Crisi climatica, trovare le parole per raccontarla8 min read
Reading Time: 7 minutesLa crisi climatica è una brutta notizia e per questo è difficile da raccontare. I media italiani ne parlano poco e male. Per costruire una conoscenza diffusa e rendere possibile l’azione climatica serve maggiore attenzione ai messaggi veicolati.
L’informazione sul clima in Italia
Da ormai tre anni Greenpeace Italia analizza in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia l’informazione sui cambiamenti climatici in Italia. Il monitoraggio esamina come la crisi climatica viene raccontata sui cinque quotidiani nazionali più diffusi (Corriere della Sera, la Repubblica, Il Sole 24 Ore, Avvenire, La Stampa) e sulle edizioni serali dei telegiornali delle reti Rai, Mediaset e La7. Sui cinque quotidiani sono monitorate anche le pubblicità delle aziende dei combustibili fossili, del settore automotive, delle compagnie aeree e crocieristiche.
I dati più recenti, relativi ai primi quattro mesi del 2024, mostrano che sui principali quotidiani e telegiornali italiani la copertura della crisi climatica è diminuita, mentre è aumentato lo spazio offerto a chi si oppone alla transizione ecologica. Gli articoli dedicati alla crisi climatica sono stati in media appena uno ogni due giorni.
Lo studio ha confermato inoltre la dipendenza della stampa italiana dalle pubblicità delle aziende più inquinanti, come le compagnie del gas e del petrolio, dell’automotive, aeree e crocieristiche: con l’eccezione di Avvenire, sugli altri quotidiani si è arrivati a una media di quattro inserzioni pubblicitarie a settimana, più degli articoli dedicati alla crisi climatica. L’influenza del mondo economico legato al fossile sui media emerge anche dall’analisi dei soggetti chiamati a raccontare la crisi climatica sui giornali: la voce più ascoltata proviene da aziende ed esponenti dell’imprenditoria (17,5%), seguiti da politici e istituti nazionali (13%) e internazionali (12%), tecnici e scienziati (11%) e organizzazioni ambientaliste (7%).
I social mostrano tendenze in parte simili a quelle dei media tradizionali, in parte diverse. Analizzando i post delle pagine di informazione più seguite su Instagram, emerge che la maggior parte dei contenuti si sono concentrati nei periodi delle alluvioni in Emilia-Romagna e della Cop28, cioè quando l’argomento è stato giocoforza notiziabile. D’altra parte, un post su quattro ha nominato le cause della crisi climatica e uno su due le conseguenze. Questa è una buona notizia, perché andare oltre la semplice cronaca degli effetti visibili del cambiamento climatico, riportando lo sforzo quotidiano fatto dalla scienza dell’attribuzione nel definire legami certi tra eventi meteo e riscaldamento globale, è il primo passo per costruire una diffusa alfabetizzazione climatica. Rispetto all’informazione fatta da televisione e giornali, inoltre, nella comunicazione social viene dato spazio alla voce degli esperti scientifici (32%) in misura decisamente maggiore rispetto ad aziende ed esponenti dell’imprenditoria (11%) e associazioni ambientaliste (11%). Infine, diversamente da quanto avviene sui media tradizionali, nel 4% dei post sul clima si parla esplicitamente di responsabili, puntando il dito contro compagnie petrolifere e altre aziende inquinanti.
Queste divergenze sollevano una serie di questioni: il pubblico è in grado di interpretare visioni contrastanti, capire di chi fidarsi e perché? In che modo la crescente frammentazione delle diete mediatiche – con i giovani che ottengono sempre più notizie dai social media, mentre le generazioni più anziane continuano a preferire le fonti di informazione tradizionali – influenza l’opinione pubblica sulle politiche climatiche?
La moltiplicazione degli spazi e delle forme dell’informazione climatica rischia di diventare un ulteriore ostacolo sulla strada verso un dialogo aperto, inclusivo e maturo sul clima. Come ha dichiarato Mary Sanford, ricercatrice del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e autrice di uno dei primi studi al riguardo, “le divergenze che abbiamo rilevato tra i media tradizionali e i social media […] riflettono la grande sfida che affrontiamo nel costruire una narrativa coesa sul cambiamento climatico e sulle politiche climatiche, un prerequisito per mobilitare efficacemente l’opinione pubblica.”
Negazionismo climatico: come rispondono i media?
L’evoluzione del negazionismo climatico complica ulteriormente questo quadro. Nato all’inizio degli anni ’90 negli Stati Uniti con la Global Climate Coalition, un gruppo di lobby industriali che cercò di assumere figure competenti per delegittimare le politiche di riduzione delle emissioni di gas serra, il negazionismo ha attraversato diverse fasi: dalla negazione dell’esistenza del cambiamento climatico (1), alla messa in discussione della sua origine antropica (2), fino alla messa in discussione del consenso scientifico sui due punti precedenti (3). Dopo che gli studi scientifici hanno dimostrato che il 99% degli scienziati e delle scienziate concorda sull’esistenza del cambiamento climatico e sulle sue cause, il negazionismo ha assunto forme più sottili. La fase quattro prevede di minimizzare l’urgenza del problema, la fase cinque di negare che sia possibile risolvere il problema, la fase sei consiste nel dire che ormai è troppo tardi per risolvere il problema, e quindi non dobbiamo neanche provarci. Così, tra il proporre distrazioni – riponendo ogni speranza su tecnologie potenzialmente salvifiche, ma ad oggi non disponibili, come la fusione nucleare o la cattura dell’anidride carbonica –, il fatalismo, le numerose teorie complottiste che mettono in discussione la validità delle soluzioni esistenti, e in generale una narrativa confusa e contraddittoria, il negazionismo prova a ridurre l’urgenza percepita della crisi.
In questo contesto, il semplice fact-checking e il debunking – il lavoro di confutazione di notizie e affermazioni false o antiscientifiche – risultano inefficaci. Come ha scritto su Jacobin la scienziata sociale ambientale Holly Jean Buck, il compito oggi non è solo correggere le falsità, ma offrire alle persone strumenti concreti per capire la complessità del problema. Il negazionismo, nelle sue molte forme, può infatti esistere e proliferare perché va ad occupare uno spazio lasciato vuoto dai media e dal dibattito pubblico, e che andrebbe invece utilizzato per sviluppare altri tipi di narrative, capaci di coinvolgere le persone nella transizione ecologica e motivarle ad agire. Secondo Buck, “se c’è un ruolo oggi per gli intellettuali del clima – i commentatori, i giornalisti, le ONG, i leader politici – è focalizzarsi sulle nuove opportunità di azione sul campo, cucire quello che stanno facendo le persone sui singoli territori in una storia più grande, che possa potenziare la motivazione di tutti”.
La speranza è una virtù abusata?
Costruire nuove narrative non significa smettere di guardare in faccia la realtà e riconoscere la gravità della situazione. Se fatalismo e rassegnazione sono una forma sofisticata di negazionismo, anche l’ottimismo a tutti i costi rischia di diventare una distrazione. “Ma se fosse proprio la speranza il problema?”, si chiede Jonathan Watts, redattore ambientale globale del Guardian in un recente articolo. “Se la speranza fosse l’antidepressivo che ci tiene tutti piacevolmente intorpiditi, quando avremmo ogni diritto di essere tristi, preoccupati, spinti all’azione o semplicemente arrabbiati?”.
Dalla fine degli anni Novanta gli studi di psicologia climatica hanno effettivamente rilevato che le emozioni negative, come la paura derivante dalla consapevolezza delle conseguenze pericolose del riscaldamento globale, sono buoni predittori del coinvolgimento delle persone in azioni proambientali. Nuove ricerche dimostrano che le persone colpite da disturbi psicologici legati al clima, come l’ecoansia, sono più propense ad agire collettivamente, mentre l’ottimismo forzato può indurre a un senso di compiacimento e disimpegno. Ma allora, perché non siamo abbastanza spaventati? Perché, nonostante i crescenti impatti del cambiamento climatico, sempre più visibili e vicini a noi, collettivamente continuiamo a percepire la crisi climatica come una minaccia vaga e lontana? Come ha spiegato la psicologa Elke Weber, la difficoltà a percepire il rischio climatico come immediato e personale è legata alla natura probabilistica delle minacce legate al riscaldamento globale. Come specie umana, infatti, tendiamo ad allarmarci molto di più rispetto a un certo rischio se ad esso possiamo associare delle esperienze personali e recenti, mentre tendiamo a sottovalutarlo se possiamo valutarlo solo sulla base di descrizioni statistiche fornite da altri. In molte regioni del mondo, Italia inclusa, l’esperienza personale di conseguenze gravi ed evidenti del riscaldamento globale è ancora rara, ma questa situazione sta rapidamente cambiando. Aiutare le persone a interpretare correttamente i fenomeni in atto e a riconoscere il cambiamento climatico come loro causa può migliorare la percezione collettiva del rischio e, di conseguenza, favorire risposte più efficaci alla crisi climatica.
Trovare le parole giuste
La crisi climatica è anche una crisi del linguaggio. Numerosi termini specialistici del linguaggio scientifico sul clima – per fare qualche esempio: mitigazione, adattamento, decarbonizzazione – sono compresi solo da una stretta minoranza del pubblico. Ma anche alcune scelte lessicali della comunicazione mediatica generalista possono allontanare da una corretta comprensione del problema. Perché continuiamo a parlare di “cambiamento” climatico, quando si tratta di una vera e propria “crisi”? Perché parliamo degli impatti del riscaldamento globale sulle generazioni future, invece che su quelle presenti? Sono alcune delle domande a cui negli ultimi anni hanno provato a rispondere vari giornali e organizzazioni ambientaliste.
Ad aprire la strada è stato il Guardian, nel 2019, quando ha deciso di utilizzare “crisi climatica” e “collasso climatico” al posto del consueto “cambiamento climatico”, spiegando come quest’ultimo non fosse più considerato “adeguato a riflettere la gravità complessiva della situazione”. In tempi più recenti, il pilota e ambientalista svizzero Bertrand Piccard ha proposto di sostituire termini come “generazioni future” con “generazione attuale”, per trasmettere un senso di responsabilità immediata e di urgenza. “Sappiamo che il framing delle “future generazioni” funziona bene come narrazione, ma non ha l’urgenza necessaria; quindi, qualsiasi inquadramento che anticipi l’orizzonte temporale, come quello della “generazione attuale”, è efficace”, ha spiegato Piccard.
Per risolvere la crisi climatica certo non bastano le parole, ma cambiare comunicazione e narrazione potrebbe essere tanto importante quanto mettere a punto nuove tecnologie per la transizione. Se ad oggi, nonostante le evidenze scientifiche, gli scenari climatici e le soluzioni su larga scala disponibili, come specie fatichiamo a cambiare direzione, forse è giunto il momento di cercare nuove parole per descrivere la realtà che stiamo vivendo e il ruolo che in essa vorremmo giocare. Oggi, nonostante le evidenze scientifiche, gli scenari climatici e le soluzioni su larga scala, fatichiamo a cambiare direzione. Forse è il momento di trovare nuove parole per descrivere la realtà che viviamo e il ruolo che vogliamo avere al suo interno.