Fast Fashion, l’inquinamento che fa tendenza11 min read
Reading Time: 8 minutesOgni anno produciamo più di 100 miliardi di nuovi capi d’abbigliamento. Ogni secondo un camion pieno di tessuti viene bruciato o buttato in discarica. È il fast fashion: industria dell’abbigliamento che produce collezioni ispirate all’alta moda, rinnovate in tempi brevissimi e a basso costo. Un‘industria che oggi vale 2,4 mila miliardi di dollari e che interessa tutti noi, ci tocca da vicino, molto vicino, letteralmente ci tocca la pelle.
Come nasce l’industria della moda a basso costo?
In Europa e nel Nord America, già dal 1700 abbiamo le prime tracce di negozi di abbigliamento economico, confezionato e pronto per essere indossato. Chiamati “Slop”, prendono il nome dalla marina militare britannica, e fanno riferimento ai vestiti indossati al posto dell’uniforme ufficiale. In vendita anche abiti accessibili a quella classe che non può rivolgersi a botteghe di sartoria. Poi la rivoluzione industriale e il brevetto della macchina da cucire riducono i tempi di produzione e il costo della manodopera. L’industria della moda prende velocità, cresce la produzione di abbigliamento in serie: è l’inizio di un percorso che porterà a diffondere e normalizzare l’idea di comprare vestiti non cuciti su misura.
Durante la seconda guerra mondiale, il razionamento delle stoffe dà una svolta all’industria della moda. La necessità di risparmiare sul materiale porta ad una nuova tendenza: si accorciano gli orli delle gonne, prediligendo linee più dritte ed essenziali, vengono eliminati gli eccessi e si diffonde uno stile austero, militare, quasi in sintonia con la guerra in corso. La scarsa reperibilità e l’alto costo delle stoffe dà il via all’impiego di fibre sintetiche: primo fra tutti il nylon, con un apice di vendite altissimo negli anni ’40.
Compaiono le prime grandi compagnie tessili: tra le più conosciute c’è H&M, nata in Svezia nel 1947, in principio chiamata Hennes. Tuttavia non ha ancora l’aspetto delle odierne compagnie di fast fashion. Sarà Zara nel 1975 in Spagna ad intuire la strada per un nuovo modello di business. L’idea è semplice: offrire abiti di tendenza a prezzi ancora più bassi. Verso la metà degli anni ’80 si ha la spinta finale: nasce Inditex, la Holding di Zara che in poco tempo ingloba compagnie dello stesso genere, aumentando la competitività e diffondendo il modello oltre i confini europei.
Il modello di business del fast fashion
É il New York Times ad usare per la prima volta il termine fast fashion, in un articolo dedicato all’apertura di uno store di Zara a New York il 31 dicembre 1989: “Fashion; Two New Stores That Cruise Fashion’s Fast Lane” esordisce così il titolo. L’articolo riporta la grande novità: ogni settimana c’è una nuova spedizione dalla Spagna e ci vogliono solo due settimane tra una nuova idea e l’arrivo della collezione.
Sono gli anni 2000 e il fast fashion afferma il suo modello in un mercato in costante trasformazione e soggetto ai gusti del momento. Il bisogno è di rinnovarsi continuamente e questo abbrevia drasticamente il ciclo della moda. Il concetto di stagione è superato, sostituito da numerose mini-collezioni, fino a 52 nel corso dell’anno. Sono presentate e consegnate al punto vendita con la stessa velocità con cui cambiano i gusti dei clienti, sacrificando sempre di più la qualità del prodotto e accorciandone il ciclo di vita.
Il fast fashion impone la realizzazione di piccoli lotti a varietà elevata, così da presentare al cliente modelli percepiti come “esclusivi”, perché disponibili in quantità limitate, ma soprattutto sempre al ritmo delle nuove tendenze, intercettate grazie al web prima ed ai social poi. Lo shopping online e la possibilità dei resi trasforma l’acquisto in un’attività semplice e istantanea, sempre più accessibile. Il fattore tempo è strategico: è la logica del “Quick Response”, una risposta rapida ai mutevoli orientamenti della domanda.
Il costo sociale e ambientale della fast fashion
Earnest Elmo Calkins, pubblicitario americano che ha aperto la strada all’uso dell’arte nella pubblicità, divise i beni di consumo in due categorie: i prodotti che usi per lungo tempo, come la lavatrice o il frigorifero, e quelli che consumi, come le sigarette o le gomme da masticare. Per il pubblicitario il consumismo significava far sì che le persone trattassero le cose che usano come quelle che consumano. E così è stato per il Fast Fashion: una moda “usa e getta”, che si impone nel mercato mondiale con una media di crescita del 10% annuo e che impiega più di 75 milioni di lavoratori in tutto il mondo.
Qual è il costo in termini ambientali e sociali?
Quando pensiamo ai settori produttivi che hanno un effetto nocivo sull’ambiente, probabilmente non pensiamo a quello dell’abbigliamento. Eppure è tra i settori più inquinanti, secondo solo a quello dell’industria petrolchimica. Una ricerca, pubblicata su Nature Reviews Earth & Environment, esamina ogni passaggio della catena dell’industria tessile. Evidenzia come nel suo breve ciclo di vita un indumento del fast fashion produca emissioni inquinanti in ogni fase della lavorazione, oltre ad un elevato consumo energetico e di risorse naturali:
- Il 18% delle emissioni globali di anidride carbonica sono prodotte dall’industria manifatturiera.
- Il 20 % dell’inquinamento idrico industriale è dovuto alla lavorazione e la tintura dei tessuti .
- 190mila tonnellate all’anno di microplastiche finiscono negli oceani e sono attribuibili ai lavaggi dei capi in fibre sintetiche.
- 98 milioni di tonnellate sono le risorse non rinnovabili utilizzate nell’industria tessile.
- Il 25% di tutti gli insetticidi del mondo e il 10% dei pesticidi, viene impiegato per la lavorazione del cotone, soprattutto per la produzione di jeans.
- 11.000 litri d’acqua sono necessari per produrre un chilo di cotone.
- 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili vengono buttati ogni anno.
Tra i rifiuti tessili non ci sono solo scarti di lavorazione o prodotti giunti al termine del loro ciclo di vita, anche l’invenduto dei marchi di abbigliamento, buttato per fare posto nei magazzini alle nuove collezioni. Solo l’1% degli abiti viene riciclato, il resto finisce negli inceneritori o contribuisce alla nascita di nuove discariche, come quella nel deserto di Atacama in Cile. I vestiti arrivano da Asia, Europa o Stati Uniti, sbarcano al porto di Iquique e sono distribuiti in America Latina: tutto ciò che non viene acquistato, finisce nel deserto di Atacama dove, insieme alle dune di sabbia, montagne di vestiti disegnano un nuovo paesaggio. Oltre al vertiginoso aumento della produzione, l’utilizzo in larga scala di fibre plastiche ha inciso su come l’industria della moda impatta l’ambiente. Le materie prime sono lavorate per lo più in paesi in via di sviluppo, dove il costo della manodopera è bassissimo e non esistono norme che disciplinino la tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Insieme al costo di produzione, diminuisce anche la trasparenza sulla provenienza e sulla modalità di lavorazione dei tessuti.
Sweatshop, le fabbriche del sudore
La delocalizzazione dei processi di produzione inizia con la crescita del mercato globale. Già dagli anni settanta, la produzione di abbigliamento si è spostata dall’Europa occidentale e dal Nord America al “sud” del mondo. Dietro al basso costo di un paio di jeans si nasconde l’umiliante paga di 3 dollari al giorno per milioni di lavoratori e lavoratrici tessili senza diritti né tutela.
Prendiamo l’esempio di Shein, azienda internazionale di e-commerce con sede a Hong Kong, ormai famosa per la vendita di capi di abbigliamento a prezzi stracciati. Secondo quanto riportato da un’indagine effettuata da Public Eye, sono circa 17 le fabbriche che riforniscono lo store ma, le condizioni igienico-sanitarie del cosiddetto ‘Villaggio Shein’ non coincidono con l’idea di un’azienda internazionale, che produce oltre un milione di capi di abbigliamento al giorno. Numerose, piccole e soffocanti officine, con corridoi e scale bloccate da vestiti e rotoli di tessuto, senza uscite di emergenza. I lavoratori ricevono 4 centesimi a capo, ne producono almeno 500 al giorno, per 18 ore lavorative. Sono chiamate “Sweatshop”, letteralmente fabbriche del sudore.
Per ricordare uno degli esempi più emblematici ci spostiamo in Bangladesh. Il Paese è il secondo produttore di abiti al mondo, con quasi 5 milioni di persone che lavorano nell’industria dell’abbigliamento e più di 5000 fabbriche che producono abiti per brand occidentali. A Savar, sub-distretto nella grande area della capitale di Dacca, il 24 aprile del 2013 crolla il Rana Plaza. Cede per danni strutturali la palazzina di otto piani, che ospita diverse fabbriche tessili per marchi internazionali. Le vittime sono 1.129, i feriti 2.500. Nonostante il divieto di proseguire le attività in un edificio che presenta delle evidenti crepe, si è continuato a lavorare come di consuetudine. Ma le cause del disastro hanno radici ben più profonde: i duri modelli di sfruttamento del lavoro sono profondamente radicati nella storia stessa del settore dell’abbigliamento.
È sbagliato considerare il Rana Plaza come un avvenimento eccezionale: oltre al luogo di lavoro fatiscente, le fabbriche impongono ai dipendenti regimi di disciplina autoritaria, come turni estenuanti o l’agghiacciante pratica di chiuderli a chiave all’interno degli stabilimenti, rendendo vano ogni tentativo di fuga in caso di emergenza. Anche in assenza di gravi disastri, i lavoratori sono gravemente colpiti dalla durezza di un lavoro che può essere sostenuto per un tempo limitato. Solitamente intorno ai trent’anni di età, gli operai sono pronti per essere licenziati e buttati via come capi di abbigliamento usati. Una sorta di ‘scarto’ della lavorazione da smaltire lontano, una forma di schiavitù moderna sostenuta dall’industria tessile. Tuttavia la tragedia del Rana Plaza e le molte altre avvenute negli anni a seguire, hanno iniziato a scuotere l’opinione internazionale. Il mondo inizia a rendersi conto dell’enorme costo umano celato dal frenetico business del fast fashion.
Le campagne promosse negli ultimi anni lanciano appelli di sensibilizzazione, come quello ai produttori di jeans per fermare il sandblasting. Una tecnica per schiarire i tessuti denim, tramite un processo chimico che, se effettuato senza le dovute precauzioni, può causare una forma acuta di silicosi, una malattia polmonare mortale. Questo procedimento è utilizzato da piccole aziende che si trovano in Paesi produttori di jeans come il Bangladesh, la Cina, la Turchia, il Brasile e il Messico. Paesi che non prevedono nessuna tutela per la salute dei lavoratori.
I processi chimici non controllati sono dannosi per chi confeziona i vestiti, come per chi li indossa. Health Canada, ha fatto esaminare in laboratorio 38 capi di abbigliamento e accessori venduti da diversi e-commerce. I risultati dimostrano come le sostanze chimiche presenti nei prodotti sono in quantità superiori a quelle consentite dalle leggi canadesi, e di riflesso anche da quelle europee.
Slow Fashion, come invertire la tendenza
Nel 2007 un team di ricercatori di Stanford, MIT e Carnegie Mellon ha esaminato l’attività cerebrale di soggetti sottoposti ad un test che consiste nel prendere decisioni sull’acquisto di un prodotto. Alla vista di un oggetto desiderabile, il centro del piacere del soggetto si illumina, mentre alla vista del prezzo, si nota la reazione della corteccia insulare che elabora il dolore. La decisione determina uno stato competitivo, tra il piacere immediato dell’acquisto e un altrettanto immediato dolore al momento del pagamento. Il fast fashion alimenta perfettamente questo processo neurologico: l’abbigliamento incredibilmente economico rende facile l’acquisto e le frequenti nuove collezioni ci fanno desiderare sempre qualcosa di nuovo. Un circolo vizioso che ci spinge a comprare anche se non ne abbiamo bisogno.
Riconsiderare le basi su cui si reggono le nostre abitudini di consumo, porta alla nascita dello Slow fashion. Si parla per la prima volta di “moda lenta” nel 2007, quando la consulente di design sostenibile Kate Fletcher ha usato queste parole per definire un “tipo di produzione e di consumo di abbigliamento che vuole scardinare il consumismo crescente che permea l’ambito della moda”. Non è una tendenza, ma un approccio consapevole ed etico, che pone al centro del suo modello la tutela ambientale e i diritti dei lavoratori. Sempre più brand sposano una moda sostenibile, utilizzando materiali animal-free, riciclati e bio-based, come ecopelle in fibre di mais, cotone organico e il poliestere riciclato.
Il concetto di moda sostenibile spinge ad una valorizzazione delle tradizioni produttive, delle arti e le risorse che ogni paese può offrire in contrapposizione all’adozione globale di canoni estetici e capi standardizzati.
E noi, cosa possiamo fare per contribuire al cambiamento?
- Comprare meno vestiti: se qualcosa non serve, è inutile acquistarla.
- Prediligere marchi diversi da quelli del fast fashion.
- Scegliere tessuti biologici e/o certificati: FSC (tessuti generati da fibre provenienti da fonti forestali gestite in maniera responsabile) o cotone GOTS (Global Organic Textile Standard)
- Non comprare capi in fibre sintetiche (poliestere, nylon/poliammide, spandex, acrilico e PVC) che sono difficili da smaltire e che rilasciano quantità di microfibre e microplastiche durante il lavaggio.
- Riciclare gli abiti ancora in buone condizioni, portandoli in centri di raccolta aderenti a progetti di economia circolare e dell’usato.
La frequenza con cui facciamo acquisti, la scelta dei capi e lo smaltimento dei vestiti che non usiamo più, hanno un impatto importante sul pianeta. Cambiare alcune delle nostre abitudini è una scelta che può contribuire alla transizione verso una moda sostenibile.
Fonti