche condivise21 min read

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Il rientro al lavoro delle neomamme dopo l’interruzione per il parto e il puerperio è un passaggio molto variabile, ma sempre parecchio delicato: lo scombussolamento emotivo e la rimessa in discussione identitaria che la neogenitorialità comporta si intersecano con questioni prettamente organizzative ed economiche, legate alla necessità di cura dei bambini e delle bambine mentre i genitori lavorano.

Sigmund Freud, già a fine 800, sosteneva che “Amare e Lavorare” (Lieben und Arbeiten) fosse la ricetta contro “i mali oscuri del mondo”. Amare e Lavorare vengono intese come le due funzioni e caratteristiche principali della vita adulta, e il loro equilibrio la misura migliore per una vita felice e in salute. Ma quando all’amore per il/la proprio/a partner, o per il mondo, si aggiunge l’amore (e la conseguente necessità di organizzazione) per un figlio o una figlia, la ricerca dell’equilibrio e della conciliazione diventa un compito ineludibile e quotidiano.

Esso nella contemporaneità è sperimentato, sebbene in forme molto differenti, tanto dalle mamme quanto dai papà, e da tutti i tipi di famiglie: tradizionali e non, mono- o bi-genitoriali, eterosessuali, omosessuali, arcobaleno.

Il modello tradizionale famigliare che prevede un uomo breadwinner e una donna caregiver ha tenuto per molto tempo (e ancora oggi) le figure maschili al riparo da questa sfida; d’altro canto, la crescente affermazione professionale e identitaria femminile, non accompagnata da un’adeguata redistribuzione dei carichi di cura nelle coppie e da una parallela rielaborazione del ruolo di cura maschile, continua ad essere appesantita quando la donna diventa madre.

Rispetto alla variabilità del processo, un tema fondamentale è sicuramente quello della durata dell’interruzione del lavoro per la neomamma: essa è dettata, infatti, non solo dall’approccio personale e valoriale dei genitori ai due compiti – forse antitetici? – dell’amare e del lavorare, ma anche, spesso, dal diritto di questi all’accesso alle misure di congedo di maternità (di 5 mesi, obbligatorio solo per le dipendenti, all’80% dello stipendio salvo concessioni del datore di lavoro) o di congedo parentale (erroneamente chiamato maternità facoltativa) alternativamente fruibile dalla madre o dal padre, sempre se dipendenti, a scelta della coppia e in considerazione, tra le altre cose, della situazione economica, dal momento che corrisponde al 30% dello stipendio percepito.

Come si può leggere ogni anno nel rapporto “Le Equilibriste” di Save The Children, i dati in merito parlano chiaro: la maternità continua a influire fortemente sulle scelte lavorative delle donne, nella direzione di una riduzione dello spazio dedicato al lavoro tra prima e dopo la maternità (con part time e demansionamenti fino alla vera e propria fuoriuscita dal mondo del lavoro) e solo un pochino su quelle degli uomini, generalmente nella direzione di un aumento del carico lavorativo al fine di incrementare uno stipendio per far fronte alle maggiori esigenze economiche della famiglia.

Ma il mantenimento del proprio posto di lavoro non significa necessariamente una situazione di equilibrio per le donne e per le coppie, che si trovano spesso a dover far fronte a una molteplicità di esigenze e fatiche, a molteplici livelli.

Lo scombussolamento emotivo e la riorganizzazione identitaria

La nascita di un bambino o una bambina richiede una riorganizzazione identitaria, emotiva e relazionale a 360 gradi: nei rapporti tra i due partner, ora genitori, nei rapporti di questi con il nuovo/a arrivato/a, nella relazione con le persone intorno, famiglie di origine, amici e società in senso lato. Si tratta di un cambiamento conosciuto, risaputo, a cui probabilmente non si arriva mai preparati ma che forse si aspettava da tanto, con gioia e fiducia. Si tratta di un cambiamento “coccolato”, nella maggior parte dei casi, e supportato, da corsi pre- e post- parto, da nonni e nonne emozionati/e, da amici e amiche che vengono in visita e portano la pasta al forno.

Si tratta, per la neomamma, di un cambiamento “violento” ma temporaneo: la nascita inaugura un tempo di totale dedizione al proprio bambino o alla propria bambina, di annullamento delle altre “parti” di sé. Si tratta, per il papà, di un cambiamento emotivo fortissimo, ma non sempre così intenso da un punto di vista organizzativo: il neopapà, a parte qualche sparuto giorno di congedo, riprende presto la propria vita sociale e professionale, modificandola certo, ma senza stravolgerla: il bimbo, la bimba, è con la mamma.

Il rientro al lavoro della neomamma, solitamente dopo pochi mesi, alcune volte dopo poche settimane o addirittura alcuni giorni, altre volte dopo anni, implica un altro cambiamento, in alcuni casi ancora più complesso del precedente, anche perché si va a instaurare su un assetto anch’esso nuovo e temporaneo, effimero, precario; sicuramente, sempre, meno (ri)conosciuto, meno immaginato, meno supportato e meno accompagnato.

Si parla di “ritorno” al lavoro, ma nei fatti esso somiglia molto poco alla ripresa di qualcosa di conosciuto.

Certo, il lavoro precedente lo si conosce (anche se non sempre si torna esattamente alla stessa mansione), ma la sfida che si pone davanti è del tutto nuova. Non si tratta di tornare a fare ciò che si faceva prima, quanto di integrare, all’interno del proprio sé di prima, la propria maternità e il proprio bambino/a, o viceversa, di integrare nel proprio sé attuale di mamma al 100%, il proprio lavoro. È questa una riorganizzazione identitaria spesso inaspettata, che richiede un forte investimento e mostra lati di sé mai sperimentati prima. È l’identità multipla sperimentata già per tanti anni, che chiede di ampliarsi ancora di più.

Da un punto di vista relazionale, prima si lavorava senza un bambino o una bambina da cui dover imparare a distaccarsi, dopo un breve o lungo periodo di fusione. C’è chi non vede l’ora di riprendere, di uscire da quella diade morbida ma a volte soffocante; c’è chi ha paura, paura di non bastarsi più da sola, paura di accettare di non essere indispensabile per un altro essere umano, dopo aver sperimentato la paura ma anche il potere e la gratificazione di esserlo. C’è chi ha persone fidate a cui affidare il bambino o la bambina mentre lavora; chi le vorrebbe ma non le ha, e si rivolge a servizi professionali verso cui nutre un’ambivalenza (tra il desiderio che accolgano il bambino/a con affetto e tenerezza, e la paura che questo si affezioni “troppo” a quelle persone); chi non le vorrebbe ma le ha, e vorrebbe iscrivere il figlio al nido ma alla fine lo lascia alla mamma o alla suocera, perché sennò si offendono e perché così si risparmia. C’è chi vive in Comuni dove ci sono posti pubblici garantiti per tutti i bimbi e le bimbe 0-3, e chi incrocia le dita perché è quarto in lista di attesa, o in gravidanza spera che nasca entro il 31 maggio, altrimenti tocca andare al settembre successivo; c’è chi il nido comunale ce l’ha lontano e non sa come portarcelo e chi decide di iscriverlo fuori città così sta nella natura, investendo parti cospicue del proprio stipendio.

Il punto di vista identitario, relazionale ed emotivo, benché se ne parli poco, tocca profondamente anche il neopapà; il bambino o la bambina non più dipendente in esclusiva dall’allattamento e/o dal contatto con la mamma e l’assenza della compagna nelle ore di lavoro, implicano un coinvolgimento maggiore della figura paterna, voluto o subìto che sia. In passato si diceva che un uomo si accorgeva di essere papà con l’ingresso del bambino alle elementari, con l’iscrizione a un’attività sportiva, con la sua nascita sociale.

Oggi, per scelta o per necessità, i neopadri sono coinvolti in prima linea fin da subito: grazie al lavoro femminile e grazie a una crescente consapevolezza e volontà di co-partecipazione all’interno delle coppie, partecipano alle dinamiche del nido, gestiscono la relazione con i propri genitori, ora nonni e nonne, valutano insieme alla compagna “chi dei due può più facilmente rinunciare al lavoro” in caso di malattia o delle chiusure di scuole o servizi educativi; tutto, con un accresciuto senso di importanza ma anche un carico di ansia da prestazione, necessità di riorganizzazione identitaria e scontro con un contesto sociale e lavorativo allargato che spesso fatica a comprendere che, anche per un uomo, un figlio o una figlia cambiano la vita.

Non esistono, infatti, gruppi di supporto, di confronto o corsi per neopapà  nei consultori o nei Comuni (qualcosa si sta muovendo, dal basso e con fatica, prettamente in ambito privato e a carico diretto del soggetto); i riposi giornalieri di due ore, usufruibili alternativamente dalla mamma o dal papà per i bambini sotto l’anno, continuano a essere chiamati “periodi di allattamento”; e in generale resta presente una cultura, nelle aziende, nelle generazioni oggi adulte ma anche negli stessi servizi educativi, di una figura paterna “meno” interessata alla sfida della conciliazione, con tanto di reazioni di scherno o di ammirazione nel momento in cui un padre rinuncia a parte della propria professionalità per adempiere appieno al ruolo genitoriale.

Foto di Nenad Stojkovic su Flickr

La sfida ineludibile e quotidiana della conciliazione tra amare e lavorare, oltre che “personale” per entrambi i genitori, riguarda ovviamente anche la loro relazione; sia nel senso della necessità di dedicare e dedicarsi del tempo “a due”, come coppia che non si definisce solo nella triade con il bambino o la bambina, sia nel senso della “dinamica del dondolo”: la faticosa realtà per cui per essere libero/a uno dei due, l’altro deve essere con il bambino/a, con una negoziazione continua del valore e della salvaguardia degli spazi personali (ha più valore il mio sostegno a un’amica in difficoltà o la tua partita del mercoledì? Il mio corso di pilates o la tua birra con gli amici? Ma anche, il mio appuntamento con un cliente o la tua riunione con i colleghi?).

Una rinegoziazione complicata, che fa tornare a galla dinamiche sottese agli equilibri di coppia e al rapporto individualità/complicità, che si gioca con il carico delle notti insonni e della “naturale” mancanza di tempo per sé dei neogenitori.

Infine, risulta necessario curare un ulteriore livello di riorganizzazione e ricerca di equilibrio, ed è quello della relazione con le famiglie di origine, ove presenti, rispetto al supporto che nonne e nonni, zii e zie possono dare alla neonata coppia genitoriale, alla rinegoziazione delle dinamiche genitori/figli e suoceri/generi/nuore, e della relazione con amici, amiche e contesto sociale in generale, rispetto a come rispettare e vivere la propria genitorialità all’interno del più ampio contesto sociale.

Nonostante tutto questo “scombussolamento” emotivo, non vi è molta attenzione né servizi di supporto a questa fase: il supporto psicologico intorno alla genitorialità si concentra quasi esclusivamente nella prevenzione o nel trattamento del baby blues o della depressione post partum, per cui ci sono molti validi progetti attivi, gruppi mamme, gruppi post partum e test a tappeto nei consultori pubblici e ospedali che prendono in considerazione il primo anno di vita del bambino/a.

Non vi è diffusione né di pratiche, né di letteratura, né di riconoscimento sociale del malessere dovuto a varie forme di depressione o più in generale fatica psicologica paterna, né alla nascita né al momento di rientro al lavoro della mamma. Anche per le madri, la fine del supporto “alla maternità” con il compimento del primo anno di vita del bambino e la concentrazione delle iniziative dei servizi per il post-parto alle tematiche relative allo sviluppo del bambino (allattamento, alimentazione complementare, gioco,…) e in un’organizzazione pensata per donne in congedo (ad esempio in orario mattutino), implica che questi preziosi servizi esauriscano la loro presenza nel momento in cui la donna rientra al lavoro, non riuscendo a intercettare e a trattare lo stress da conciliazione lavoro-famiglia.

Questa problematica, estremamente diffusa ma poco ri-conosciuta, viene di conseguenza spesso presa in carico in modo tardivo, una volta che il malessere è conclamato, all’interno di percorsi di intervento a carico diretto del genitore che lo sperimenta e senza una rielaborazione del senso collettivo di questa fatica.

Aspetti burocratici e inapplicabilità dei diritti “classici” all’attuale mondo del lavoro

Accanto al livello emotivo e identitario, è doverosa anche una riflessione intorno ai vari strumenti che le politiche di welfare hanno, negli anni, elaborato per intervenire e accompagnare i genitori nella conciliazione. Si tratta di due ordini di misure: quelle economiche, ovvero la corresponsione di bonus e assegni, normalmente calcolati sulla base dell’Isee, e quelle di congedo dal lavoro.

Per quanto riguarda le prime, non solo i livelli di intervento sono molti (Stato, Regioni, Comuni), ma le stesse iniziative spesso non sono stabili. Inoltre, la maggior parte degli interventi non si applica a tutte le lavoratrici e i lavoratori allo stesso modo: come già visto sopra rispetto ai congedi, anche le altre misure divergono a seconda dello status del genitore lavoratore/trice, a seconda cioè se si tratta di un lavoratore dipendente, autonomo, collaboratore, pubblico, privato,…

Di questa frammentarietà e variabilità si rendono conto non solo i servizi a cui spesso si rivolgono i genitori per delucidazioni (datori di lavoro , CAF o sindacati), ma anche le varie istituzioni, tant’è che per esempio Città Metropolitana di Milano ha pensato di strutturare una guida che riunisse tutte le possibilità e le iniziative che i genitori lavoratori hanno a disposizione, con la spiegazione di come accedervi. Un’ottima iniziativa, peccato che la pagina resta aggiornata al 2017, e che molte delle iniziative ivi descritte non sono più attuali.

Su questo tema, un elemento di grande interesse e valore è stata l’introduzione dell’Assegno Unico Universale nel 2021, fruibile da tutti e tutte i genitori, in sostituzione degli assegni famigliari prima riconosciuti ai soli lavoratori dipendenti, e la riformulazione del Bonus Nido, accessibile su base annuale per tutti i genitori di bambini 0-3 anni, con una corresponsione calcolata sulla base dell’Isee.

Se per quanto riguarda le misure economiche il gap tra lavoratori dipendenti e autonomi è stato messo sotto i riflettori, e le ultime iniziative vanno nella direzione di rendere omogenea la fruizione di questi diritti alle varie categorie di lavoratori, lo stesso non si può dire delle misure di conciliazione intese come possibilità di astenersi dal lavoro per la cura dei figli e delle figlie.

I già citati diritti di congedo (obbligatorio per le mamme e facoltativo per entrambi) e riposi giornalieri restano applicabili ai soli contratti di lavoro dipendente, con tutele diversificate per i lavoratori pubblici e privati. Per quanto riguarda i liberi professionisti, alcuni ordini professionali corrispondono alle proprie iscritte (e alcune volte anche ai propri iscritti) degli assegni che possano compensare l’impossibilità di praticare durante il momento della nascita di un figlio o di una figlia, ma si tratta sempre di iniziative non omogenee e che dipendono non solo dalla tipologia “pratica” del lavoro, ma anche dalla forza relativa dell’ordine di riferimento.

Per tornare ai lavoratori dipendenti, se l’astensione “lunga e continuativa” dal lavoro per alcuni mesi è bene o male riconosciuta a tutti e tutte, lo stesso non si può dire per gli altri diritti di conciliazione, come i permessi malattia figlio o i congedi per chiusure scolastiche: tutti questi diritti, infatti, oltre a non essere sempre conosciuti dagli stessi genitori lavoratori, sono strutturati sul modello ormai residuale del lavoratore/lavoratrice dipendente con orario fisso, e si rivelano nei fatti inapplicabili per molti dei contratti di lavoro attuale. I cambiamenti del mercato del lavoro negli ultimi decenni sono andati verso un impiego flessibile, “senza cartellino” e senza un luogo e un tempo specifico ad esso dedicato.

Il confine tra privato e professionale è più labile, e con esso anche la possibilità di astenersi o meno dal lavoro è meno praticabile.

In particolare si osserva come i cambiamenti delle biografie personali, con la tendenza ad avere figli più tardi che in passato, si intersecano con i cambiamenti dei sistemi di lavoro, rendendo la fase della genitorialità con bambini/e piccoli/e a carico un momento particolarmente delicato per moltissimi lavoratori e lavoratrici: molte volte, infatti, il momento della genitorialità (intorno ai 35 anni), coincide proprio con la fase professionale in cui, dopo circa 10/15 anni di lavoro nel proprio ambito, avviene il passaggio da un ruolo esecutivo a un ruolo di managing e coordinamento.

Questo permette al lavoratore di essere sganciato da una sede fisica e da un orario fisso di lavoro, ma parallelamente, avendo un ruolo di maggiore pensiero e responsabilità, lo rende più difficilmente sostituibile. In questo senso, la possibilità di accedere a dei congedi (ad esempio il congedo malattia figlio) risulta quasi inapplicabile: se sono io che organizzo il mio lavoro, e lavoro su compiti e scadenze più che su orari, e inoltre nel mio ruolo svolgo una funzione non sostituibile da un collega o una collega, allora anche assentarmi dal lavoro un giorno (con un permesso, tra l’altro, non retribuito), appare controproducente, dal momento che nessuno mi potrà sostituire nel mio lavoro e che mi ritroverei la medesima scadenza, con un giorno in meno per raggiungerla.

Sono sempre di più i lavoratori e lavoratrici genitori che si trovano, di conseguenza, nella formale possibilità di accedere a congedi e aiuti, ma nella fattuale inapplicabilità degli stessi, proprio nel momento in cui avrebbero bisogno di maggiore flessibilità (con la ricerca di rocambolesche soluzioni da una parte, o la scelta rinunciataria di tornare ad un ruolo maggiormente esecutivo o di posticipare o evitare un avanzamento, dall’altra).

Pandemia e Smart Working

Ca va sans dire che, in quanto detto finora, un ruolo importante è giocato dalle evoluzioni tecnologiche che hanno rivoluzionato il modo di lavorare, rivoluzione esacerbata dall’avvento della pandemia di Covid 19 e dal ricorso allo Smart Working.

I Social Network pullulano oggi di inviti ai genitori (in particolare alle mamme) a intraprendere carriere da casa, lavorando da remoto così da poter meglio conciliare la propria genitorialità con la propria professionalità.

Ma siamo davvero sicure e sicuri che uomini e donne lavorino meglio dal proprio domicilio, con bambini e bambine a cui badare nel frattempo? Al netto del tempo della strada che si risparmia nel poter lavorare da casa, siamo sicuri che la qualità della vita e il rapporto lavoro/famiglia migliori nella possibilità di non muoversi e non avere un orario fisso di lavoro? È sensazione comune per i neogenitori che “lavoro” e “bambini/e” esauriscano il proprio tempo, il proprio spazio e il proprio orizzonte, soverchiando le altri parti di sé; così, addirittura, lavoro e bambini sono sovrapposti e la sensazione di non poter staccare mai né dall’uno né dall’altro è predominante, chiedetelo a chiunque alla quinta call della giornata con un bimbo o una bimba malata in braccio.

Chiaramente queste domande non possono avere risposte univoche, ma è bene riconoscere un’ambivalenza profonda, in nuove forme di lavoro maggiormente flessibili nei luoghi e nei tempi rispetto alla genitorialità: se da una parte permettono di organizzarsi per lavorare “come si vuole, quando si vuole, dove si vuole”, dall’altra queste rendono inapplicabili i diritti classici (congedi parentali) per come sono pensati attualmente, e implicano la necessità che il genitore lavoratore  trovi personali strategie per gestire l’inevitabile confusione tra ruolo genitoriale e ruolo lavorativo, la strutturazione di entrambi, l’alternanza tra l’uno e l’altro; in un approccio, di nuovo, individuale e personale, a un problema che, invece, è collettivo.

Genitorialità e lavoro: stereotipi e pregiudizi diffusi

Foto di sara* su Flickr

A queste difficoltà oggettive interne alle coppie e alle necessità organizzative di ciascuno e ciascuna, si somma il peso di un contesto sociale molto polarizzato tra una visione tradizionale dei rapporti di genere e della famiglia da una parte, e un approccio che si vuole progressista ma che di fatto diventa a propria volta impositivo e linearistico, dall’altra.

Per quanto riguarda il primo approccio, all’uomo breadwinner, che quando diventa padre non ha bisogno di modificare nulla nel proprio rapporto con il lavoro se non l’aumentare l’incasso per meglio rispondere alle maggiori esigenze economiche della famiglia, corrisponde una donna caregiver per la quale è normale fare rinunce, riduzioni o contrazioni del proprio percorso lavorativo per occuparsi dei figli.

Questa posizione è ben espressa da straniamenti e frecciatine, se non veri e propri comportamenti di mobbing, quando un papà lavoratore chiede congedi, riposi giornalieri o revisioni della propria organizzazione oraria; è bene espressa anche dalla tendenza, purtroppo ancora diffusa in molti servizi educativi, a rivolgersi esclusivamente alle madri per le questioni di cura dei bambini e delle bambine, a mortificare le presenze paterne guardandole come inopportune, o necessarie esclusivamente per coprire a delle mancanze materne.

Parallelamente, questa posizione è ben espressa nei commenti e negli attacchi alle cosiddette (con una punta di scherno) “mamme in carriera” che rientrano al lavoro “senza prendere il part time”, ma anche nella disponibilità dei datori di lavoro a demansionare o deresponsabilizzare lavoratrici che rientrano dalla maternità, con l’idea di agevolarle nel loro nuovo ruolo.

Per quanto riguarda il secondo approccio, invece, è da sottolineare come l’importante processo di emancipazione e affermazione femminile nel corso del Novecento, e galoppante in questi anni Duemila, non sia riuscito a proporre un reale modello femminile alternativo a quello tradizionale relegato alla cura di casa e famiglia, diverso da quello di una donna super che rientra al lavoro con gli stessi identici livelli di produttività del pre-maternità.

Abbiamo così donne e mamme continuamente tirate da una parte e dall’altra, da chi ritiene che una mamma debba mettere al primo posto i/le propri/e figli/e, e di conseguenza rinunciare all’affermazione e alla realizzazione professionale (“ma cosa hai fatto un figlio a fare, per affidarlo a nido/babysitter?”), e da chi viceversa sostiene che la maternità non debba incidere sulla produttività femminile (hai chiesto un part time? Stai buttando via “te stessa” nel ruolo materno, un figlio non deve cambiarti la vita!”), alla ricerca di un proprio personale equilibrio con la costante e diffusa sensazione di non essere mai abbastanza.

Parallelamente, gli uomini vengono continuamente mortificati nei loro tentativi di assolvere ruoli di cura, tirati tra chi li considera dei mammi smidollati (e incapaci di adempiere alle esigenze economiche delle famiglie) e chi li osanna e li gratifica come soggetti speciali per aver cambiato un pannolino.

Solo marginalmente si fa strada una cultura di condivisione e co-genitorialità reale, che vede come condizione per una vera affermazione professionale femminile la necessaria rielaborazione di un ruolo di cura maschile (pena, altrimenti, lo scarico del lavoro di cura non svolto dalle donne lavoratrici su altre donne, pagate per sostituirle) e ritiene fondamentale, nella riorganizzazione della vita famigliare dopo la nascita di un bimbo o una bimba, una rinegoziazione interpersonale che coinvolga entrambi i genitori, sullo stesso piano.

È una cultura che nasce principalmente dalle pratiche dal basso di donne e uomini che, insieme, provano a sperimentare strategie creative di conciliazione, spesso nella diffidenza del contesto sociale intorno, sempre senza un valido appoggio dalle istituzioni.

Conclusione

Quel che sembra emergere è che la conciliazione resta una questione profondamente personale che ogni donna e, sempre più spesso per fortuna, ogni coppia, si deve risolvere da sola. È, forse, questo della conciliazione un aspetto concreto, che porta all’estremo e mostra chiaramente la più ampia questione di un Welfare State profondamente in crisi, che di fronte a problematiche collettive e diffuse richiede soluzioni personali o individuali che si basano, sempre, sulle risorse dei singoli, siano esse economiche, emotive, famigliari o sociali.

È una questione che cambia velocemente, come cambiano il lavoro e la genitorialità, e che il sistema complesso e farraginoso del welfare segue in ritardo, a volte con interventi puntuali e adatti, ma poco continuativi, altre volte con correttivi ridicoli rispetto alla mole di bisogno presente.

È una questione che, più di altre, rimette in luce le diversità e le disuguaglianze: non solo tra lavoratori e lavoratrici e tutele e diritti delle varie forme di lavoro, ma anche di risorse economiche, personali e famigliari di ciascun individuo e ciascuna coppia.

Piccoli passi si stanno facendo, sicuramente l’istituzione dell’assegno unico universale è fattore positivo quanto meno per estendere i diritti dai tradizionali beneficiari (lavoratori dipendenti) anche a altre tipologie di lavoratori, così come l’allargamento del bonus nido.

Soprattutto tra i giovani professionisti/e più istruiti/e si sta diffondendo l’attenzione e la pratica di una genitorialità fatta di maggiore condivisione del carico all’interno delle coppie, maggiore partecipazione dei papà alla vita dei bambini, istituzione di gruppi padri oltre e insieme a quelli tradizionali delle madri, nel superamento dell’idea di un’emancipazione femminile che scimmiotti il modello maschile, ma al contrario nel riconoscimento che la genitorialità può e deve modificare l’approccio lavorativo di entrambi i genitori.

È una questione che interroga profondamente i vari saperi (pedagogico, psicologico, organizzativo, sociologico,…), e che chiede un approccio politico al tema al passo con i tempi correnti: con le coppie che ogni lunedì mattina si mettono al tavolo a cercare di capire come far quadrare i molteplici livelli di esigenze; con gli uomini che ci tengono a effettuare in prima persona l’inserimento al nido, che cambiano il pannolino tutte le sere ai loro bambini e che si offendono, quando la pediatra si stupisce che si siano recati in visita “al posto della mamma”; con le donne che amano la famiglia e allo stesso tempo amano lavorare, che si chiedono ogni giorno come riuscire a fare quadrare le cose per poter dedicare la giusta attenzione al proprio lavoro e ai propri bambini, e hanno bisogno, qualche volta, che sia proprio il loro compagno, o qualche riconoscimento sociale, ad assolverle dalla sensazione di non essere mai abbastanza né da una parte né dall’altra.

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