Il G8 di Genova, 20 anni dopo13 min read

12 Luglio 2021 Politica -

Il G8 di Genova, 20 anni dopo13 min read

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Paolo e Davide sono tra i cofondatori di Le Nius e 20 anni fa, a 20 anni, parteciparono alla contestazione del G8 di Genova. Ripercorriamo con loro quei giorni.

Perché sei andato a Genova?

Davide: Mi sembrava fosse davvero importante andare a manifestare il mio dissenso verso un sistema economico e di potere iniquo e promotore di disuguaglianze. Ricordo i giorni precedenti, la battaglia con i miei che temevano andassi, ricordo come ogni giorno quotidiani e tv tirassero fuori un pericolo nuovo – bombe, sacche infette di sangue, attentati – per spaventare chi aveva deciso di esserci. Eppure tutto questo mi spingeva ancor di più ad andare. Sentivo che quel movimento rappresentava anche la mia voglia di giustizia e di un otro mundo posible. Decidere di andare a Genova mi sembrò la più semplice e naturale delle decisioni. Tutto portava a pensare che la partita, per quanto simbolica, fosse importante. Volevamo giocarla. Ho ancora a casa dei miei un ritaglio di giornale della lettera che scrissi ad Avvenire, di cui i miei erano e sono lettori, in cui spiegavo le ragioni della mia decisione. Mi faceva molto arrabbiare leggere di chi non andava per mille (legittime) preoccupazioni, rivendicavo il diritto di andare, di esserci.

Paolo: Sono andato a Genova perché ho preso il treno giusto, invece di prendere il primo treno su cui stavamo salendo, eccitati, per Geneve (Ginevra); avremmo scritto un’altra storia, più divertente.

Sono andato a Genova perché i poliziotti che mi han perquisito tre volte in tre punti diversi della Stazione Centrale non hanno trovato quello che cercavano. E neanche il modo di mettermelo loro nello zaino.

Sono andato a Genova perché un paio d’anni prima ero stato in Sudafrica, ed ero tornato con del gran bel casino in testa, consapevole che un tot di storie che ci si raccontava per giustificare il vergognoso stile di vita italiano erano (sono) delle paraculate senza fondamento, che fuori dall’Italia c’erano (ci sono) miliardi di persone con sogni simili ai nostri e diversi dai nostri, ma con pochissime possibilità di realizzarli. Che lo sapevo anche prima di andare in Sudafrica, ma poi incontri ragazze e ragazzi che danno un giro di cuore e di sangue alle lettere di Alex Zanotelli, alle parole di Jack Folla, ai versi dei Modena (per dire i primi tre che mi vengono in mente).

Genova era un luogo in cui capire come superare la cultura individualista inculcata dai media mainstream, in cui riflettere su come rifondare le Nazioni Unite bloccate dagli interessi finanziari dei nazionalismi, in cui portare le battaglie di giustizia sociale di tutto il mondo, in cui ragionare sull’emergenza ambientale. Genova era un luogo mentale, che è diventato prima un luogo di corpi e poi un luogo di corpi violati. Di corpi dello Stato: i nostri.

Pensavamo di essere anticorpi ci siamo scoperti corpi espiatori.

A Genova c’erano disparate parti sociali con appartenenze multicolori che andavano a cantare stonate che un mondo diverso era possibile. E siccome anch’io ero sono sarò abitato da molteplici appartenenze, trovarne lì moltissime di queste esercitava un richiamo polifonico cui volevo dare risposta. Nonostante non sia mai stato fan delle folle oceaniche, ma solo dei folli e degli oceani. E vabbeh.

C’era da cambiare la storia dell’umanità, di fare un passo importante con un movimento che erano tanti movimenti insieme, per pretendere che la politica decidesse per il bene delle persone, cominciando dalle ultime, persone e, brutalmente, nazioni, che non erano rappresentate. Mai.

Nel 2001 avevo 20 anni, e non mi chiedevo “Perché andare a Genova?” ma perché non andarci. E non avevo una risposta a quella domanda, quindi il 20 luglio diedi l’esame di Teorie e tecniche della comunicazione di massa (che sapevo) con il prof. Fausto Colombo (che sapeva), salutai chi mi aveva recuperato due panini e partimmo.

Perché a vent’anni è tutto ancora intero
Perché a vent’anni è tutto chi lo sa
A vent’anni si è stupidi davvero
Quante balle si ha in testa a quell’età

Oppure allora si era solo noi
Non c’entra o meno questa gioventù
Di discussioni, caroselli, eroi
Quel ch’è rimasto dimmelo un po’ tu

@wikipedia

Con chi sei andato a Genova?

P: Con due amici: Davide (Dax) e Andrea (lo Zio). Partire da solo mi è sempre piaciuto, lo trovavo liberante rispetto al viaggiare con persone che già conoscevo, dove è più difficile reinventarsi, e forse è più difficile crescere. La menavo con ‘sta storia, ma se andare a far cose da solo mi è sempre piaciuto, viaggiare con amici mi è spesso piaciuto di più. E allora, riprendendo la domanda precedente, sono andato a Genova anche perché siamo andati a Genova. Non ricordo complicati processi alle intenzioni, qualche scambio tra noi al Leoncavallo, ma la decisione da prendere era semplice.

D: Sono andato con due amici, Andrea e Paolo, con cui ho condiviso gli anni del liceo. Avevamo dato gli esami fino all’istante prima di partire (partimmo il venerdì in tarda mattinata, dopo l’esame di Paolo, rischiammo di prendere il treno per Geneve prima di salire su quello giusto, arrivammo che filtravano già le prime notizie di Carlo e si parlava di altri morti), ci siamo tenuti stretti fino al ritorno in Stazione Centrale a Milano. Ricordo bene quella sensazione di non perderci mai di vista, neanche per un istante, proposito che puntualmente falliva quando eravamo in mezzo a tantissime altre persone che correvano o avanzavano, un fiume di persone. Ricordo l’importanza di averli vicino nei momenti più critici, quando dall’elicottero venivamo bersagliati da fumogeni ad altezza uomo. Senza di loro, non so come ne sarei uscito. Per inciso, è anche grazie a loro che abbiamo sentito da Radio Gap e Radio Popolare di un treno della CGIL per Milano il sabato sera e non siamo andati a dormire alla Scuola Diaz. Per me è stato un momento forte, è stato importante essere insieme, credo poi che ognuno abbia rielaborato quei giorni dentro di sé in modo personale. Con Andrea non ci sentiamo più da anni, con Paolo abbiamo aperto anche questo blog.

Anche Le Nius, in fondo, nasce da quel desiderio che ci ha portati sulle strade di Genova.

@wikipedia

Cosa ti è rimasto di quelle giornate?

P: Mi è rimasta la percezione che da un certo punto in poi, sabato 21 luglio, io non volevo più essere lì. Speravo che la giornata finisse, che ci teletrasportassimo altrove, che la follia di 10 ore in fuga dalla polizia in un insensato gioco di guardie&ladri si concludesse. Lo desideravo talmente forte che, dopo che uno di noi se la stava vedendo brutta, ho provato ad infrangere le regole dell’inferno. Lo Zio mi ha gridato qualcosa dietro per cercare di fermarmi, ma sono andato incontro al milionesimo capannello di poliziotti di quel maledetto giorno, esasperato, per chiedere loro cosa diavolo dovessimo fare. Sono uscito dai ruoli, e la risposta mi ha rispiegato le regole:

“Oggi funziona così: dovete stare lontano da noi. Se adesso mi suona il telefono e mi dicono di prendere 10 ragazzi io porto via te e i tuoi amici”

Di quelle giornate mi è rimasta l’adrenalina, il caos, le urla di verità scomposte, che ci colpivano da tutte le parti. Il rumore degli elicotteri che c’inseguivano (gli elicotteri. Gli elicotteri), le persone che si buttavano in mare, cercare rifugio dentro una casa privata, mio zio che mi chiamava per aggiornarmi da Radio Popolare, dandomi i numeri degli avvocati volontari e io che non capivo a cosa dovessero servirmi.

Recuperando i frame di Bella ciao, documentario di Marco Giusti censurato in RAI da Agostino Saccà, mi vedo camminare conversando con Davide, sfilando a fianco di poliziotti che danno del bastardo allo Zio, che aveva scelto il giorno sbagliato per per essere vestito di nero, con lui che chiede spiegazioni, incredulo. A Genova, è rimasta, umiliata e torturata, la fiducia nella polizia.

Di quelle giornate mi sono portato tante persone che ritenevano necessario essere lì, per sé e per il mondo. Mi è rimasto un inglese sul treno dell’andata, quei discorsi stravaganti e visionari tipici di queste situazioni da viaggio, da militanza. A Genova ho conosciuto Emilio Molinari, poi riconosciuto tra i fondatori del movimento dell’acqua e oggi vicepresidente dell’Associazione Laudato Si’. E si parlava di un prete che distribuiva panini ai manifestanti, un prete di strada dal nome memorizzabilissimo. Don Gallo.

D: Ricordo il viaggio di andata, l’arrivo il venerdì primo pomeriggio, faceva caldo. Ricordo bene la tensione, la rabbia del venerdì sera, l’assemblea al campo La Sciorba dove abbiamo dormito, le discussioni sul “manifestazione sì manifestazione no” del sabato, i capannelli davanti alle televisioni, le copie del Manifesto il sabato mattina e quella maledetta immagine di un ragazzo come noi, Carlo Giuliani, a terra, senza vita. Ricordo la paura ogni volta che avvistavamo le forze dell’ordine. La caccia all’uomo. Tutto ad un tratto, da una grande manifestazione che portava temi ben precisi agli occhi del mondo, ci siamo ritrovati ad una sorta “di gioco al gatto e il topo”, le stesse forze dell’ordine ti dicevano di stare lontano da loro, tutti eravamo un bersaglio di chi avrebbe dovuto rappresentare lo stato italiano e la sua protezione. Ricordo i fumogeni ad altezza uomo, il male alla gola, lo sconforto, il passaggio in mezzo a carabinieri e guardia di finanza che urlavano “merde”, “zecche”, “fate schifo”. Ricordo il rumore degli elicotteri, i manganelli che battono sugli scudi e segnano la marcia della polizia, ricordo le urla e il caos. Emotivamente, uno schiaffo violentissimo.

Ricordo la voglia di andare via da Genova.

Paolo, come sei tornato da Genova?

P: In treno, in silenzio. Scampati per miracolo alla notte alla Diaz; avevamo lasciato nella scuola gli zaini, per dormire, ma lo Zio ha raccolto una voce (chissà di chi) di un treno per Milano che stava per lasciare la città. Ci proiettiamo poco fiduciosi in stazione (chissà quale), dove passiamo guardinghi tra due cordoni di poliziotti, che provano perfino ad allungarci dei panini. Li immaginai avvelenati quei panini. Al binario dichiariamo di essere tesserati non ricordo neanche più a cosa, valeva tutto pur di sparire da Genova, dalla Liguria. Da una certa idea di Italia.

Nella carrozza eravamo traumatizzati. Se non sbaglio andammo a casa mia, era libera, mi feci una doccia, Radio Popolare accesa in più stanze, gli speaker ci aggiornavano provando anche loro, increduli, a unire i pezzi.

Dieci giorni dopo ero in Costa d’Avorio e quella confusione mi accompagnò un po’ e poi forse la accantonai, nuovamente travolto dall’Africa e da tutto quello che.

Come sei tornato a Genova, Davide?

D: Sono tornato diverse volte in questi 20 anni, ad esempio per la manifestazione a 10 anni dal G8. Le prime volte è stato tosto, quasi non riconoscevo più quella città, quelle vie. Tornarci è stato duro ma anche catartico, in qualche modo mi ha permesso di uscire dal ricordo buio e aprire altri fronti. Genova per me è anche Don Gallo, Fabrizio De André, i carruggi, il concerto di Manu Chao.

Paolo, maglietta blu e cappello, e Davide, maglietta nera, sulla destra in basso, in Africa

Come hai vissuto Genova in questi 20 anni?

D: Come dicevo prima, non bene. Ho ascoltato e visto tutto su Genova, film, libri, podcast, è stata ed è quasi un’ossessione, mi rendo conto oggi che in quelle sale cinematografiche o su quei libri o alla radio mi sentivo spesso solo, mi ripiegavo sul mio dolore, salivano lacrime calde di rabbia. Personalmente è stato ed è qualcosa con cui ancora fatico a fare i conti, da un punto di vista sociale e politico è stato certamente un motore, che mi ha spinto ad un impegno che è parte di me.

In Africa, nelle baraccopoli di Tijuana, in Palestina, a Milano, quei giorni sono sempre stati presenti.

Emotivamente resta difficile ancora parlare di Genova, sentire alcuni audio di quei giorni, soprattutto leggere chi ancora disprezza quelli come noi, che c’erano e hanno messo i corpi in mezzo alle strade di Genova.

P: Genova è uno dei due viaggi di cui non sono stato finora in grado di scrivere. 20 anni di articoli, libri, film, documentari. Alcune volte ho interrotto la mia vita per chiamare Dax o lo Zio per chiedere conferma di qualche ricordo.

Ancora oggi con qualcuno mi capita che arriva un momento in cui ci si domanda “Tu eri a Genova?” e, quando la risposta è affermativa, spesso non si aggiunge altro, non serve. In 20 anni ho vissuto un’informazione schiava, fetida, che mi ha raggiunto dalle parole di chi a Genova non c’è stato. Genova è stata un tassello strano della mia identità modulare, m’interrogo su quanto sia connessa a percorsi precedenti e successivi. E se di Genova ho sempre parlato poco è anche qualcosa di cui non ho mai smesso realmente di parlare. Qualcosa di straziante, qualcosa di irrisolto.

Cos’è Genova dopo 20 anni?

P: Per quello che posso saperne io (molto poco) Genova è un punto di arrivo di un movimento eterogeneo, nato dal basso, che poteva (e chissà se l’avrebbe fatto) rinforzare la cultura dei diritti nel mondo, che avrebbe potuto proporre orizzonti culturali in cui avrei voluto formarmi e magari dire la mia. Un movimento, finalmente, che pareva avere la sapienza di guardare all’importanza dei valori che uniscono e non alle differenze e ai personalismi.

Genova è un punto di partenza di percorsi individuali e gruppali di chi ha conosciuto un’ingiustizia famelica, di chi ha rilanciato il suo impegno in rivoli professionali (cooperazione italiana, non profit) ma non necessariamente (NO TAV, controinformazione). Genova dopo 20 anni è un fallimento dello Stato certificato da assoluzioni, promozioni, vite rovinate per sempre. Uno Stato che si è fatto Antistato, di cui ci s’interroga su quanta parte sia marcia. In molti se lo chiedevano da ben prima di Genova, in molti l’han capito con i crimini di Bolzaneto, della Diaz, in piazza Carlo Giuliani Ragazzo (già piazza Alimonda).

D: Genova resta un buco nero da un punto di vista emotivo, ancora mi ritrovo con gli occhi umidi ad ascoltare i racconti di chi c’era, a condividere uno spaesamento ripensando a quei giorni. Condividere resta una parola chiave, in questi 20 anni spesso Genova è stata una ferita su cui ripiegarmi, isolarmi, in cui stare da solo. Oggi dopo 20 anni Genova è condividere quel che successo e attualizzarlo – penso ai codici identificativi delle forze dell’ordine ma anche alla repressione violentissima delle primavere arabe o dei movimenti in Turchia – e riportare alla luce i temi che avevamo portato a Genova.

Questo è quello che mi “stupisce” maggiormente: i temi, 20 anni dopo, sono gli stessi e sono più che mai attuali: i cambiamenti climatici, la tassa sulle rendite finanziarie, la libertà di movimento e la repressione dei migranti, la cancellazione del debito dei paesi più poveri. La rabbia resta e resterà in parte, soprattutto pensando alle carriere dei vertici delle forze d’ordine e dei politici di quei giorni e agli anni di carcere che si sono fatti i manifestanti. Genova resterà parte di me, mi auguro sempre come spinta a fare di più per tutti noi. L’obiettivo ancora oggi è trasformare quella ferita in apertura.

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