Le Funne hanno visto il mare9 min read

10 Marzo 2016 Cultura -

Le Funne hanno visto il mare9 min read

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funne mare

Ingmar Bergman, regista svedese che ha fatto la storia del cinema, diceva che:

Il film, quando non è un documentario, è un sogno

Ma cosa succede quando un documentario diventa il mezzo per realizzare un sogno? Succede che viene dimostrata una cosa che sosteneva un altro mostro sacro del cinema, François Truffaut:

L’arte del film può esistere solo e davvero attraverso un tradimento altamente organizzato della realtà

Non facciamoci ingannare dalla parola tradimento, che generalmente porta con sé un significato negativo. Qui tradire vuol dire svelare, come quando diciamo, ad esempio, che “lo sguardo tradisce il desiderio”. Insomma, il tradimento della realtà è anche il suo svelamento.

A proposito di sogni e tradimenti, avete sentito parlare delle Funne? Le signore anziane tra i settanta e i novant’anni di Daone, un paesino di poco più di seicento anime in una valle del Trentino, che hanno realizzato il loro sogno di vedere il mare per la prima volta.

Un sogno per cui le funne (nel dialetto locale: donne) erano disposte a tutto: hanno preparato e venduto merletti e torte fatte in casa, e hanno anche posato per un calendario. Ma ciò che ha realmente permesso loro di raggiungere il mare è stato il cinema, e l’Internèt.

Proprio così, una raccolta di crowdfunding le ha aiutate a raggiungere la cifra necessaria per poter permettersi il viaggio; ma tutto quello che è successo, non è semplicemente stato parte, perché “documentato”, del film girato dalla regista Katia Bernardi, che ha seguito passo passo la loro avventura fino al mare della Croazia. Tutto quello che è successo, in qualche modo, è successo grazie al documentario stesso. E il bello deve ancora venire, perché il film deve ancora venire.

Per capire meglio come è stato pensato il progetto Le Funne. Le ragazze che sognavano il mare e da cosa sia dipeso l’incredibile successo mediatico (nazionale e non, visto che anche la Bbc si è interessata al caso), ho fatto una chiacchierata con i due principali produttori del documentario, Luigi Pepe della casa di produzione Jump Cut di Trento e Davide Valentini, della Eie Film di Torino.

Come possiamo spiegare il successo mediatico delle Funne?

Davide: prima di tutto parliamo di un particolare successo, che c’è stato anche se il film ancora non è uscito. Il fatto è che la regista e autrice della storia, Katia Bernardi, si è inventata un meccanismo narrativo che rappresenta un’innovazione per un documentario. Nessuno ha mai fatto un’operazione di questo genere; un’operazione di comunicazione che ha reso la storia famosa su tutti i media nazionali e internazionali prima che il film uscisse; di fatto creando un caso, senza che venisse fuori in maniera così evidente che ci fosse un film dietro.

Luigi: Funne è un progetto di successo soprattutto per come è stato costruito l’audience. Non mi è mai capitato di lavorare su un documentario in cui si fosse creato un’audience così significativa, prima ancora che iniziassero le riprese del film. L’intuizione di Katia è stata notevole, inserire il crowdfunding nella struttura narrativa del documentario ha permesso di creare una community intorno alle funne che si è autoalimentata grazie alla viralità dei social, amplificata a sua volta dalla forte copertura mediatica. Il fatto che il crowdfunding non servisse a finanziare il film, ma il viaggio delle protagoniste, ha generato grande curiosità e un effetto inaspettato sull’opinione pubblica e i media. Una cosa difficile da prevedere.

funne mare

A cosa si è appassionato il pubblico secondo voi?

Luigi: probabilmente il contrasto ironico è l’elemento principale che ha generato interesse; la carica ironica. Il crowdfunding è una delle parole di questo decennio, se ne parla tanto in diversi contesti (sociali, di ricerca, di mercato) e il fatto che delle signore anziane, a digiuno di tecnologia, abbiano aderito a questa forma di finanziamento online è stato il primo elemento di ironia nella struttura narrativa. Ovviamente, come in qualsiasi documentario, la realtà viene osservata e diretta dall’autore. Katia ha avuto l’idea del crowdfunding già nella fase di sviluppo del film. Questa alternativa è stata inserita in un contesto di realtà ed è diventata essa stessa realtà. Le signore hanno aderito con entusiasmo, dopo aver chiesto cosa fosse il crowdfunding, naturalmente. Hanno capito perfettamente cos’è, e adesso lo padroneggiano; ovviamente non dal punto di vista pratico, non sarebbero in grado tecnicamente di fare una campagna su Indiegogo, ma hanno capito a cosa serve e come funziona. Insomma, hanno capito la differenza fra il crowdfunding e la colletta. Far passare questa cosa è stato il problema principale quando lo abbiamo dovuto spiegare ai loro coetanei, parenti, amici.

Davide: il pubblico si è appassionato alla storia di questo gruppo di nonnine spiritose per la sua semplicità. In tutte le occasioni pubbliche e professionali in cui ci siamo trovati a presentare la storia è stata la comicità assoluta di questa vicenda a fare la differenza. Una spiegazione che mi sono dato è che ci sia una grande fame, una grande necessità di storie autentiche, di storie vere e di emozioni vere. Tantissimi giornalisti hanno insistito molto per venire con noi a vedere lo sguardo di queste nonne che non hanno mai visto il mare. Il segreto è questa semplicità e unicità. Naturalmente, dietro c’è la mano di un’autrice che ha escogitato dei meccanismi innovativi.

Luigi: sì, poi siamo in tempi di crisi economica, le persone lo sentono; in questo clima di pesantezza le funne hanno intercettato il desiderio delle persone di leggerezza, come a dire: “viviamo in un momento difficile ma i sogni possiamo comunque provare a realizzarli”. Del resto il crowdfunding cos’è se non una risposta alla crisi?

Cosa pensate delle aspettative che si sono create rispetto al film?

Davide: c’è una grande aspettativa, ma non c’è niente di meglio per un produttore che trovarsi in una situazione del genere, cioè avere fra le mani ed essere coinvolti in una produzione che ha avuto una tale eco. È solo una cosa positiva che questa storia così semplice, partita in sordina, sia arrivata a questa notorietà. C’è un broadcaster importante in Italia che ha creduto nella storia e l’ha già comprata. Abbiamo visto in questi giorni il primo montaggio e ci sono grandi risate. È una commedia, l’unicità di questa storia rispetto al panorama del documentario italiano è nella leggerezza incredibile con la quale il genere documentario viene affrontato. È un genere molto raro perché è difficile trovare storie che abbiano una spinta sociale in grado di affrontare temi importanti con leggerezza. Parlando da produttore, le televisioni e il mercato sono affamati di prodotti di questo tipo.

Le protagoniste come hanno vissuto tutta questa situazione?

Davide: C’è un’immagine che Katia usa sempre. Tutto questo progetto è nato da un semplice ciclo di interviste a questa comunità di donne, ma l’autrice si è resa subito conto che c’era materia umana molto interessante da raccontare. Durante queste semplici interviste una di loro disse: “Allora Katia, ci porterai sul tappeto rosso” e una delle altre donne ha risposto:

però sul tappeto rosso ci portiamo un po’ di polenta, eh

Questo per dire che fin dall’inizio c’è stata molta ironia e quindi anche i riflettori sono stati affrontati in modo leggero. Ciò non toglie che tutto questo ha cambiato le signore, ad esempio l’intervista con radio Vaticana è stata una delle emozioni più grandi della vita di una delle protagoniste. Si sono trovate al centro dell’attenzione nazionale e questo, anche se avviene per pochi giorni, cambia chiunque. La cosa interessante è che hanno mantenuto una totale e assoluta spontaneità nel corso della storia e che a un certo punto hanno detto basta all’intervento di giornali, tv e media vari; non volevano che il battage mediatico potesse inquinare la loro emozione di andare a vedere il mare.

funne mare

Da un punto di vista professionale, come produttori cosa vi ha insegnato questo progetto?

Davide: il nostro mestiere è quello di rendere possibile agli autori di raccontare le loro storie trovando i finanziamenti per poterlo fare. Questa è la base del nostro lavoro. Rispetto al pubblico e al mercato io ho constatato con i vari interlocutori con i quali abbiamo avuto a che fare, soprattutto nel mercato televisivo nazionale, che ci sia un grande fame, come dicevo prima, di storie autentiche, di persone reali. Questo ci spinge ancora di più a fare i produttori di documentari. Se per un certo periodo la televisione ha avuto un grande interesse per le storie dei giovani, per attrarre un pubblico di giovani, ora posso affermare che le storie degli anziani sono molto interessanti per il mercato, anche delle reti più inaspettate. La chiave è la leggerezza che hanno gli anziani, mista alle loro esperienze e ai loro vissuti. Questo tipo di storie, lievi, leggere, ha grosse potenzialità perché il mercato documentaristico raramente le insegue, è più attento a dinamiche sociali, problematiche, aspetti conflittuali. Poi, naturalmente, non bisogna confondere la leggerezza con la superficialità.

Luigi: ci sono due cose che questo progetto mi ha insegnato. La prima riguarda il rapporto con i media, quelli tradizionali. Mi ha insegnato a relazionarmi meglio con loro e a capire quali aspetti di una notizia sono interessanti e possono essere coperti, insomma come comunicare questi aspetti. La notizia va presentata in un certo modo. Ho imparato che se i documentaristi dirigono la realtà i media spesso si avvicinano alla manipolazione. Sarà che non sono un giornalista e quindi posso prendermi questa responsabilità nel dirlo. L’altra cosa che ho imparato è l’importanza del design dell’audience, il lavoro sul pubblico, la creazione del pubblico, il segmento a cui proporre il progetto. Normalmente nei documentari e, soprattutto, nei film di finzione si lavorava sull’idea del soggetto, sull’idea del regista, quando ti andava bene riuscivi a costruire un prodotto ben tarato sui desideri di un broadcaster o di un distributore, ovvero su quello che loro pensavano che il pubblico volesse. Prima non partivi dal pubblico, ma dall’esigenza del broadcatser che crede di conoscere il pubblico. In questo caso abbiamo capovolto il paradigma. Siamo riusciti, prima ancora di avere un distributore, a creare un pubblico molto forte intorno a questo progetto. Un pubblico che fra l’altro abbiamo scoperto essere per la stragrande maggioranza un pubblico femminile, ma solo il discorso di genere meriterebbe un’altra intervista.

Esatto.

Ho sempre trovato ridicoli i sostenitori della morte del cinema. La magia del cinema si evolve e, volendo, per il pubblico non inizia sedendosi davanti allo schermo o, al massimo, nell’attesa precedente all’uscita del film nelle sale. Inizia addirittura prima che il film sia realizzato, grazie al legame del cinema con le potenzialità del web, le quali, per restare con le parole di Truffaut, consentono tradimenti molto interessanti.

Immagini | Simone Cargnoni – Jump Cut

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Sociologo, è co-fondatore di ProfessionalDreamers, casa editrice che promuove ricerca sulle relazioni tra spazio e società. Lavora nel non profit e collabora con la casa di produzione indipendente Jump Cut. Non si capacita che Rimbaud abbia smesso di scrivere a diciannove anni.
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