Perché le donne guadagnano meno degli uomini? Dati e cause del gender pay gap in Italia7 min read

16 Marzo 2021 Genere -

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Antropologa

Perché le donne guadagnano meno degli uomini? Dati e cause del gender pay gap in Italia7 min read

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Il primo febbraio 2021, il Dipartimento del Lavoro statunitense ha annunciato che Google risarcirà con 3,8 milioni di dollari circa seimila dipendenti donne per “discriminazioni sistematiche nelle retribuzioni e nelle assunzioni”. Duemila lavoratrici del settore ingegneria software riceveranno 1,4 milioni di dollari per casi di ingiustificata differenza di retribuzione in base al genere.

Una buona notizia per la lotta al gender pay gap, ovvero la differenza discriminatoria tra il salario medio degli uomini e delle donne che svolgono un lavoro retribuito. Un gap che esiste ovunque: in nessun paese al mondo le donne sono pagate come gli uomini sul posto di lavoro. Secondo uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che copre 70 nazioni del mondo, questa differenza è in media del 20%.

In Unione Europea le donne guadagnano all’ora il 14,1% in meno rispetto agli uomini e la disuguaglianza è presente in tutti i settori lavorativi. Come spiega a Le Nius Eloisa Betti, docente a contratto di storia del lavoro all’Università di Bologna e co-coordinatrice del Feminist Labour History WG, gruppo di ricerca internazionale afferente al network europeo di storia del lavoro (ELHN):

È come se le donne europee lavorassero senza stipendio per quasi 2 mesi l’anno.

Il basso gender pay gap in Italia (3,9%) non è purtroppo indice di una maggiore parità. Nei paesi caratterizzati da una bassa occupazione femminile, che in Italia è inferiore al 50%, la differenza nelle retribuzioni tende ad essere minore della media. Sul basso gender pay gap in Italia incide anche la rilevante presenza femminile nel settore statale, dove c’è maggiore parità salariale.

Aggiustando il dato tenendo conto delle caratteristiche specifiche del mercato del lavoro italiano, il Gender Equality Index 2020, pubblicato nell’ottobre scorso dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, ha infatti stimato al 18% la reale disuguaglianza salariale in Italia.

differenza salariale in italia
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Perché esiste il gender pay gap?

Secondo la Commissione Europea, il 30% del gender pay gap si spiega con la segregazione settoriale: le donne sono sovrarappresentate in settori a bassa retribuzione, come la sanità, l’assistenza sociale e l’educazione. Al contrario, la proporzione degli uomini nei settori STEM (Science, Technology, Engeneering e Mathematics), tipicamente ben pagati, è dell’80% in UE.

La segregazione settoriale, sostiene la professoressa Betti, “è dovuta in parte all’orientamento all’istruzione e successivamente al lavoro, che fin dall’infanzia indirizza le bambine verso ambiti ritenuti “più adatti” alle donne: questi stereotipi sono un ostacolo alle pari opportunità e vanno combattuti in primis a livello culturale e educativo”.

Un altro fattore che incide pesantemente sul gender pay gap in Italia è il lavoro domestico. Secondo una recente ricerca condotta dal Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna, in Italia una madre che lavora a tempo pieno dedica all’incirca 60 ore alla settimana a lavoro retribuito, lavoro domestico e cura dei figli, contro le 47 ore del partner. “La carenza del welfare aggrava ulteriormente il problema del lavoro non pagato delle donne in Italia, ed è anche una delle cause del basso numero medio di figli per donna (circa 1,3) e del basso tasso di occupazione femminile (circa al 50%)”, spiega Eloisa Betti.

Occupandosi maggiormente della casa e di figli e parenti, le donne sacrificano il tempo da dedicare al lavoro retribuito e le loro possibilità di carriera. Per questo, si dimettono “volontariamente” molto più degli uomini: “il 73% delle dimissioni volontarie riguarda le lavoratrici”, come ha affermato il 20 ottobre scorso la sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze Cecilia Guerra alla relazione sul bilancio di genere.

Eppure sono maggiormente istruite: il 15,9% delle donne è laureato contro il 13,4% degli uomini. Nonostante questo, il cosiddetto “soffitto di cristallo” (glass ceiling) continua a persistere, impedendo loro di ricoprire ruoli gerarchicamente alti: in UE meno di un’azienda su 10 ha una CEO donna. E, quando sono manager, guadagnano il 23% in meno degli uomini.

Quali leggi tutelano la parità di retribuzione?

Il principio dell’equal remuneration for work of equal work (eguale retribuzione per lavoro di uguale valore) è stato stabilito per la prima volta settant’anni fa con la Convenzione OIL n.100 sulla parità salariale, varata nel 1951. La Costituzione italiana aveva precedentemente introdotto nell’articolo 37 la parità salariale tra uomo e donna ma, come spiega la professoressa Betti, “il principio dell’equal remuneration for work of equal work è fondamentale perché evidenzia che il lavoro femminile non deve necessariamente essere identico a quello maschile ma deve essere equiparabile: si apre così una nuova prospettiva per la piena valorizzazione del lavoro femminile e l’analisi della disuguaglianza salariale”.

L’Italia è stato uno dei primi paesi a ratificare la Convenzione OIL nel 1956, ma la prima legge che sancirà tale principio risale al 1977. Si tratta della legge 903, anche detta legge Anselmi, da Tina Anselmi, che fu la prima donna ad essere Ministro della Repubblica nel 1976. Ancora oggi il principale riferimento legislativo, la legge vieta espressamente ogni forma di discriminazione e stabilisce la piena parità tra lavori di eguale valore.

Nonostante questo, il gender pay gap in Italia è ancora una realtà: al 2020 il guadagno medio mensile delle donne italiane è inferiore del 18% rispetto a quello degli uomini. Secondo Betti, “c’è una stratificazione di norme che spesso sono rimaste lettera morta” e aggiunge che “i cambiamenti a livello storico sono seguiti a momenti di forte attivismo femminile, che ha promosso proposte di legge e occasioni di indagine sulla disparità salariale”.

Le quote rosa servono?

Un altro passo significativo è stata la legge Golfo-Mosca del 2012, che ha imposto una quota di minimo un quinto di donne nei Cda delle grandi aziende quotate. Nonostante la percentuale di donne sia aumentata negli anni seguenti, la legge non è stata un successo: un rapporto di Cerved e Fondazione Bellisario (pdf), infatti, ha evidenziato come le imprese abbiano generalmente mantenuto la rappresentanza femminile ai vertici vicina ai minimi consentiti, parallelamente a un aumento molto lento nelle imprese non soggette alle quote.

Un parere contrario alle forme di discriminazione positiva, quali le quote rosa, è stato espresso dal premier Mario Draghi nel suo discorso al Senato il 17 febbraio 2021, in cui le ha definite “farisaiche”. La storica Eloisa Betti sostiene invece che “nel momento in cui c’è un rapporto sbilanciato in partenza, la legislazione non risolve da sola il problema. In tal senso, l’esempio dei congedi di maternità e paternità è emblematico: alcuni paesi hanno imposto l’obbligatorietà per i padri a prendere un certo numero di congedi, perché altrimenti avrebbero continuato a usufruirne solo le madri. A volte sono necessarie forme di discriminazione positiva per invertire comportamenti consolidati che reiterano le diseguaglianze di genere nel lungo periodo”.

gender pay gap in italia
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Gender pay gap in Italia: l’impatto della pandemia

Nel febbraio 2020 l’Italia è entrata a far parte della Coalizione internazionale per la parità salariale (EPIC), guidata dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), insieme a ONU Donne e OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). L’adesione a EPIC è coincisa tristemente con l’inizio della pandemia. Dall’aumento della violenza di genere, alla sempre più iniqua divisione del lavoro domestico, il peggioramento della condizione femminile dovuto alla crisi ha riguardato tutti gli ambiti.

Il Covid-19 ha innanzitutto evidenziato quanto siano essenziali per la società le professioni della sanità e dell’istruzione, spesso svalutate e sottopagate. Lavori tipicamente femminili, che hanno comportato infatti una maggiore esposizione delle donne agli impatti sociali e sanitari della pandemia in tutto il mondo.

I dati Istat (pdf) relativi a dicembre 2020 hanno poi mostrato che la crisi ha colpito sproporzionatamente l’occupazione femminile: su 101 mila lavoratori che hanno perso il posto nel 2020, 99 mila sono state donne.

Il gender pay gap è una perdita per la collettività

“Il lavoro femminile porta a maggiore sviluppo sociale e economico grazie ai processi positivi che innesca”, afferma Eloisa Betti. Per questo, “la bassa occupazione femminile non riguarda solo le donne: è un problema di tutta la collettività”. In effetti, le discriminazioni di genere nel mercato del lavoro sono un danno per l’economia mondiale.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, comportano una perdita economica che va dal 10% del Pil nelle economie avanzate al 30% in Asia del Sud, Medio Oriente e Nord Africa. “È necessario un cambiamento di prospettiva”, conclude Betti: “non dobbiamo pensare che le donne debbano essere aiutate ma piuttosto che debbano essere rimossi gli ostacoli che le penalizzano e le discriminano: il valore aggiunto che portano al mercato del lavoro è benefico per tutta la società”.

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Antropologa, si interroga su come la società occidentale possa cambiare il rapporto annichilente che intrattiene con la Terra e gli altri animali. Scrive di questi temi ed è convinta che le scienze sociali dovrebbero dare di più alla divulgazione. marianna@lenius.it
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